La sifilide nella storia, nell’arte e nell’attualità
L. Valenzano
L’origine della malattia è ancora oscura e fonte di numerose ricerche e discussioni oscillanti essenzialmente fra due diverse visioni. Da un lato i sostenitori della Teoria colombiana o americanista, per i quali la sifilide o Lue sarebbe stata importata dai marinai di Cristoforo Colombo di ritorno dalla scoperta del Nuovo Mondo (1492); dall’altra parte invece coloro che ritengono che la malattia fosse già presente, seppur con aspetti diversi, nel Vecchio Mondo (Teoria europeista o precolombiana).
Un dato storicamente accertato è comunque quello della sua comparsa, avvenuta in Italia attorno al 1495. In quell’anno infatti, Marcello Cumano, medico militare nella battaglia di Fornovo, redigeva precisa e dettagliata testimonianza di un “nuovo morbo”, osservato per la prima volta sulla pelle dei mercenari di Carlo VIII di Francia, impegnati nella conquista di Napoli.
“Molti scudieri e fantini erano coperti di pustole sul viso e su tutto il corpo, che iniziavano in genere dal prepuzio o dal glande, e producevano prurito. All’inizio avevano talvolta delle piccole vesciche che per effetto del grattarsi ben presto si ulceravano. Qualche giorno più tardi, sopraggiungevano acuti dolori alle braccia, alle cosce, ai piedi, con delle grosse pustole, che duravano anche un anno e più”.
Il “Grande Vaiolo”, come fu subito chiamato, venne imputato a vari responsabili, e da ciò derivarono le più diverse denominazioni: “Mal francese o gallico” in Italia e in Gran Bretagna, “Mal napoletano” in Francia, “Vaiolo spagnolo” in Olanda, “Mal tedesco” in Polonia e in Spagna etc.
Inoltre, nel 1496 Joseph Grünpeck, nel suo Tractatus de pestilentiali scorre sive mala de Franzos, confermava la provenienza e la dilagante diffusione epidemica: “Negli ultimi tempi in ogni angolo di mondo vidi dei flagelli, delle malattie orribili e molte infermità abbattersi sul genere umano. Tra questi, dalle rive occidentali della Gallia si insinuò un male così crudele, così triste, e così infetto che fino ad allora non si era visto niente di così atroce sulla terra, niente di più terribile e di più disgustoso”.
Assai precoce è stata l’intuizione dell’origine sessuale, ossia “venerea”, della malattia, riferita nel 1497 da Gillino da Ferrara che, sapiente interprete del diffuso allarme, scriveva: “Dico che questo male è contagioso, raccomando ancora una volta di non unirsi in alcun modo con donna affetta da questa pericolosa malattia perché ho visto molti di coloro che sono colpiti da questo male provare le sofferenze più atroci”.
Ed ancor più fantasiosamente nel 1497 Gaspar Torella, nel Tractatus cum consultis pudendagram, seu morbum gallicucum, arrivava a consigliare: “..se il pene risulta ulcerato dopo un rapporto con una donna infetta è bene lavarlo bene con sapone delicato partendo dall’alto al basso, oppure applicarvi un gallo o un piccione spiumato e spellato vivo o anche una rana viva aperta in due”.
Si delineava così chiaramente la novità e gravità di una malattia “non mai prima vista”, subito riconosciuta “contagiosa, diffusa, acuta, severa, venerea, turpe, peccaminosa”...e perciò denominata la “nuova lebbra”, definita anche “incurabile malattia, male dell’anima” o persino “spurzissimo mal, tamen pochi ne more”.
Dapprima la sifilide si manifestò iperacuta, grave e fulminante: lo stesso Carlo VIII ne morì a ventotto anni per una rapidissima forma cerebrale, come anche molti altri sventurati. Solo dopo alcuni decenni l’infezione assunse gradualmente un decorso subacuto o subcronico, piuttosto simile a quello della forma attuale.
Molteplici e fantasiosi furono i rimedi consigliati e messi in atto. Fra questi certamente il più celebre è il cosiddetto “legno santo o delle Antille o guaiacum officinale”, ritenuto opportuno perché proveniente dagli stessi Paesi di origine della malattia, in ottemperanza all’antico principio ippocratico del “similia similibus curantur”. Non meno noto ed altrettanto inefficace fu il mercurio, somministrato sotto forma di vaporizzazioni di cinabro nelle “botti di Modica”, responsabili di catastrofici danni, spesso anche peggiori di quelli provocati dalla malattia stessa.
Perciò appare più che giustificato e comprensibile l’antico detto popolare: “Una notte con Venere e tutta la vita...con Mercurio”, ulteriore testimonianza di un diffuso e impietoso giudizio morale, che trova riscontro anche nella definizione: “mal dell’anima” per “indomabile istinto”.
L’evento morboso e le sue relative molteplici implicazioni hanno grandemente e diversamente contrassegnato i secoli successivi.
