Tecniche e metodologie per il risparmio di sangue in chirurgia generale

 

Giovanni D. Tebala

U.O. di Chirurgia Digestiva e Laparoendoscopica – Aurelia Hospital (Roma)

 

INTRODUZIONE

 

Ridurre l’uso di sangue ed emoderivati è uno dei target di sviluppo della chirurgia generale.

Le motivazioni sono legate (1) al rischio trasfusionale, cioè alle complicanze legate alla trasfusione stessa, (2) ai costi elevati, (3) a motivi religiosi (testimoni di Geova).

 

Rischio trasfusionale

La maggior parte delle complicanze da trasfusione (circa il 47%[1])sono legate ad errori della somministrazione, cioè a sangue trasfuso in modo errato per incompatibilità non identificata o per errore di persona.

Gli eventi sfavorevoli dopo trasfusione possono essere: (1) infettivi, (2) da reazione immunologica, (3) da immunosoppressione.

Le complicanze infettive sono legate a trasmissione di agenti virali, batterici, parassitari, prioni…

Il rischio di trasmissione virale è quantificabile con 1/62500 sacche per l’epatite B, 1/103000 sacche per epatite C e 1/660000 sacche per l’HIV. Significativamente maggiore, ma un po’ meno temibile, il rischio di infezione batterica, che incide circa per 2 sacche su 1000.

Ovviamente, i derivati del sangue più esposti sono quelli provenienti da più donatori che non sono stati purificati (concentrato standard di piastrine, antitrombina-III). Un rischio moderato è associato con l’uso di derivati da monodonatore (concentrato piastrinico da separatore, plasma fresco congelato, concentrato globulare). Non c’è rischio infettivo (almeno teoricamente) con l’uso di albumina e altre proteine plasmatiche (gammaglobuline, fattori della coagulazione, fibrinogeno), che sono sottoposte a complessi processi di purificazione.

I casi di incompatibilità sono quelli in cui si scatenano reazioni immunomediate, in genere emolitiche, mediate dalla formazione o dalla attivazione di anticorpi specifici contro i globuli rossi trasfusi (alloimmunizzazione) o contro le cellule dell’ospite (graft versus host disease).

Infine, l’immunosoppressione post-trasfusione rappresenta un problema evidenziatosi per la prima volta in reparti di chirurgia dei trapianti (di rene), dove si è verificato che i pazienti che subivano trasfusioni erano più esposti alle complicanze infettive ma avevano una ridotta incidenza di rigetto [2].

Studi successivi hanno dimostrato, nei pazienti chirurgici trasfusi, anche un maggior rischio di recidiva neoplastica dopo intervento resettivo [3].

In un interessante lavoro di Kooby e coll. [4], del gruppo epatochirurgico del Memorial Sloan-Kettering di New York, su pazienti sottoposti a resezione epatica, la morbilità postoperatoria era del 46% nei pazienti trasfusi, contro il 33% dei pazienti non trasfusi. Analogamente, la mortalità perioperatoria era del 5.8% nei pazienti trasfusi contro l’1.2% nei pazienti non trasfusi. La sopravvivenza mediana era di 40 mesi nei pazienti trasfusi contro 50 mesi nei non trasfusi.

Risultati analoghi sono stati riportati da Yeh e coll. sempre del Memorial Sloan-Kettering su pazienti sottoposti a pancreasectomia per cancro [5].

Indubbiamente questi dati presentano tutti i bias di uno studio retrospettivo, dove è verosimile che i pazienti trasfusi siano quelli in peggiori condizioni generali di base e con malattia più avanzata, che hanno un outcome peggiore, a breve e lungo termine, indipendentemente dalle trasfusioni.

Infatti, la metanalisi di Amato e Pescatori sull’impatto delle trasfusioni sulla recidiva di neoplasia colorettale dopo resezione non ha dimostrato una correlazione diretta, proprio per i bias di selezione e di pubblicazione [6].

Al contrario, il trial multicentrico randomizzato controllato del Canadian Critical Care Trials Group ha dimostrato una sostanziale sovrapponibilità dei risultati in pazienti in terapia intensiva sottoposti a una strategia restrittiva nei confronti delle emotrasfusioni (solo se Hb <7 g/dl) o ad una strategia più liberale (trasfusioni se Hb <10 g/dl), se però venivano esclusi i pazienti con infarto miocardico o con angina instabile [7].

 

Costi

Il prelievo, la conservazione e la manipolazione del sangue e degli emoderivati ha un costo, in rapporto al materiale utilizzato e al lavoro umano effettuato.

L’enorme richiesta di sangue ed emoderivati da parte della odierna sanità italiana rappresenta una importante voce di spesa, che contribuisce al passivo cronico delle aziende sanitarie.

Qualche dato di massima per avere una seppur vaga idea.

Nel 2003 la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le province autonome di Trento e Bolzano ha stabilito i costi del sangue e degli emoderivati per lo scambio tra le strutture pubbliche (lo scambio con i privati viene regolato da accordi locali). Il costo varia tra i 20 € di una sacca di plasma fresco congelato ai 468 € di una sacca di piastrine da separatore, passando per i 210 € di una sacca di concentrato eritrocitario standard e arrivando ai 17000 € di una unità di concentrato di cellule staminali da cordone ombelicale.

