Chirurgia laparoscopica: lo stato dell’arte.

 

 

 

Capaldi Massimo, Alessandroni Luciano, Bertolini Riccardo, Tersigni Roberto

 

 

 

AORN “S.Camillo – Forlanini” Roma

Dipartimento di Chirurgia generale e Specialistica

UOC Chirurgia generale ed Oncologica

Direttore: Prof. R. Tersigni

 

Introduzione

 

L’era della moderna chirurgia laparoscopica è iniziata verso la fine degli anni ottanta del secolo scorso con l’esecuzione dei primi interventi di colecistectomia (1). Ciò è stato reso possibile dall’evoluzione tecnologica che ha portato l’industria a realizzare uno strumentario chirurgico così raffinato e tecnicamente affidabile  da permettere l’esecuzione delle manovre intraoperatorio in tutta sicurezza e con un grado di precisione invidiabile. Attualmente la chirurgia laparoscopica ha sostituito la tecnica cosiddetta “aperta” in molti centri clinici ed è considerata il trattamento di scelta per alcuni tipi di patologia come la calcolosi della colecisti, (2) le lesioni espansive dell’apparato genitale femminile, i grandi difetti della parete addominale e le patologie intestinali di tipo infiammatorio. Rispetto alla “tecnica aperta”, i vantaggi della chirurgia laparoscopica consistono nella precoce ripresa della motilità intestinale, nella minore percezione del dolore postoperatorio, in un migliore risultato cosmetico, nella minor durata della degenza postoperatoria cui si accompagna una più rapida restituzione del paziente alle normali occupazioni quotidiane (3). Infine, i maggiori costi derivanti dall’uso del materiale e dei presidi chirurgici utilizzati durante l’intervento vengono ampiamente controbilanciati da quelli attribuibili alla minore durata del ricovero ospedaliero. Ancora, comunque,  persistono alcune perplessità sulla possibilità di raggiungere una corretta radicalità oncologica con la chirurgia laparoscopica sulle patologie neoplastiche. Anche questo aspetto, però, ogni giorno di più si arricchisce di informazioni utili che  vengono da numerosi studi controllati in corso di definizione o nel frattempo ultimati. Il quadro che ne viene fuori, in estrema sintesi, è quello di una soddisfacente sicurezza nella radicalità oncologica ottenuta almeno in alcuni stadi di malattia, cui si sommano tutti i benefici prima descritti. Ulteriore evoluzione sulla strada della chirurgia laparoscopica è rappresentata dalla chirurgia robotica. Allo stato attuale, tale metodica si presenta come sufficientemente sicura e riproducibile per tutti gli interventi chirurgici attualmente eseguiti con la videolaparoscopia tradizionale. Attendiamo però, negli anni a venire, conferme circa la convenienza dei costi di gestione e , soprattutto, sulla convenienza chirurgica in termini di affidabilità clinica. (4,5).

 

 

 

Chirurgia laparoscopica della colecisti

 

