“Le linee guida nell’ipertensione dei nefropatici”
M. Rosa
Le malattie croniche del rene rappresentano un problema di salute pubblica che interessa globalmente paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo. Sono strettamente legate alle patologie cardiovascolari all'ipertensione e al diabete. La perdita progressiva della funzione renale porta all'insufficienza renale terminale che richiede la terapia sostitutiva con la dialisi o il trapianto. Il rischio di progressione verso l'insufficienza renale terminale è strettamente correlato al rischio di sviluppare malattie cardiovascolari e questo è spesso la causa di morte prima che i pazienti abbiano bisogno della terapia sostitutiva dialitica2. Quindi, è molto importante cercare di arrestare la progressione o addirittura promuovere la remissione/regressione della malattia renale cronica per evitare l'insufficienza renale terminale e ridurre la morbilità e mortalità cardiovascolare3. Nei pazienti in cui coesistono ipertensione arteriosa e disfunzione renale si innesca un circolo vizioso che amplifica entrambe le patologie. L’ipertensione arteriosa favorisce lo sviluppo di nefroangiosclerosi che secondo i registri internazionali rappresenta ormai la seconda causa di entrata in dialisi dopo la nefropatia diabetica mentre l’insufficienza renale cronica complica l’ipertensione arteriosa per effetto di svariati meccanismi patogenetici come il sovraccarico di volume, l’attivazione del sistema renina angiotensina (RAS), l’iperattivita simpatica e la disfunzione endoteliale. Di conseguenza almeno il 40% dei soggetti con filtrato glomerulare (GFR) compreso tra i 60 e i 90 ml/min sono ipertesi, coì come la quasi totalita di quelli con un GFR < 30 ml/min4.
Studi pionieristici agli inizi degli anni ottanta hanno mostrato che la terapia antiipertensiva può rallentare la velocità di riduzione del filtrato glomerulare (GFR) nel tempo in pazienti affetti da nefropatia diabetica. Sulla base di queste evidenze, l'ipertensione arteriosa è andata progressivamente identificandosi come un importante determinante della progressione del danno renale e la riduzione della pressione arteriosa come l'intervento terapeutico più efficace nel rallentare l'evoluzione delle nefropatie croniche. Ben presto, però, si è osservato che, oltre all'ipertensione arteriosa, anche l'aumentata escrezione di proteine nelle urine si associa invariabilmente ad un più rapido deterioramento della funzione renale nel tempo5.
Negli anni 90, poi, lo studio "Ramipril Efficacy In Nephropathy" (REIN) ha dimostrato che la riduzione della proteinuria predice una più lenta riduzione del GFR nel tempo ed un ridotto rischio di progressione verso l'uremia terminale a lungo termine. Il fatto che questo effetto fosse indipendente dal controllo pressorio confermava in modo convincente che la riduzione della proteinuria potesse di per sé esercitare un effetto renoprotettivo specifico. Lungo la stessa linea, diversi studi in pazienti con nefropatia diabetica o non diabetica hanno quindi dimostrato che i trattamenti renoprotettivi possono rallentare la progressiva riduzione del GFR nel tempo nella misura in cui sono in grado di ridurre la perdita di proteine nelle urine. Si è visto inoltre che la velocità con cui la funzione renale si deteriora nel tempo dipende in gran misura dai livelli di proteinuria ottenuti con il trattamento, per cui la progressione più lenta si riscontra nei pazienti in cui la proteinuria residua si riduce di più. Queste osservazioni confermano che la proteinuria dovrebbe essere considerata come un target specifico del trattamento che dovrebbe quindi essere finalizzato a ridurre il più possibile la proteinuria allo scopo di prevenire o rallentare la progressione del danno renale.
Vi è un generale consenso che il primo obiettivo terapeutico farmacologico della malattia renale cronica (CKD- Cronic Kidney Disease) sia il controllo dei valori pressori. L’ipertensione non è solo un’importante caratteristica della CKD ma, a parte il noto grande rischio cardiovascolare ad essa associato, è, dopo la proteinuria, il fattore probabilmente più rilevante nel causare la progressione della CKD.
L’effettiva normalizzazione dei valori pressori, possibilmente con bloccanti del RAS, è pertanto il primo approccio farmacologico della terapia della CKD, oltre all’eventuale terapia della malattia di base, se identificabile e trattabile.
Una pietra miliare relativa a questo aspetto è rappresentata dallo studio Modification of Diet in Renal Disease (MDRD). Questo studio ha il merito clinico di aver ricordato l’opportunità di un target pressorio differenziato in base all’età e ha suggerito un cauto approccio nella riduzione pressoria, che deve essere, in tutti i casi, cautamente progressiva, per non causare insufficienza renale acuta da ipoperfusione renale, come è poi avvenuto in grandi studi come l’ONTARGET6.
Margherita Rosa
Nefrologa Ospedale San Camillo,Roma