Nel 2003, in Italia, il consumo di sangue è stato di circa 3 milioni di sacche di sangue intero o emazie concentrate e circa 650 mila litri di plasma, che hanno richiesto un totale di più di 60 milioni di esami di laboratorio [8]: il calcolo è presto fatto!

 

Motivi religiosi: i Testimoni di Geova

I Testimoni di Geova rifiutano le trasfusioni di sangue ed emoderivati basandosi, fondamentalmente, su quattro richiami delle Scritture:

Tali norme bibliche sono state poi commentate e confermate dai Padri della Chiesa (S.Agostino, S.Giovanni Crisostomo…) e lo stesso Lutero affermava il divieto di cibarsi di “oca, coniglio, cervo o maiale cotti nel sangue… salsicce di sangue”.

In ambito medico, Thomas Bartholin, docente di Anatomia presso l’Università di Copenaghen, nel XVII secolo obiettava alla pratica dell’emotrasfusione che si stava invece lentamente diffondendo, se è vero, come pare dimostrato storicamente, che lo stesso Luigi XI re di Francia, sofferente di patologia neurologica grave, sperava di guarire ricevendo trasfusioni, o forse bevendo sangue umano.

Nel XVII secolo anche la Chiesa Cattolica proibì le trasfusioni, considerandole atto immorale.

Da allora le trasfusioni si sono diffuse come pratica medica comune e hanno trovato ampia accettazione; ciononostante i Testimoni di Geova continuano a rifiutarle, attenendosi alla loro interpretazione del precetto biblico su citato.

 

RISPARMIO DI SANGUE IN CHIRURGIA GENERALE: COME?

 

Risparmiare sangue significa “somministrare la giusta quantità del giusto emoderivato al giusto paziente al momento giusto e nel modo giusto” [9].

Per un chirurgo generale in elezione (le problematiche dell’emergenza sono ben diverse) questo significa innanzitutto conoscere il paziente, quindi eseguire una corretta valutazione preoperatoria, in modo da scegliere la migliore strategia trasfusionale, eventualmente attuando presidi particolari, come la autodonazione con predeposito e la emodiluizione normovolemica, che possono garantire di eseguire un intervento chirurgico in relativa tranquillità. Durante l’atto chirurgico, la collaborazione tra anestesista e chirurgo permetterà di attuare altre metodiche e utilizzare altre tecnologie volte a limitare al massimo la perdita ematica.

 

Preparazione preoperatoria

E’ indispensabile conoscere il paziente prima di sottoporlo ad un intervento chirurgico. In particolare, è indispensabile essere a conoscenza di patologie preesistenti e dell’eventuale assunzione di farmaci anticoagulanti o antiaggreganti o di semplici antiinfiammatori. In quest’ultimo caso è necessario sospendere l’assunzione di questi farmaci 5-7 giorni prima dell’intervento, eventualmente sostituendoli con eparina a basso peso molecolare. Un eventuale stato anemico e un cattivo stato nutrizionale dovrebbero, se possibile, essere corretti prima dell’intervento, con somministrazione di ferro, acido folico, vitamina B12 o eritropoietina o con qualche giorno di nutrizione parenterale totale ipercalorica.

Il workout preoperatorio permette di identificare i fattori che possono contribuire ad aumentare il rischio di mortalità e morbilità da eccessiva perdita ematica intraoperatoria. Sicuramente l’età avanzata, con il suo corteo di patologie associate di pertinenza respiratoria e cardiovascolare, causa di per se un aumento del rischio da anemia acuta. Lo stesso dicasi dei pazienti con sincopi ricorrenti, dispnea, ipotensione ortostatica, tachicardia, angina, attacchi ischemici transitori, o in quelli che assumono regolarmente beta-bloccanti o digitale. Per questo motivo, lo status emodinamico dovrebbe essere controllato in tutti i pazienti in programma per intervento maggiore, mediante la valutazione incruenta (mediante ecocardiogramma) della gittata cardiaca, della gittata sistolica, dell’indice cardiaco, delle resistenze periferiche. Utile è anche lo studio dell’emogasanalisi arteriosa e venosa.

Altri fattori di rischio sono rappresentati dall’insufficienza renale cronica con anemia e coagulopatia, i disordini dell’emostasi, come la malattia di von Willebrand, e una perdita ematica in atto.

Anche la diagnosi di ingresso, che indica l’intervento chirurgico, è una variabile da non dimenticare. Ad esempio, i pazienti oncologici, soprattutto se già sottoposti a radio e chemioterapia neoadiuvante, spesso sono già anemici ed hanno una ridotta riserva funzionale midollare. Nei pazienti con storia di pregressi interventi chirurgici addominali è probabile che l’intervento vero e proprio debba essere preceduto da una più o meno lunga fase di viscerolisi, per liberare le strutture endoperitoneali: tale fase comporta spesso piccole ma fastidiose perdite ematiche.

La stessa durata presunta dell’intervento, e la tecnica utilizzata, possono far prevedere, almeno in grandi linee, il rischio emorragico, così come il rischio di morbilità perioperatoria.

 

Strategia trasfusionale

Classicamente, la necessità di una trasfusione era governata dalla cosiddetta regola 10/30, che imponeva la somministrazione di sangue se l’Hb scendeva sotto 10 g/dl e/o l’Hct era inferiore al 30%. La scarsità di donazioni, l’aumento del costo degli emoderivati e il rischio trasfusionale hanno imposto una revisione di questa regola aurea.