Attualmente la colecistectomia condotta per via laparoscopica viene considerata il trattamento di scelta per la patologia di tipo litiasico. Inizialmente tale procedura venne riservata ai pazienti con malattia non complicata. Con l’andare del tempo, però, e soprattutto con l’aumentare dell’esperienza degli Operatori, si è affermata anche nel trattamento di alcune forme di patologia litiasica complicata della via biliare come la colecistite acuta, la pancreatite acuta litiasica e la coledocolitiasi. La colecistectomia laparoscopica, se comparata con la tecnica aperta, offre vantaggi clinici ben definiti, ma, inevitabilmente, comporta anche dei rischi correlati alla metodica. La lesione intraoperatoria della via biliare principale rappresenta quella più temuta. Nelle casistiche mondiali si presenta con un’incidenza che va dallo 0 allo 0.8% delle colecistectomie condotte per via laparoscopica (6,7), mentre è molto rara in quelle eseguite con tecnica aperta. Ciò conduce molti Chirurghi a ritenere che questo rappresenti il maggiore inconveniente di tale metodica. Ad ogni modo, è stato osservato che la percentuale di tale complicanza intraoperatoria diminuisce in maniera costante con l’aumentare dell’esperienza degli Operatori. Altra temibile complicanza è quella dell’emorragia. Un sanguinamento clinicamente significativo viene riportato con una frequenza dello 0.5% nelle casistiche internazionali. Fattori che possono concorrere al verificarsi di tale complicanza durante l’intervento chirurgico sono rappresentati da una inadeguata esposizione degli elementi anatomici del peduncolo colecistico, dalla flogosi acuta, da coagulopatie di varia natura, da aderenze ed anche da una tecnica operatoria non molto raffinata (8). Infatti, sebbene tale complicanza possa essere definita come potenzialmente catastrofica in ambito laparoscopico, è anche quella maggiormente prevenibile ed anche quella maggiormente operatore-correlata. Una menzione particolare, poi, per quanto riguarda la frequenza, merita il sanguinamento provocato dalla non corretta introduzione dei “trocar” nella parete addominale. L’infezione del sito chirurgico viene attualmente riportata a livello internazionale con una percentuale che va dallo 0.3 all’1.0% (9,10). La degenza media ospedaliera per questo genere d’intervento è di 2.29 giorni e recenti studi hanno dimostrato come possa essere effettuato in regime di “one day surgery” senza eccessivi rischi per la sicurezza del Paziente (11). Nonostante le riserve iniziali, attualmente la colecistectomia laparoscopica viene considerata il trattamento di scelta anche nei casi di colecistite acuta. Diversi studi prospettici randomizzati (12,13) suggeriscono l’intervento entro le 72 ore dall’insorgenza dei sintomi, piuttosto che l’esecuzione dello stesso dopo alcune settimane. Ciò non andrebbe ad aumentare le complicanze postoperatorie immediate e quindi la degenza ospedaliera. In tali condizioni la procedura chirurgica manterrebbe inalterate le sue caratteristiche d’affidabilità. Per quanto attiene il trattamento della calcolosi della via biliare principale, non vi è unanime orientamento verso l’esecuzione preoperatoria di colangiopancreatografia retrograda endoscopica (CPRE) di tipo strettamente operativo. Infatti, questa procedura, non essendo esente da rischi di complicanze come la sepsi, la pancreatite acuta ed il sanguinamento, con l’avvento della colangio-risonanza magnetica, ha perso ultimamente molta importanza per quanto riguarda lo “screening” della calcolosi della via biliare principale. Il dibattito è al momento centrato sul “timing” di esecuzione della procedura per la bonifica della via biliare principale, ovvero se questa debba precedere l’esecuzione della colecistectomia o essere effettuata durante la stessa seduta operatoria. Questa seconda opzione, laddove tecnicamente e logisticamente possibile, senza aumentare il tasso di conversione e le complicanze intraoperatorie in genere, consentirebbe di ridurre, per contro, significativamente la durata della degenza ospedaliera con abbattimento dei costi di gestione clinica (14). Una bonifica  della calcolosi del coledoco è, comunque, possibile durante l’intervento chirurgico senza eseguire CPRE. In conclusione, la letteratura mondiale oggi dimostra come la colecistectomia laparoscopica venga considerata un intervento sicuro, con notevoli benefici clinici per il paziente ed economici in termini di costi per la comunità, a patto che venga eseguito da personale che abbia già completato una “learning curve” adeguata e che impieghi una tecnica chirurgica scrupolosa e ben collaudata.

 

 

Chirurgia laparoscopica del surrene, del rene e della parete addominale.

 

Il trattamento chirurgico delle lesioni espansive del complesso rene-surrene ha subito una radicale evoluzione nel corso dell’ultima decade. I principi di radicalità oncologica propri degli interventi a cielo aperto sono stati perfettamente riprodotti nella metodica laparoscopica, ma con un significativo decremento della morbilità postoperatoria. Per questo motivo attualmente l’approccio laparoscopico viene considerato ottimale, almeno nelle lesioni che non prevedano una chirurgia parzialmente conservativa del parenchima renale (nephron sparing surgery). Un lavoro particolarmente interessante condotto recentemente in Italia presso l’Ospedale Riguarda di Milano descrive come intervento sicuro ed efficace l’adrenalectomia laparoscopica condotta per neoformazioni di natura sia benigna che maligna fino a 13 cm. di diametro massimo e di 265 g di peso. La mortalità postoperatoria riportata è nulla, con una morbilità intorno al 5-6%. La degenza ospedaliera media in reparto di chirurgia viene riferita di 4 +\- 2.4 gg. (range 2-8 gg). La durata dell’intervento è stata di 138 +\- 90 min. La via d’accesso chirurgica preferita è quella laterale transperitoneale, riservando quella posteriore extraperitoneale a casi particolari in cui le condizioni anatomiche lo consigliano (15).

