I 300 anni della Accademia Lancisiana dalla fondazione ad oggi
Angela Benintende
Quando la Presidente Gasbarrone ha chiesto la presenza della direzione generale biblioteche alla seduta inaugurale delle celebrazioni dei 300 anni dell’Accademia Lancisiana, la proposta è stata accettata con gioia. Gioia mista a un certo senso di inesorabilità del destino.
Destino vuole infatti che la sede della direzione generale sia ubicata, da più di trent’anni, in via Michele Mercati. Proprio quel Mercati, medico, botanico paleontologo della fine del cinquecento di cui Lancisi pubblicò postumo il testo “ Metalloteca Vaticana”. Perché tra i convincimenti di Lancisi vi era quello che la conoscenza degli studi degli eminenti studiosi romani del secolo precedente potesse dare un ulteriore apporto alla scienza del suo secolo.
Dopo trecento anni per vie inimmaginabili e quasi banali, le strade di questi due illustri medici si uniscono ancora.
Ma tralasciando il divertissement sulle coincidenze, permettetemi di porgere a questo illustre consesso il saluto del Direttore Generale della Direzione biblioteche, istituti culturali e diritto d’autore e l’augurio che queste celebrazioni contribuiscano ad ampliare il già alto prestigio della Accademia.
Le celebrazioni che prendono avvio oggi saranno scandite da 8 conferenze su temi attinenti la materia medica ma, nella migliore tradizione lancisiana, aperti anche a più ampie riflessioni di carattere culturale. Infatti con ammirevole sforzo, l’Accademia Lancisiana ha avviato una riflessione, al giro di boa dei suoi 300 anni, sul proprio futuro. Accademia non più solo luogo di confronto sulla materia d’elezione ma luogo in cui elaborare attività e rapporti che pongano l’istituzione all’interno del più vasto panorama culturale del Paese.
L’Accademia si rinnova dunque. Oserei dire che nel concetto di Accademia è insito il concetto di rinnovamento. Il termine Accademia, di origine greca, fu usato per definire la scuola filosofica fondata da Platone nel 347 a.c., poco fuori le mura di Atene. Pare che il nome provenisse da un tal Academo che aveva donato un terreno alla città. In quel luogo Platone teneva le sue lezioni e scriveva i suoi dialoghi e là si formò Aristotele ascoltando il maestro.
L’Accademia dunque in epoca greca era quasi una università. Dava una formazione politica ma anche religiosa -era dedicata alle Muse- ed era indirizzata allo studio e alla ricerca. Dalla Grecia all’Italia, dal III secolo a.C al XVI secolo, in pieno umanesimo quando nel Paese si sviluppò il fenomeno delle Accademie.
La prima a nascere in ordine di tempo fu l’accademia della Crusca (1570), seguì l’Accademia di Santa Cecilia (1585), l’Accademia di San Luca (1593), l’Accademia dei Lincei (1603), fino all’Accademia che oggi ci ospita, a cui seguirono diverse altre. Tutte nate dalla volontà di ricerca su impulso delle dottrine dell’umanesimo, mentre le università rimanevano arroccate sulla filosofia scolastica e sull’applicazione rigorosa, perinde ac cadaver” delle arti del trivio e del quadrivio. Insomma potremmo dire che in molti casi gli accademici furono dei rivoluzionari. Su questa scia Giovanni Maria Lancisi fondò la sua Accademia nel 1715.
Gli erano cari concetti che oggi potremmo chiamare moderni:
- che le scelte terapeutiche devono provenire dai dati anatomico-fisiologici
- postulava la necessità di un modello unico di prova
- poneva fede nell’indagine microscopica in medicina.
Altra intuizione molto contemporanea riguarda la formazione del medico; secondo Lancisi deve sapere di filosofia, botanica, chirurgia, zoologia, biologia. Era suo convincimento che l’immersione completa del medico nella cultura contemporanea arricchisse di informazioni e dati la mente speculativa.