In una Consensus Conference tenutasi a Dallas nel gennaio 1995 sono stati stabiliti i nuovi principi di una adeguata strategia trasfusionale [10].

  1. La necessità di una emotrasfusione deve essere verificata caso per caso. Quindi, non vi è necessità di trasfondere sempre, in ogni intervento dello stesso tipo, ma, anzi, la riduzione delle trasfusioni deve essere considerata di primaria importanza. A tal fine, è indispensabile, e possibile, ridurre il valore soglia di Hb ed Hct sotto il quale trasfondere, con gli opportuni distinguo e le giuste eccezioni.
  2. Il sangue deve essere trasfuso una unità alla volta, controllando, dopo ciascuna sacca, il reale rialzo dell’Hb e confermare, o smentire, la necessità di ulteriori trasfusioni.
  3. Limitare per quanto possibile l’uso di sangue allogenico soprattutto prevenendo o controllando le perdite ematiche perioperatorie e utilizzando soprattutto l’autodonazione. Per ristabilire la funzione coagulatoria laddove alterata è indispensabile sospendere, come si diceva, l’assunzione di farmaci anticoagulanti e aggreganti alcuni giorni prima dell’intervento ed identificare e trattare eventuali coagulopatie. Per ridurre il sanguinamento durante l’intervento, in casi selezionati può essere eseguita una embolizzazione arteriosa preoperatoria. Nel corso dell’intervento, poi, dovranno essere messe in atto tutte le procedure anestesiologiche e chirurgiche atte a ridurre il rischio di sanguinamento, citate più avanti. Laddove possibile, soprattutto in rapporto alla patologia di base e al valore di Hb ed Hct, è preferibile far uso del sangue autologo, prelevato qualche giorno prima dell’intervento (autodonazione), all’atto della preanestesia (emodiluizione normovolemica) o durante l’intervento stesso e nell’immediato postoperatorio (recupero intra e postoperatorio). Nel preoperatorio, l’eventuale carenza di Hb o di ferro dovrà essere trattata con opportuna terapia sostitutiva (ferro, folati, vitamina B12, eritropoietina).
  4. Anche in presenza di una anemizzazione acuta o subacuta, è possibile massimizzare l’apporto di ossigeno ai tessuti mediante il trattamento di una cardiopneumopatia associata e con la somministrazione di ossigeno.
  5. Il paziente deve essere coinvolto il più possibile nella scelta trasfusionale. E’ indispensabile illustrare esaurientemente i rischi e i benefici di ogni terapia, inclusa l’emotrasfusione, in modo che possa esprimere liberamente il consenso o il dissenso e che possa accettare o rifiutare consapevolemente i rischi e le possibili complicanze. Ogni decisione deve essere annotata sulla cartella clinica, illustrando il ragionamento che ha portato alla proposta terapeutica (accettata o no dal paziente) e i dati di partenza (Hb, Hct…). Dopo la trasfusione, dovranno essere evidenziati e riportati i risultati in termini di miglioramento dei parametri emodinamici ed emochimici.
  6. Una adeguata politica trasfusionale ospedaliera deve essere sviluppata in sede organizzativa, con l’apporto del chirurgo, dell’anestesista, del trasfusionista e dell’amministrazione, con la redazione di opportune linee-guida che comprendano anche la verifica annuale dei protocolli. La cooperazione tra le diverse figure professionali coinvolte nel processo trasfusionale serve a far convergere conoscenze specifiche che devono integrarsi a vicenda per raggiungere precisi obiettivi di sviluppo della chirurgia, che migliorino i risultati del trattamento riducendo le trasfusioni e il relativo rischio.

In ogni caso, il clinico (in questo caso, il chirurgo), è al centro del processo decisionale che porterà all’utilizzo di sangue o emoderivati o al loro risparmio.

E’ utile porsi sempre una serie di domande:

  1. Questo paziente necessita realmente di essere trasfuso?
  2. Che miglioramento mi aspetto di ottenere nelle condizioni cliniche del paziente?
  3. Posso ridurre le perdite ematiche per ridurre il fabbisogno trasfusionale?
  4. Posso attuare qualche altro trattamento prima della trasfusione?
  5. Ho chiesto il parere del Centro Trasfusionale?
  6. Qual è il reale rischio trasfusionale in questo caso?
  7. Il beneficio della trasfusione vale il rischio?
  8. Sono in grado di rispondere tempestivamente ad una eventuale reazione trasfusionale acuta con il personale e le strutture del reparto?
  9. Ho registrato in cartella clinica la decisione di trasfondere il paziente e le relative motivazioni?
  10. Ho informato il paziente sui rischi e i benefici della trasfusione e ne ho ottenuto il consenso scritto?

E’ poi indispensabile ricordarsi che ogni emocomponente ha indicazioni specifiche, riportate qui di seguito per i principali prodotti.

La trasfusione di globuli rossi serve ad aumentare l’apporto di ossigeno ai tessuti nelle seguenti condizioni:

Non c’è indicazione alla trasfusione di globuli rossi se Hb >10 g/dl.

Nel paziente stabile con anemia cronica il valore soglia viene considerato 7 g/dl, ma l’esperienza clinica dimostra che in queste condizioni è possibile abbassare ulteriormente la soglia a 5 g/dl, a meno che non sussistano patologie ischemiche (coronarie o cerebrali) che rendano critica una riduzione della ossigenazione periferica.