La nefrectomia laparoscopica è stata descritta da Clayman nel 1991 (16). Attualmente, se condotta da Chirurghi esperti,  rappresenta il “gold standard” per il trattamento dei Pazienti affetti da cancro del rene. I vantaggi maggiori dell’approccio mininvasivo consistono in una morbilità perioperatoria più bassa, minori perdite di sangue intraoperatorie, minore degenza ospedaliera con una convalescenza più rapida. Per contro, al momento non esistono dati in letteratura utili a confermare una maggiore affidabilità a lungo termine circa la radicalità oncologica (17). A tale proposito, però, occorre sottolineare che, comparando le serie di Pazienti sottoposti a nefrectomia radicale laparoscopica ed “aperta” di alcuni tra i maggiori studi recenti, sembra emergere una tendenza a considerare la sopravvivenza a 5 anni come sovrapponibile, limitatamente agli stadi T1 e T2 (17,18,19). Nella nefrectomia radicale per via laparoscopica appaiono altrettanto validi sia l’approccio posteriore retroperitoneale, sia quello transperitoneale. Questo viene dimostrato da due studi prospettici randomizzati e controllati condotti da Nambirajan e Desai ( 20,21).

I Chirurghi generali necessitano di un efficace metodo di trattamento per i grossi difetti della parete addominale. I risultati della chirurgia aperta si sono dimostrati fino a questo punto del tutto insoddisfacenti. L’unico studio randomizzato e controllato attualmente disponibile descrive una percentuale di recidiva del difetto erniario vicina al 50% dopo riparazione primaria e del 23% dopo riparazione con posizionamento di protesi sintetica. Viene altresì riportata una consistente morbilità postoperatoria che comprende l’infezione della protesi (4%), l’ematoma della ferita chirurgica (11%) e il dolore della parete addominale (18%) (22). La riparazione laparoscopica delle ernie ventrali della parete addominale (LVIHR) ha la potenzialità di migliorare questi deludenti risultati. I dati della letteratura internazionale propongono questa metodica come indicata per la maggior parte dei Pazienti, senza riguardo per l’età, le dimensioni dell’ernia, la presenza d’obesità patologica e la presenza di pregressi e ripetuti interventi di riparazione erniaria, anche con protesi sintetiche (Birch). La tecnica chirurgica della LVIHR è ormai standardizzata. Le prime due fasi rispettivamente prevedono l’induzione del pneumoperitoneo con tecnica aperta o, in alternativa , con ago di Veress ed il posizionamento sotto visione diretta degli ulteriori due trocars. Questi ultimi devono essere posizionati in posizione sufficientemente laterale da poter permettere in maniera agevole sia la successiva lisi d’aderenze (terza fase) che  il posizionamento della protesi che oblitera il difetto di parete. La misurazione delle dimensioni dell’ernia e la scelta della “taglia”e del tipo della protesi identificano la quarta e quinta fase dell’intervento. Le dimensioni della protesi devono comunque eccedere di almeno 3-5 cm quelle del difetto di parete in modo da permettere, a fissazione avvenuta, un adeguato “overlapping” di sicurezza. La sesta ed ultima fase è quella della fissazione protesica che può avvenire con sutura diretta oppure, oggi più frequentemente, mediante spirali in materiale metallico non magnetico. Complicanza assai frequente della metodica laparoscopica è la comparsa di raccolta sierosa postoperatoria che  presenta una frequenza variabile a seconda delle casistiche riportate, ma che può raggiungere anche il 78% dei Pazienti operati. Attualmente vi è dibattito serrato sulla necessità di un trattamento più o meno aggressivo nei confronti di tale complicanza. Tuttavia, l’opinione comune sembra orientarsi verso un trattamento conservativo con aspirazioni ripetute della raccolta sierosa che quasi mai esitano nell’infezione della protesi (23). Studi clinici controllati e prospettici vengono attesi al fine di valutare l’impatto della LVIHR sulla morbilità postoperatoria e sulla percentuale di recidive erniarie.

 

 

Chirurgia laparoscopica del fegato.