Lancisi, dunque, studioso, medico, filosofo, archiatra papale, letterato e antiquario. Studioso attento della trasmissione della malaria tramite le zanzare. Postulò la necessità di prosciugare le paludi pontine per estinguere il contagio. Scrisse tra il 1712 e il 1717 De bovilla peste e De noxiis paludum effluviis eorumque remediis Ma anche attento esaminatore di casi particolari: come le morti improvvise che accaddero nei primissimi anni del 1700. Anatomopatologo - oggi sulla scia della filmografia statunitense lo definiremmo coroner. A lui si deve la descrizione delle strie longitudinali mediali.
In questo trecentenario si celebra dunque non solo il lavoro dell’Accademia per diffondere la conoscenza delle teorie lancisiane ma il tentativo di questa istituzione di essere, come lo fu Lancisi nella sua epoca, al passo con i tempi.
Dall’osservatorio privilegiato che è il ministero per i beni e le attività culturali abbiamo registrato sia per questa istituzione che per molte istituzioni consimili questo sforzo di costante rinnovamento pur non tradendo le proprie origini storiche. Molte accademie si sono accorte della necessità di cambiamenti organizzativi interni, ad esempio riguardo all’utilizzo delle nuove tecnologie di informazione e comunicazione.
Il rapporto con l’utenza, sempre più attenta e richiestiva ha spinto molte realtà accademiche ad assumere diverse, e precedentemente inesistenti, fisionomie strutturalmente più legate al territorio e più versatili e rispondenti alle proprie caratteristiche.
Ne cito solo qualcuna come esempio:
- la costituzione di rapporti tra accademie che operano nello stesso settore culturale
- l’avvio di rapporti organici con altre amministrazioni pubbliche; esempio ne è proprio questa Accademia che collabora con l’Ospedale Santo Spirito e la ASL di riferimento.
- una più stretta collaborazione in particolare con le Università che ha permesso la nascita, in molti casi, di specifici corsi di laurea, o convenzioni per l’erogazione di crediti formativi per universitari.
- l’accentuazione dell’interesse verso i rapporti internazionali, mediante progetti condivisi, borse di studio, residenze ecc…
- l’utilizzo delle nuove tecnologie informatiche nei servizi al pubblico, dalla catalogazione al prestito.
Inoltre non si può dimenticare che nuove accademie sono nate negli ultimi sessant’anni. Ne cito una per tutte, divenuta di rilievo in quanto congiunta ad uno dei caratteri elitari della nostra cultura: l’Accademia della Cucina nata nel 1953.
Questi che ho indicato sono chiari segni di vitalità delle istituzioni accademiche. L’interrogarsi sui propri obiettivi, il valutare i bisogni dei propri associati sono il primo e più importante sintomo di vitalità e di interrelazione con la propria utenza che una istituzione culturale possa fornire.
Ascoltare gli impulsi e le proposte che vengono dal quotidiano, dalle nuove ricerche scientifiche, dalle moderne filosofie, è il modo migliore per mantenersi dentro la realtà, non tradendo il proprio portato culturale, ma anzi proponendolo con nuovi strumenti e fruendo di nuovi metodi per la diffusione e la valorizzazione del patrimonio che si conserva e tramanda.
Così la Crusca, con le nuove attività “la piazza delle lingue”, nuove riviste “la crusca per voi” nuovi servizi; così l’Accademia di Santa Cecilia, che si avvale di una struttura architettonica che è divenuta il centro della cultura musicale della città; così l’Accademia Chigiana, che ha recentemente riscoperto il collegamento con il territorio. Così l’Accademia dei Lincei. Così infine l’Accademia Lancisiana
Ma c’è anche, purtroppo un risvolto della medaglia.
L’Accademia Lancisiana, che può benissimo essere assunta ad esempio dell’eccellenza culturale del nostro paese ha lottato e lotta quotidianamente per mantenere alto il livello culturale delle proprie attività. E non pensiate che sia diverso per le altre istituzioni, accademiche e non.
La grave crisi economica e finanziaria, che da anni ormai spazza l’Europa, sta velocemente ed inesorabilmente travolgendo le istituzioni che, come questa, producono e conservano cultura. I primi sintomi della crisi dei finanziamenti pubblici alle istituzioni culturali si sono registrati nel 2005; da quel momento in poi la situazione delle istituzioni che operano nel settore della cultura è peggiorata irreversibilmente. Sia le biblioteche che gli archivi che gli istituti culturali hanno visto progressivamente ridursi, anno per anno, i finanziamenti dello Stato.