Esistono inoltre preparazioni particolari di globuli rossi, utili in rare occasioni. I globuli rossi leucodepleti hanno una ridotta incidenza di reazioni febbrili trasfusionali non emolitiche, un rischio ridotto di trasmissione di citomegalovirus e una riduzione della immunizzazione primaria contro antigeni leucocitari. I globuli rossi irradiati sono utili nella prevenzione della graft versus host disease. I globuli rossi lavati presentano una minore incidenza di reazioni allergiche verso componenti plasmatici.

Il plasma fresco congelato deve essere utilizzato nel trattamento dell’emorragia o in preparazione all’intervento se l’INR è maggiore o uguale a 1.4, nel trattamento dell’emorragia in paziente con deficit dei fattori della coagulazione, nella fase acuta della CID, nel trattamento della microangiopatia trombotica, come antagonista degli anticoagulanti orali. Non è invece indicato per espandere il volume plasmatico (meglio impiegare colloidi o cristalloidi), per trattare uno stato di iponutrizione (all’uopo è preferibile una idonea nutrizione parenterale totale, con componenti bilanciati), nei deficit coagulativi non accompagnati da emorragia (in tal caso c’è tempo per correggere il deficit con la somministrazione del fattore mancante) o come emostatico prima dell’emostasi chirurgica o endoscopica nelle epatopatie croniche (ad esempio, nel sanguinamento da varici esofagee è indispensabile procedere prima alla emostasi endoscopica, e solo successivamente, se necessario, alla infusione di plasma fresco congelato).

Nei deficit piastrinici, soprattutto in vista di un intervento chirurgico, è indispensabile riportare la conta ad un valore compatibile con il prevedibile stress tissutale. La scelta più efficace, ma anche più costosa, è rappresentata dall’impiego di piastrine da separatore. Le indicazioni alla loro trasfusione sono le seguenti:

Non vi è invece indicazione alla somministrazione di piastrine da separatore nella piastrinopenia da eccessiva distruzione splenica (per la quale è indicata la splenectomia) e in corso di circolazione extracorporea.

La valutazione dell’efficacia della trasfusione piastrinica viene effettuata mediante la formula del Corretto Incremento (CCI=Correct Count Increment)

CCI=incremento della conta piastrinica (migliaia/μl) x superficie corporea (m2)/numero di piastrine trasfuse (x1011).

La trasfusione è considerata efficace se CCI >7500 e inefficace se CCI<5000, per valori tra 5000 e 7500 si considera parzialmente efficace.

L’albumina può avere un ruolo nell’aumentare la pressione oncotica del sangue, come plasma expander quando non è indicato l’impiego dei plasma expanders artificiali, nell’ittero neonatale grave, per riequilibrare le perdite delle proteine plasmatiche dopo una paracentesi con evacuazione di più di 4 litri di ascite. Non deve essere utilizzata se l’albuminemia è maggiore di 25 g/l, a scopo nutritivo, nelle ipoalbuminemie croniche asintomatiche, nelle prime 24 ore dopo un’ustione grave, per accelerare la guarigione delle ferite.

L’antitrombina III deve essere utilizzata nei casi di carenza acquisita o congenita di tale fattore, cioè nella profilassi antitrombotica in situazioni di alto rischio (intervento, gravidanza, parto…), nella terapia della trombosi venosa profonda e dell’embolia polmonare, nella CID. Il dosaggio terapeutico viene stabilito in relazione alla causa e all’entità della carenza di AT-III. Il valore normale dell’attività dell’AT-III è compreso tra l’80 e il 120%, ma anche valori tra il 70 e l’80% non sono considerati indici di aumentata tendenza trombotica.

La somministrazione di singoli fattori della coagulazione è indicato nel trattamento delle carenze specifiche. Data la particolarità, è indispensabile che tale trattamento sia eseguito sotto stretto controllo ematologico.

 

Autodonazione

L’autodonazione con predeposito consiste nel prelievo di sangue autologo per costituire una riserva ematica in vista di un intervento chirurgico programmato. Il principio che sta alla base di questa tecnica è che tutti i pazienti idonei a subire un intervento chirurgico in elezione sono anche idonei a sopportare il prelievo di una o più unità di sangue.

I pazienti candidati all’autodonazione devono essere inviati al Medico Trasfusionista per una valutazione dell’idoneità alla procedura e per la pianificazione del predeposito.

Controindicazioni all’autodonazione sono:

Può essere raccolta circa 1 unità di sangue a settimana, che viene poi centrifugata in 1 U di globuli rossi concentrati e 1 U di plasma fresco congelato, cominciando circa 1 mese prima dell’intervento (la validità delle sacche è di circa 35 giorni) e terminando 5-7 giorni prima dell’intervento programmato.

Durante questo periodo, al paziente viene prescritta una terapia a base di ferro e, talvolta, di eritropoietina.

Questa metodica ha il vantaggio di ridurre in maniera significativa il rischio trasfusionale, ma presenta difficoltà logistiche per il paziente e per la struttura ospedaliera (legate al prelievo e allo stoccaggio del sangue), può danneggiare le riserve ematiche del paziente (è opportuno attenersi strettamente alle controindicazioni citate) e presenta l’annoso problema dei predepositi non utilizzati. Questi, che a seconda delle statistiche rappresentano tra il 20 e il 73% del totale dei predepositi (in Italia, nel 2003 si trattava di 44028 unità, pari al 33% delle unità predepositate [11]), non possono essere utilizzati per la trasfusione allogenica, ma devono essere distrutti, determinando un’enorme spreco di risorse e di sangue [12].