 

L’epatectomia laparoscopica rappresenta attualmente l’avanguardia della chirurgia mininvasivo. La sua sicurezza e fattibilità sono state dimostrate in diversi studi (24,25). I benefici a breve termine della resezione epatica laparoscopica sono evidenti, ma anche quelli a lungo termine, come la percentuale di recidive dopo resezione per lesione maligna, sembrano essere sovrapponibili a quelli ottenuti con la tecnica aperta (26). Gli svantaggi sono rappresentati dalla difficoltà tecnica nel controllo del sanguinamento intraoperatorio e dalla mancanza di strumentario laparoscopico idoneo all’esecuzione rapida e sicura della transezione parenchimale epatica. Allo stato delle cose, è possibile eseguire in tutta tranquillità l’epatectomia laterale sinistra, le resezioni segmentarie anteriori (dal II al VI) e la maggior parte delle resezioni cuneiformi cosiddette “non anatomiche”. Particolari difficoltà tecniche presentano le resezioni parenchimali per le lesioni collocate nei segmenti I, VII ed VIII.. Sono suscettibili di trattamento laparoscopico le lesioni benigne, se sintomatiche, fino a 5 cm, ovvero quelle di natura maligna fino a 3 cm di diametro massimo. In generale è possibile affermare che al momento attuale la chirurgia epatica laparoscopica rappresenta per tutti i Chirurghi un tipo di metodica ancora non agevole da eseguire. A rendere un po’ più facili le cose, negli ultimi anni il progresso tecnologico ha messo a disposizione degli Operatori una serie di presidi come il bisturi ad ultrasuoni utile nella dissezione parenchimale e nell’emostasi e la biliostasi di strutture fino a 3 mm di diametro, il coagulatore ad Argon beam - laser capace di sigillare vasi sanguigni fino a 2 mm di diametro, e le suturatici lineari endoscopiche che permettono una agevole resezione di vasi e dotti biliari anche dilatati, nonché di tessuto epatico di modesto spessore (26).

 

 

Chirurgia laparoscopica del colon

 

Il primo Autore a descrivere la fattibilità della colectomia per via laparoscopica fu Jacobs nel 1991 (27). Nel corso degli anni, l’affinarsi dello strumentario chirurgico impiegato in laparoscopica ha dato nuovo impulso a questo tipo di chirurgia addominale. Attualmente possiamo disporre di metodiche che vanno da quelle totalmente condotte per via intracorporea, dove nessuna incisione aggiuntiva viene richiesta, a quelle cosiddette extracorporee ovvero “hand assisted” in cui una piccola laparotomia facilita l’esecuzione della resezione colica e la successiva anastomosi. Il cancro colorettale rappresenta la seconda causa di morte per tumore nel mondo occidentale. Una resezione chirurgica adeguata rappresenta, al momento, il solo trattamento curativo, con una percentuale di sopravvivenza globale di poco sotto al 50% a 5 anni. Le percentuali di morbilità e mortalità per la chirurgia oncologica del colon variano rispettivamente dall’8% al 15% e dall’1% al 2% (28,29).  La chirurgia laparoscopica colorettale viene largamente impiegata nel trattamento delle patologie benigne. Studi pubblicati di recente hanno dimostrato come, in questi casi, la morbilità osservata durante le procedure laparoscopiche sia risultata minore di quella riscontrata negli interventi eseguiti con tecnica “aperta”. Si osserva un ridotto dolore postoperatorio, un rapido ripristino della funzione gastrointestinale, una minore degenza ospedaliera, una convalescenza più rapida ed una minore compromissione immunitaria postoperatoria (28,30). Ciononostante, benché l’affidabilità e la sicurezza delle resezioni coliche per via laparoscopica siano state nel tempo confermate, lo stesso non si può ancora dire per quanto attiene la sicurezza oncologica. Diversi autori hanno sollevato legittimi dubbi circa la difficoltà riscontrate nella curva di apprendimento per tale metodica, i tempi operatori decisamente più lunghi, l’aumento globale della morbilità correlata al tipo di intervento e l’eccessivo costo dello strumentario impiegato (28,29,31). Altri Autori hanno manifestato ulteriori perplessità per la minore possibilità di esplorazione completa intraoperatoria della cavità peritoneale rispetto all’intervento tradizionale, come pure per la inusuale comparsa di ripetizioni metastatiche sui siti delle porte d’ingresso dei “trocars” laparoscopici. Non esistono al momento  dati certi circa la sopravvivenza a lungo termine dei Pazienti operati per cancro, sulla percentuale di recidiva locale, sulla possibilità di una stadiazione corretta e di disseminazione a distanza favorita dalla manipolazione degli organi durante la laparoscopia (28,31,32). Come conseguenza, alcuni Chirurghi si mostrano restii ad adottare l’approccio laparoscopico nei Pazienti affetti da patologie maligne del grosso intestino. Sono in corso, o in via di completamento, comunque, numerosi studi randomizzati, prospettici e controllati che potrebbero sciogliere questi dubbi. Lo scopo principale di questi studi è quello di verificare se la sopravvivenza libera da malattia e la sopravvivenza globale dei Pazienti operati con la metodica laparoscopica o con quella tradizionale sono equivalenti. Lo scopo secondario è di stabilire in maniera incontrovertibile la sicurezza della colectomia laparoscopica rispetto alla tecnica aperta. Il terzo obiettivo, infine, è quello di comparare i costi per la comunità ed il coefficiente di qualità di vita dei Pazienti tra le due tecniche.