In particolare, l’“immaginario” della malattia si è presentato con interpretazioni e comportamenti assai variegati: dallo “stupito e terrorizzato” Rinascimento, ai “libertini” Seicento e Settecento, al “sifilofobico” Ottocento, ma sempre nella convinzione dell’ineluttabile realtà di “chi ce l’ha, chi l’ha avuta e chi ce l’avrà”, e così sino ai nostri giorni.
Ne sono stati illustri e inaspettati testimoni, talvolta anche scandalosi, numerose personalità storiche. Fra questi, il Papa “spagnolo” Alessandro VI al secolo Rodrigo Borgia, il suo figlio naturale Cesare Borgia soprannominato “Il Valentino”, il bellissimo Sebastiano Gonzaga Duca di Sabbioneta e tanti altri, tutti inesorabilmente e precocemente deceduti.
Fantasioso ed inevitabile il contagio, le cui conseguenze traspaiono nella descrizione, particolarmente brillante e significativa, lasciataci da Voltaire nel suo “Candido”: “Caro il mio Candido, voi avete conosciuto Pasquina, la graziosa cameriera della nostra augusta padrona. Io godetti nelle sue braccia le dolcezze del paradiso, le quali m’han causato poi queste pene d’inferno che ora mi stanno struggendo, come vedete: ella n’era guasta, e a quest’ora forse ne è morta.
Gliene aveva fatto regalo un minorita dottissimo, che era risalito alla fonte. L’aveva presa da una vecchia contessa, che a sua volta l’aveva buscata da un capitano di cavalleria, che ne andava debitore a una marchesa, cui l’aveva data
un paggio, che la teneva da un gesuita, il quale ancor da novizio l’aveva avuta per linea diretta da uno dei compagni di Cristoforo Colombo. Quanto a me, non la darò a nessuno, perché sto per morire”.
Al contrario altri personaggi sembravano trarre dal contagio motivo di orgoglio e di folle entusiasmo. Giacomo Casanova sosteneva infatti che: “Il male che chiamiamo francese non accorcia la vita quando lo si sa curare, lascia solo delle cicatrici, ma ci si consola facilmente quando si pensa che ce le siamo procurate con il piacere, come i soldati che si compiacciono a guardare il marchio delle loro ferite, segno della loro virtù e fonte della loro gloria”.
Honorè de Balzac (1799-1850) descriveva il contagio come “meravigliosa patologia”, mentre al contrario Stendhal (1783-1842) parlava di “orribile dose di sifilide”. Dal canto suo Theophile Gautier (1811-1872), seppur morto per lue cardioaortica, narrava di essere affetto da uno “spendido male e Gustave Flaubert (1821-1880) esaltava il “tanto temuto e desiderato cancro”. Ma Charles Baudelaire (1821-1877), anch’egli morto per neurolue, si descrive dapprima “come uno studente che gioisce per aver preso la sua prima dose di sifilide”, ma poi si struggeva ammettendo: “ora la malattia sta ritornando con una nuova forma...ho nuovi segni sulla mia pelle...mi spaventa”. Stupefacente il comportamento di Guy De Maupassant (1850-1893) che gioiva dichiarando: “Ho la sifilide! Finalmente la vera sifilide! (...) e ne sono fiero, per tutti i diavoli, e disprezzo più di tutto i borghesi. Alleluja, ho la sifilide, e quindi non ho più paura di prenderla…”.
Anche in ambito pittorico nel corso dei secoli sono stati stupefacenti interpreti della malattia e delle sue complicanze moltissimi grandi artisti. Fra questi, Rembrandt (1606-1669) che, in un celeberrimo ritratto del 1665, riuscì a fissare sul volto del collega Gerard de Lairesse le inequivocabili stigmate della lue congenita tardiva; il grande Edvard Munch (1863-1944) che, nella sua assai eloquente opera “L’eredità”, ha posto sulle ginocchia di una madre dolente la straziante immagine di un bimbo inequivocabilmente affetto da una lue congenita precoce. Più recentemente Gino Sandri (1892-1959) nella “Paralisi per lue” ha efficacemente raffigurato la tragedia della neurolue; senza dimenticare il bizzarro Toulouse Lautrec (1864-1901), che addirittura volle immortalare nel famoso ritratto “Rosa, la Rouge” la prostituta origine del suo male.
Numerosissime comunque le vittime dell’inesorabile morbo in ogni Paese, classe sociale e professione. Fra queste certamente le più note furono Alphonse Daudet (1840-1897), Franz Schubert (1797-1828), Ludwig van Beethoven (1770-1827), Vincent van Gogh (1853-1890), Paul Gauguin (1848-1903), Abramo Lincoln (1809-1865), Friedrich W. Nietzsche (1844-1900), James Joyce (1882-1941) etc.
L’inarrestabile avanzata dell’epidemia e l’ineluttabilità della sua evoluzione, generavano una vera e propria sifilofobia, che a partire dal Settecento e nei secoli successivi suggeriva, da un lato soluzioni strategiche in ambito sanitario, e dall’altro provvedimenti legislativi e normativi, volti a contenere la diffusione del contagio e i relativi danni.