 

Emodiluizione normovolemica

Scopo dell’emodiluizione normovolemica è ottenere una riserva di sangue autologo prelevando, al momento della preanestesia, un volume ematico calcolato che viene rimpiazzato con un equivalente volume di colloidi. Durante l’intervento si realizza una perdita di sangue relativamente povero di cellule ematiche, poiché l’Hct è basso.

La perdita può poi essere rimpiazzata, al termine della fase emorragica dell’intervento, con il sangue prelevato, ricco di cellule.

Un ulteriore vantaggio dell’emodiluizione, e quindi della riduzione dell’Hct, è la riduzione della viscosità ematica, con miglioramento della perfusione tissutale (effetto antisludge).

Ovviamente, l’emodiluizione normovolemica non è applicabile nei pazienti anemici o cardiopneumopatici gravi.

 

Recupero intraoperatorio o postoperatorio

Consiste nel recuperare il sangue disperso nel campo operatorio durante l’intervento o nei drenaggi nel postoperatorio e reinfonderlo immediatamente o successivamente.

Sono in commercio due sistemi di emorecupero, uno definito “semplice” e uno con “cell saver”.

Nel primo caso il sangue viene raccolto con un anticoagulante e reinfuso dopo essere passato attraverso un filtro. Si tratta di un sistema molto economico, ma la quantità e la qualità del sangue reinfuso sono piuttosto scarse.

Nel sistema con “cell saver” il sangue viene raccolto con eparina, lavato con soluzione fisiologica e centrifugato prima di essere trasfuso. E’ un sistema indubbiamente più costoso del precedente, ma il lavaggio e la centrifugazione permettono di ottenere un prodotto da reinfondere più abbondante e di maggiore qualità, poiché mantiene un elevato ematocrito.

Gli ambiti dove tale procedura è più diffusa sono la cardiochirurgia e la chirurgia vascolare, l’ortopedia, la chirurgia d’urgenza per trauma, il trapianto di fegato.

Purtroppo tale metodica trova scarse applicazioni in chirurgia generale elettiva. Infatti, controindicazione all’emorecupero è il rischio di presenza nel campo operatorio di batteri (chirurgia “settica”) o di cellule neoplastiche (chirurgia oncologica) e questa è un’evenienza molto comune negli interventi di chirurgia generale maggiore, che il più delle volte tratta patologie neoplastiche del tubo digerente. In chirurgia generale sono ben rari gli interventi maggiori per patologia non neoplastica.

 

Tecniche anestesiologiche

Nel corso dell’intervento è compito dell’anestesista contribuire alla riduzione della perdita ematica riducendo la pressione arteriosa e somministrando farmaci emostatici laddove indicato.

Una ipotensione controllata intraoperatoria viene ottenuta approfondendo il livello di anestesia o somministrando farmaci ipotensivanti ad azione rapida.

Se necessario, durante l’intervento possono essere somministrati farmaci che agiscano sulla cascata coagulativa. I più utilizzati sono i seguenti:

In caso di perdite importanti, possono essere somministrati plasma expanders (colloidi, come il destrano, la gelatina, l’amido idrossietilico, e cristalloidi, come la fisiologica e la soluzione di Ringer).

 

Tecniche chirurgiche

Ai fini di una adeguata gestione del sangue e di una riduzione delle perdite, compito del chirurgo è pianificare accuratamente l’intervento ed eseguirlo con tecnica meticolosa, riducendo per quanto possibile i tempi operatori e controllando immediatamente ogni emorragia.

 

Tecniche di emostasi

Nel tempo, le diverse tecniche di emostasi hanno permesso ai chirurghi di eseguire interventi anche complessi con minime perdite ematiche. L’emostasi è stata sempre considerata una fase critica di ogni intervento.

La prima e ancora più utilizzata tecnica di emostasi consiste nella legatura dei vasi, piccoli o grandi che siano, con fili di sutura o, più recentemente, con clips metalliche o riassorbibili.

Benché l’elettrochirurgia sia una invenzione relativamente recente, per millenni lesioni varie sono state trattate mediante cauterizzazione: il Papiro Chirurgico egizio di Edwin Smith descrive il trattamento di una tumefazione mammaria mediante un “bastoncino arroventato”; anche Celso, che era medico in una scuola di gladiatori, usava la cauterizzazione in caso di emorragia traumatica; nel mondo arabo Avicenna descrisse dettagliatamente la tecnica per ottenere l’emostasi mediante cauterizzazione, che rimase in auge fino ai primi anni del XX secolo, quando venne introdotto l’uso della corrente elettrica anche in campo medico. E’ merito di William Bovie, consulente tecnico, non medico, presso la Harvard Cancer Commission agli inizi del XX secolo, aver sviluppato un sistema per utilizzare una corrente elettrica ad alta frequenza per ottenere il controllo di emorragie intraoperatorie. Tra i primi a “convertirsi” all’uso della “pistola di Bovie” furono il chirurgo Harvey Cushing e il fisiologo Ivan Pavlov. Al giorno d’oggi il classico elettrocauterio, che in fondo utilizzava la temperatura come forza coagulante diretta, è stato sostituito dall’elettrocoagulatore, in cui è proprio una corrente elettrica ad alta frequenza che, passando attraverso i tessuti, causa disseccamento dei tessuti nel punto di applicazione e, a seconda della frequenza e della forma d’onda, il taglio o la coagulazione delle strutture. Nei moderni apparecchi, il circuito può essere ampio, interessando tutto l’organismo, nel bisturi monopolare o si può creare un piccolo circuito locale, come nel bipolare.