 

Chirurgia laparoscopica delle malattie infiammatorie intestinali (IBD).

 

La maggior parte dei Pazienti affetti da malattia di Crohn va incontro prima o poi nel corso dell’evoluzione della storia clinica ad un intervento chirurgico. Il 50% dei Pazienti viene operato dopo 5 anni dalla diagnosi; tale percentuale sale al 74-96% dopo 10-20 anni. La chirurgia trova indicazione quando la terapia medica si mostra inefficace, ovvero nel caso di complicanze cliniche importanti (stenosi, occlusione, fistole, ascessi, peritonite da perforazione libera, emorragia). La chirurgia si avvale di interventi sia resettivi che conservativi (stricturoplastica) nella “stenosing Crohn’s disease”. Del tutto recentemente sono stati proposti interventi conservativi anche nei casi di fistole e ascessi, nei casi in cui il processo flogistico sia modesto di Pazienti già sottoposti a ripetuti interventi di resezione intestinale e quindi ad elevato rischio d’insorgenza di una sindrome da intestino corto. Il criterio che deve guidare il chirurgo nello stabilire l’estensione di una resezione intestinale deve essere quello del maggior risparmio di intestino possibile, pur senza tralasciare di asportare tutto il tratto malato. Tale concetto deriva dalla considerazione che le recidive, assai frequenti, sono indipendenti dall’entità della demolizione chirurgica. Nella terapia chirurgica della malattia di Crohn il chirurgo deve proporre l’intervento solo in casi ben selezionati, ossia nei casi complicati e non rispondenti alla terapia farmacologica. È accertato che l’incidenza delle recidive e dei reinterventi è indipendente dalla chirurgia, non solo per ciò che riguarda l’entità della resezione, ma anche per ciò che riguarda il tipo d’intervento. Il vantaggio della chirurgia resta evidente nel consentire la risoluzione dei sintomi legati alle complicanze specifiche della malattia favorendo il miglioramento delle condizioni generali dei Pazienti che dovrebbero successivamente essere reinseriti in un programma di follow up di tipo essenzialmente medico (33). Nel corso degli ultimi anni il trattamento chirurgico per via laparoscopica si è diffuso prepotentemente. I vantaggi di tale trattamento sono esattamente sovrapponibili a quelli già descritti per le altre patologie e si riassumono in una migliore cosmesi, in una più rapida ripresa della canalizzazione intestinale, nella più breve degenza ospedaliera con una convalescenza assai rapida. La formazione di minori aderenze peritoneali dopo trattamento laparoscopico rimane un’evenienza ancora non del tutto acclarata. Per contro, gli svantaggi sono rappresentati dalle difficoltà tecniche che il Chirurgo incontra durante la laparoscopica dovuta alla scarsa possibilità di manipolare e di esporre l’intestino durante l’intervento, per i limiti di movimento dello strumentario chirurgico e per l’intrinseca fragilità del viscere causata dalla malattia. A ciò va aggiunto anche l’ispessimento dei mesi e la complessa architettura della vascolarizzazione intestinale che di certo non agevolano il gesto dell’Operatore. Tecnicamente l’intervento classico di resezione ileocolica viene condotto con Paziente in posizione di Trendelemburg e rotazione laterale sinistra (posizione di Lloyd – Davies), utilizzando tre o, al massimo, quattro porte di accesso con ottica a 30°. Tempi fondamentali dell’intervento sono l’ispezione della cavità addominale, la mobilizzazione del colon destro previa identificazione del duodeno e dell’uretere destro, l’isolamento del peduncolo vascolare ileocolico, che, peraltro, è facoltativo. Un’incisione di sevizio, come una piccola laparotomia mediana sottombelicale, o, in alternativa, un’ incisione di Mc Burney o di Pfannestiel permettono, infine, di eseguire in tutta sicurezza, per via extracorporea, la sezione dei mesi ed il confezionamento dell’anastomosi. La revisione delle maggiori casistiche internazionali ha permesso di indicare, per questo tipo d’intervento, una percentuale di conversione variabile fino al 28%, una durata media dei tempi operatori da 103 a 210 minuti, una percentuale di complicanze dallo 0 al 18% , con una degenza post-operatoria media da 4 ad 11 giorni.