Tra le prime, particolarmente significative ed utili risultarono la costruzione a Parigi del famoso Hopital Saint Louis, per volere di Enrico IV di Francia e, pressochè contemporaneamente, quella del romano Ospedale San Gallicano, per volere di Benedetto XIII. Ed ancora un fiorire di “sifilocomi” dedicati e di ambulatori “dermoceltici” in molte città italiane, in sinergia con l’istituzione di cattedre, associazioni, riviste e congressi in ambito medico e dermatologico.
Poco efficaci risultarono invece i tentativi di risolvere il problema attraverso norme e regolamenti. A tale proposito ricordiamo l’impegno di Camillo Benso Conte di Cavour il quale, nell’intento di regolamentare la prostituzione ritenuta allora prima causa dell’epidemia, nel 1859 introdusse nel Regno di Piemonte il “meretricio di Stato”, una legislazione con fini igienico sanitari con la quale si disponeva la gestione di “case” sotto il diretto controllo dello Stato. La norma, che organizzava i postriboli sabaudi sul modello delle “maisons” napoleoniche francesi, con l’unità d’Italia venne estesa all’intero “stivale”. In tale ottica, il 15 febbraio 1860, Cavour emanava un dettagliato “Regolamento del Servizio di sorveglianza sulla prostituzione”, molto circostanziato e progredito, ma purtroppo con risultati assai poco soddisfacenti.
Con analogo obiettivo in Francia veniva ad esempio istituita la Ligue national francaise contre le peril venerien, e molte altre ancor più lodevoli iniziative.
Ma, nonostante i mirabili intenti, questi tentativi per lo più fallirono e, com’è noto, la sifilide continuò a dilagare inarrestabilmente.
E d’altro canto innumerevoli, variegati e fantasiosi si dimostrarono i provvedimenti terapeutici realizzati nel corso dei secoli, purtroppo sempre tutti inefficaci. Sarebbe impossibile numerarli tutti: il più significativo e clamoroso insuccesso fu quello di Paul Ehrlich, che nel 1908 sognava la completa eradicazione della malattia mediante l’impiego degli arsenobenzoli. Come pure analoga sorte toccò poi al bismuto, purtroppo usato fino a pochi decenni fa, nonostante i suoi molteplici e sgradevoli effetti collaterali.
Bisognerà attendere il 1943, anno in cui Alexander Fleming con la scoperta della penicillina, ancora oggi attuale, offrirà un reale ed efficace contributo al ridimensionamento del problema.
Nell’attualità la sifilide è ancora un grande problema di sanità pubblica collettiva e individuale poiché, nonostante gli indubbi progressi della scienza medica e l’innegabile impegno di molte autorità e governi, appare in una preoccupante espansione, alquanto variabile in tutti i Paesi del mondo.
Basti pensare che in tutto il Pianeta si registrano annualmente una media di 12 milioni di nuovi casi: ciò si verifica con particolare concentrazione nell’Africa Sub-sahariana (4 milioni), nel Sud-est asiatico (4 milioni) e nell’America meridionale (3 milioni).
Dal 1999 e negli anni subito successivi, è stata segnalata da molti importanti osservatori dermatologici, la sua riemergenza anche in Europa e nel Nord America, dapprima nelle grandi Capitali e poi successivamente nelle regioni circostanti.
Nei grandi agglomerati cittadini risultano oggi particolarmente colpiti gli omosessuali, in quanto più esposti ai contagi venerei per molti fattori facilmente intuibili. In particolare il sesso orale, pratica ormai pressoché universalmente diffusa anche tra gli eterosessuali, nell’erronea convinzione di una sua maggiore sicurezza, contribuisce significativamente alla diffusione del contagio.
Nell’osservazione clinica, la sifilide tende oggi a presentarsi con morfologie, cronologie e localizzazioni inusuali, ovvero modificate da un variabile grado di patomorfosi, talora possibile causa di difficile individuazione diagnostica.
Le cause di questo ritorno della sifilide sono molteplici. In primis la ripresa dei cosiddetti “comportamenti a rischio”, in rapporto ad una ingiustificata fiducia nell’efficacia delle nuove terapie antiretrovirali; ma anche l’uso di droghe, eccitanti, stimolanti sessuali, disinibitori, abuso di alcolici, fumo etc.
A ciò si correlano implicazioni incombenti e prioritarie, quali le incontrollate migrazioni globali, la crescente diffusione dell’omosessualità, la possibile coinfezione con l’Hiv (con il consequenziale pericoloso sinergismo epidemiologico-clinico), le ancor rare complicazioni internistiche (laringiti, meningiti, osteoartralgie, nefriti, epatiti etc.).
Non ultime poi le patologie viscerali della fase terziaria (sifilide cardio aortica e neurosifilide) e della forma cosiddetta congenita, precoce o tardiva, di cui è prevedibile un ulteriore incremento nei prossimi anni.
Per concludere, si può confermare ancora una volta l’antico adagio “la vecchia signora non tramonta mai”!
Luigi Valenzano già Primario Dermatologo
Istituto Dermatologico San Gallicano, Roma