Nel primo caso, si applica un ampio elettrodo passivo a distanza dal campo operatorio e l’effetto coagulante ha luogo nel punto di applicazione di un secondo elettrodo, puntiforme, nel campo operatorio, che chiude il circuito. Al contrario, le pinze bipolari hanno in se tutt’e due gli elettrodi e il circuito si chiude nella piccola porzione di tessuto compresa tra le due branche. Il vantaggio di quest’ultima soluzione, a fronte di una efficacia emostatica forse ridotta, è l’assenza di dispersione elettrica a distanza dal punto di applicazione e quindi una maggior sicurezza.

Alcuni anni fa la tecnologia emergente ha messo a disposizione della classe chirurgica altri due dispositivi per l’emostasi e la dissezione tissutale, che utilizzano rispettivamente gli ultrasuoni e le radiofrequenze.

Nelle pinze ad ultrasuoni l’energia elettrica prodotta da un generatore viene convertita in energia meccanica in un manipolo che è parte integrante di una pinza. Questa possiede due branche, una mobile, per afferrare i tessuti, e l’altra attiva, che vibra in senso longitudinale con una frequenza di 55500 volte al secondo, quindi nel range degli ultrasuoni.

L’energia meccanica di questa vibrazione comporta la disorganizzazione delle proteine tissutali, che coagulano. Vantaggio di questa tecnica è indubbiamente una minor temperatura di lavoro, circa 60°C, inferiore quindi a quella dell’elettrobisturi e del laser, che lavorano su temperature superiori ai 100° e causano un’essiccazione dei tessuti con evaporazione dell’acqua e formazione di escare. Inoltre, l’applicazione della pinza sui tessuti attua un effetto di cavitazione sui tessuti stessi, mediante la vaporizzazione dei fluidi a bassa temperatura, e questo favorisce la separazione dei piani tissutali, rendendo molto più agevole la dissezione.

Questo strumento è efficace su vasi e strutture tubulari (come il dotto cistico) fino a 5 mm di diametro e produce un minimo danno tissutale con assenza di correnti elettriche “vaganti” all’interno del paziente e con minima formazione di fumo rispetto all’elettrobisturi tradizionale. Per questo motivo è molto utile, per quanto poco ergonomico, in chirurgia aperta e indispensabile, a nostro avviso, nella chirurgia laparoscopica avanzata. I vantaggi citati sono solo in minima parte controbilanciati dall’elevato costo del generatore e degli strumenti monouso.

La radiofrequenza, d’altra parte, causa la fusione del collagene e dell’elastina della parete dei vasi, creando una fusione permanente delle due pareti opposte del vaso. Anche in questo caso l’energia viene prodotta da un opportuno generatore. La pinza viene applicata sul tessuto e un sistema di controllo misura l’impedenza tissutale calcolando il tempo necessario alle radiofrequenze per la fusione dei vasi. Un feedback sonoro conferma l’avvenuta fusione. Il particolare tipo di energia rende efficace questo strumento su vasi di diametro fino a 7 mm che non necessitano di alcuna preparazione chirurgica. Anche in questo caso vi è solo una minima formazione di calore, che peraltro si diffonde in un raggio di soli 1-2 mm dal punto di applicazione, e non causa la formazione di escara. L’assenza di un effetto cavitazione, la necessità di comprimere i tessuti per una perfetta efficacia e la scarsità dell’effetto taglio rende questo strumento a nostro avviso poco utile in chirurgia laparoscopica ma estremamente efficace nelle grandi dissezioni in open. Anche in questo caso, l’elevato costo del manipolo e del generatore non controbilanciano l’efficacia.

Altre forme di energia utilissime in chirurgia tradizionale e in chirurgia endoscopica sono rappresentate dal laser e dall’argon plasma. Nel primo caso l’energia termica viene focalizzata in una zona ristretta, causando, a seconda delle caratteristiche dell’energia, coagulazione, taglio o vaporizzazione dei tessuti. Il laser trova ampia applicazione in endoscopia digestiva o respiratoria, per la disostruzione di visceri occlusi di masse neoplastiche e per l’emostasi di strutture sanguinanti.

Il bisturi ad argon utilizza un flusso di gas argon ionizzato per veicolare una corrente elettrica ad alta frequenza sui tessuti, senza che ci sia un reale contatto tra la sonda e il tessuto stesso.

L’effetto è una coagulazione più rapida ed efficace rispetto all’elettrochirurgia tradizionale con un ridotto trauma tissutale e la possibilità di applicazione su ampie superfici. Queste caratteristiche rendono l’argon utilissimo in endoscopia digestiva operativa e nella resezione degli organi parenchimali.