Per quanto riguarda l’intervento di proctocolectomia restaurativa con pouch ileoanale eseguito per rettocolite ulcerosa, l’impatto nella pratica clinica è stato ancora più problematico. Vi sono pochi dubbi che l’intervento condotto per via laparoscopica sia meno traumatico per il paziente, più facilmente accettato per il minore dolore postoperatoria e per la migliore cosmesi. Allo stesso modo vi è poco da dibattere sulla minore incidenza di complicanze a breve termine come l’infezione del sito chirurgico, le aderenze peritoneali post-intervento e la comparsa di ernie incisionali. Al momento la difficoltà è quella di dimostrare tutti questi “endpoint” attraverso studi prospettici, controllati e randomizzati. Tra i pochi esistenti citiamo quello di Maartense e Coll. che ha confrontato un gruppo di Pazienti in cui veniva eseguita la mobilizzazione del colon per via laparoscopica “hand assisted” e la dissezione pelvica attraverso una incisione di Pfannestiel, con un altro gruppo in cui veniva eseguita l’intervento tradizionale. Tra questi due gruppi di Pazienti non sono state evidenziate significative variazioni della qualità di vita dopo l’intervento (34). Collateralmente , è opportuno segnalare come molti Autori , partendo dal presupposto che una minilaparotomia sia quasi sempre necessaria per completare l’intervento, siano del parere che in tal modo molti dei benefici della tecnica laparoscopica vengano quantomeno ridotti. Se a ciò aggiungiamo, poi, che negli ultimi tempi la tecnica riabilitativa postoperatoria “fast track” adottata negli interventi di chirurgia aperta ha di molto accorciato la degenza ospedaliera (35), si comprende agevolmente come ulteriori studi siano necessari per validare l’efficacia e l’effettiva utilità della metodica laparoscopica.

 

Chirurgia laparoscopica del reflusso gastroesofageo.

 

La fundoplicatio laparoscopica si è dimostrata essere un’opzione chirurgica efficace nel diminuire la morbilità postoperatoria, la durata della degenza ospedaliera e della convalescenza senza, tuttavia, inficiare i risultati funzionali a breve e lungo termine già brillantemente ottenuti dalla chirurgia aperta (36). Attualmente esistono solamente due studi clinici randomizzati che mettono a confronto la plastica antireflusso secondo Nissen laparoscopica ed aperta con un “follow up” dei pazienti di almeno cinque anni (37, 38). Studi comparativi randomizzati che prevedano periodi di osservazione superiori non sono stati ancora pubblicati, ove si eccettui quello recente di Salminen e Coll. dell’Agosto 2007 (39). Questo studio paragona le due metodiche con un “follow up” medio di 11 anni e 5 mesi dopo l’intervento chirurgico. Nello studio non vengono descritte differenze statisticamente significative tra i due gruppi di Pazienti (sottoposti a laparoscopia vs chirurgia aperta) per quanto riguarda criteri di valutazione soggettivi come pirosi e rigurgito, disfagia, eruttazioni ed aumentato meteorismo intestinale, soddisfazione personale e preferenza per il tipo d’intervento. Tali osservazioni concordano pienamente con quanto descritto da Nilsson et Coll. e Draaisma et Coll. (37, 38) che non riportano alcuna differenza d’ incidenza della disfagia postoperatoria nei due gruppi di Pazienti. Unica voce dissonante rimane lo studio multicentrico di Bais et Coll. (40) che descrive un aumento della percentuale di disfagia postopertatoria nel braccio dei Pazienti con plastica antireflusso secondo Nissen per via laparoscopica. Per ciò che attiene all’efficacia ed alla durata della plastica antireflusso, va evidenziato come nello studio di Salminen la percentuale di rilevamento di una Nissen parzialmente o totalmente danneggiata sia notevolmente più elevata nel braccio della chirurgia aperta (40.0%), piuttosto che in quello della laparoscopia (13.1%). Questo dato deve, però, essere letto in maniera critica in quanto tutti gli interventi eseguiti in laparoscopia sono stati condotti da un solo Chirurgo, mentre nel braccio della chirurgia convenzionale si sono avvicendati numerosi Operatori (39). In conclusione, la tecnica laparoscopica deve essere considerata a buon diritto oggi come la metodica di scelta anche per il trattamento della patologia da incontinenza del giunto gastroesofageo.

 

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