 

Chirurgia Mini-Invasiva

Per molti anni esclusivo appannaggio dei ginecologi, dalla seconda metà degli anni ’80 la chirurgia mini-invasiva ha gradualmente occupato spazi sempre più ampi in chirurgia generale, sia che si tratti di addome (chirurgia laparoscopica), sia di torace (chirurgia toracoscopica). Parallelamente, dagli anni ’70, con l’invenzione delle fibre ottiche e con la progressiva miniaturizzazione degli strumenti, ha preso il via l’esplorazione endoviscerale mediante endoscopia digestiva o respiratoria. Gradualmente, da un ruolo solo diagnostico, l’endoscopia ha sviluppato tecniche terapeutiche che in molti casi hanno sostituito l’approccio chirurgico tradizionale (dalla polipectomia alla sclerosi o legatura elastica di varici esofagee, dall’asportazione di lesioni neoplastiche alla funduplicatio gastrica per malattia da reflusso).

Le brevi considerazioni che seguono si riferiscono solo alla chirurgia laparoscopica [13], rimandando a pubblicazioni più specifiche i lettori interessati alla chirurgia toracoscopica ed endoscopica [14].

La chirurgia laparoscopica rappresenta un diverso modo di eseguire gli stessi interventi che si eseguono per via tradizionale attraverso una nuova via. Per l’accesso al campo operatorio non si esegue una laparotomia più o meno ampia, ma alcune (da 2 a 6, a seconda del tipo di intervento) piccole incisioni di 5-10 mm sulla superficie addominale, nelle quali si inseriscono cannule valvolate che permettano il passaggio degli strumenti. Una di queste cannule viene utilizzata per introdurre all’interno dell’addome una telecamera che proietta l’immagine ingrandita su un monitor. Nelle altre si inseriscono gli strumenti che, di volta in volta, servono al chirurgo per eseguire l’intervento. Per creare uno spazio operativo, l’addome viene “gonfiato” con anidride carbonica mediante un insufflatore automatico, che mantiene la pressione endoaddominale ad un valore predeterminato. Le valvole delle cannule impediscono la perdita aerea.

In questo modo il chirurgo opera dall’esterno dell’addome, senza manipolare i visceri, con lunghi strumenti e seguendo sul monitor l’andamento dell’intervento: il rapporto tra le mani del chirurgo e i tessuti del paziente non è più diretto, ma in gran parte mediato, per cui la sensibilità tattile viene meno, ma si ha un guadagno importante in visibilità: l’immagine sul monitor è ingrandita (di almeno 20 volte), per cui le manovre del chirurgo sono più precise.

L’approccio laparoscopico può essere impiegato virtualmente in tutte le patologie addominali che richiedono un intervento, ma ancora non sono state completamente standardizzate alcune tecniche chirurgiche “estreme”, come le resezioni epatiche, pancreatiche e gastriche che rappresentano una sfida importante anche in chirurgia tradizionale, e l’approccio laparoscopico all’urgenza addominale, che richiede sempre una riflessione approfondita in considerazione delle condizioni generali del paziente.

Indicazione assoluta all’approccio laparoscopico sono la calcolosi della colecisti, la patologia pelvica (cisti ovariche e tubariche, gravidanza extrauterina…) e la patologia funzionale del giunto esofagogastrico (reflusso gastroesofageo, acalasia…), ma anche l’addome acuto, le neoplasie colorettali, la diverticolosi colica complicata, le ernie inguinali (soprattutto se recidive), il laparocele, la patologia splenica non traumatica.

Controindicazioni all’approccio laparoscopico sono cardiopatie e pneumopatie gravi e instabilità emodinamica; erano state identificate come controindicazioni, ma stanno gradualmente perdendo importanza in tale senso, le alterazioni della coagulazione, la gravidanza al primo trimestre e la storia di precedenti interventi addominali.

Evenienza possibile, per quanto non eccessivamente frequente (complessivamente meno del 5%), è l’impossibilità a completare l’intervento in laparoscopia che richiede la “conversione” in laparotomia. Questa non deve essere considerata una complicanza né vissuta come una sconfitta da parte del chirurgo.

Ma quali sono i vantaggi della laparoscopia?

Benché all’occhio del “profano” e del grande pubblico risalti maggiormente l’assenza di danno estetico, il vantaggio reale dell’approccio laparoscopico è rappresentato dal ridottissimo stress chirurgico, con quasi assenza del dolore postoperatorio e rapidissima ripresa delle normali attività lavorative e della vita di relazione. La maggiore accuratezza chirurgica, dovuta alla necessità di movimenti limitati e di manovre precise, comporta un minor sanguinamento e una ridotta incidenza di complicanze.

Si tratta però di una chirurgia nuova, o meglio di un approccio nuovo, che richiede nuove conoscenze teoriche e nuove manualità. Per questo motivo non è detto che un chirurgo esperto in chirurgia tradizionale lo diventi “automaticamente” anche in laparoscopia (anzi, spesso è vero il contrario!). Per questo motivo è indispensabile completare un idoneo training in chirurgia laparoscopica, che preveda un lungo apprendistato sotto la guida di un laparoscopista esperto.

 

Controllo vascolare preliminare

Nell’asportazione di organi o segmenti di essi, in genere per patologia neoplastica, le tecniche tradizionali prevedevano, in genere, l’approccio diretto all’organo, lasciando la legatura dei vasi arteriosi e venosi di pertinenza al momento in cui realmente necessaria. Questa prassi aveva la sua spiegazione nella necessità di evitare la legatura accidentale di strutture “nobili” o di pertinenza di altri organi.

La migliore conoscenza anatomofisiopatologica e l’evoluzione delle tecniche chirurgiche hanno permesso l’introduzione delle cosiddette tecniche “no-touch”, in cui la manipolazione dell’organo avviene solo dopo la legatura dei vasi arteriosi e venosi che all’organo afferiscono o dall’organo si dipartono. I principali vantaggi di queste tecniche sono: (1) la riduzione del rischio di disseminazione neoplastica una volta interrotte le vie di efflusso venoso, (2) la riduzione significativa del sanguinamento perché ci si trova a lavorare su organi in gran parte ischemici per la legatura arteriosa.

Nella chirurgia del colon sinistro e del retto, infatti, la mobilizzazione del segmento sede della neoplasia avviene solo dopo la legatura dell’arteria e della vena mesenteriche inferiori in prossimità della loro origine (rispettivamente dall’aorta addominale e poco prima della confluenza con la vena splenica a formare il tronco splenomeseraico).

Per il colon destro, l’aggressione al tumore avviene dopo la legatura dei peduncoli ileocolico e colico destro e, se necessario, colico medio.

L’asportazione della milza per patologia non traumatica viene preceduta o dall’embolizzazione arteriosa preoperatoria o dal controllo, nelle prime fasi dell’intervento, della arteria splenica alla sua origine dal tripode e della vena splenica in prossimità del pancreas.

Paradigmatica l’evoluzione della chirurgia epatica.

Inizialmente, la tecnica resettiva vietnamita prevedeva l’aggressione al parenchima e la legatura dei vasi ematici all’interno della linea di sezione. Le conoscenze sull’ischemia normotermica del fegato [15] hanno successivamente permesso l’introduzione, da parte della scuola francese di Henri Bismuth, del controllo vascolare preliminare mediante legatura dei peduncoli vascolari segmentari o settoriali all’ilo epatico, preceduta a sua volta dal clampaggio del peduncolo epatico in blocco e seguita dalla legatura o dal controllo della vena sovraepatica efferente al confluente sovraepatico-cavale. In casi particolare, per ridurre ulteriormente la perdita ematica soprattutto nell’asportazione di lesioni prossime alla cava, può essere necessario eseguire una esclusione vascolare totale del fegato mediante triplice clampaggio (peduncolo epatico, cava inferiore sottoepatica e cava inferiore sopraepatica). Ottenuta l’ischemia epatica parziale (come nel clampaggio del solo peduncolo) o totale (come nell’esclusione vascolare totale) è possibile eseguire l’epatectomia con perdita di sangue ridotta al minimo.

 

CONCLUSIONI

 

Eseguire gli interventi con il maggior risparmio possibile di sangue ed emoderivati è considerato uno dei target di sviluppo della chirurgia generale.

Questo può essere ottenuto mediante la messa in atto di diverse metodiche in fase preoperatoria, intraoperatoria e postoperatoria, volte soprattutto a minimizzare la perdita di sangue e ad utilizzare le emotrasfusioni solo se e quando realmente necessario.

E’ indispensabile una diffusione della conoscenza, in modo che venga somministrato il giusto emoderivato al giusto paziente al momento giusto e al giusto dosaggio.

Questi risultati possono essere ottenuti solo con una collaborazione continua e fattiva multidisciplinare tra il chirurgo, l’anestesista e l’ematologo, supportati dall’amministrazione ospedaliera. Insieme, queste quattro figure devono produrre opportune linee guida basate sull’evidenza per il corretto uso del sangue e degli emoderivati nella realtà locale specifica.

 


 

[1] NHS SHOT Annual Report, 1996-1997

[2] George CD, Morello PJ: Am J Surg 1986;152:329-337

[3] Curran JW et al.: N Engl J Med 1984;310:6-75; Janot C, Streiff F: Ann Fr Anesth Reanim 1988;8:199-203; Crowson MC et al.: Br J Surg 1989;76:522-523; Fielding LP: BMJ 1985;291:841-842; Kirshner PA: Ann Thorac Surg 1989;47:336-337; Jagoditsch M. et al.: Dis Colon Rect 2006;49:1116-1130

[4] Kooby DA et al.: Ann Surg 2003;237:860-870

[5] Yeh JJ et al.: Br J Surg 2007;94:466-472

[6] Amato A, Pescatori M: The Cochrane Database of Systematic Reviews 2006 Issue 4

[7] Hebert PC et al: N Engl J Med 1999;340:409-417

[8] Istituto Superiore di Sanità : Registro del Sangue e del Plasma. Rapporto 2003. Rapporti ISTISAN 04/36

[9] Blood Safety in the European Community: An Initiative for Optimal Use. Consensus Conference 1999

 

[10] Spence RK: Surgical Red Blood Cell Transfusion Practice Policies. Am J Surg 1995;170:3S-15S

[11] Istituto Superiore di Sanità : Registro del Sangue e del Plasma. Rapporto 2003. Rapporti ISTISAN 04/36

[12] Spahn D et al.: Anesthesiology 2000;93:242-255 ; Larocque BJ et al.: Transfusion 1994;37:463-467

 

[13] Ballantyne GH, Leahy PF, Modlin IM: Laparoscopic Surgery. W.B. Saunders Company – Philadelphia, USA

[14] Classen M, Tytgat GNJ, Lightdale CJ: Gastroenterological Endoscopy. Georg Thieme Verlag – Stuttgart, Germany

[15] a titolo di esempio, Nuzzo G et al.: Surgery 1996;120:852-858