(°) Fin troppo facile è il paragone tra la politica culturale attuata tra la fine del XX e l’inizio del secolo del XXI secolo e quella avviata agli albori del XIX secolo. Il complesso di norme e regolamenti che hanno costituito, riconosciuto e finanziato molti degli istituti che oggi sono sull’orlo del baratro economico, risale infatti ai primi anni del XX secolo. Ai primi del Novecento, infatti l’attenzione del mondo politico italiano verso il sistema culturale del Paese era davvero elevato. Lo dimostra il semplice fatto che solo in Italia coesistessero due biblioteche nazionali centrali, Roma e Firenze, mentre in tutti gli altri Stati, anche al di là dell’oceano fosse attestata la presenza di un’unica biblioteca nazionale.
Anche gli istituti culturali fiorivano grazie a Regi decreti istitutivi. Neanche i tristi tempi di guerra e la dittatura fascista frenarono il riconoscimento, da parte dello Stato, dell’importante compito delle istituzioni culturali. Nacque la Giunta centrale degli studi storici (1934) e i quattro istituti storici ad essa collegati: l’Istituto di storia antica (1935), l’Istituto storico per il medioevo (1934), l’Istituto storico per l’età moderna e contemporanea (1934), l’Istituto per la storia del risorgimento italiano (1955), la Domus Mazziniana (1952) e il Museo storico della liberazione (1957), la Fondazione Marconi (1938), l’Unione Accademica Nazionale (1949) e si ricostituì come ente pubblico l’accademia dei Lincei rifondata nel (1944) precedentemente fusa con l’Accademia d’Italia.
Ma torniamo ai nostri tristi giorni.
La Direzione generale per le biblioteche, gli istituti culturali ed il diritto d’autore, che in questo settore opera, ha avviato già da tempo una necessaria riflessione volta ad affrontare i problemi connessi alla ricostituzione del tessuto culturale ormai al limite della sua resistenza. Tutti i mezzi di informazione hanno ormai da anni avviato una martellante opera di informazione sullo stato dell’economia italiana
Abbiamo imparato tutto, da giornali e televisioni, sulle sofferenze della Borsa, apprendendo anche il gergo di settore. Abbiamo passato notti insonni temendo un ulteriore rialzo dello spread. Abbiamo appreso con sconforto della decrescita a denti di sega dell’economia italiana; abbiamo assistito con raccapriccio al rimbalzo del gatto morto, tipica espressione del gergo borsistico che dichiara definitivamente uscito dalla contrattazione un titolo dopo un precedente rialzo di effimera durata.
A tanta partecipazione alla vita del settore finanziario ha corrisposto un quasi totale disinteresse del cittadino medio, come della politica, alle vicende della conservazione, gestione e fruizione del patrimonio culturale del Paese. Infatti pochissimi economisti hanno osato una seria riflessione su una economia basata sulla cultura
Eppure il settore potrebbe sostenere anche economicamente il nostro Paese e rimpinguare gli esausti forzieri del Tesoro. Con una attenta programmazione nel settore culturale si garantirebbe la nascita di migliaia di posti di lavoro perché il paese Italia è ancora considerato nel mondo come erogatore del non plus ultra dell’offerta culturale.
Lo stentato mercato interno in questi anni è stato sostenuto esclusivamente da un export senza pari. Abbiamo esportato, moda, design, enogastronomia, arte, auto di alta gamma, arredamento, l’opera lirica e così via. E’ di un paio di giorni fa la notizia che la dieta mediterranea, quindi anche la classica dieta italiana è divenuta patrimonio dell’umanità.
E la lingua italiana? E’ considerata la lingua dell’elite culturale in molti paesi. La settimana scorsa si sono tenuti a Firenze gli stati generali della lingua italiana. Tra gli intervenuti una giovane cantante lirica coreana con una davvero buona conoscenza dell’italiano. Salita sul palco per l’ interpretazione del pezzo, le è stato chiesto: “Ma perché hai voluto studiare l’italiano”. La risposta è stata lapidaria: “ perché l’Italia è la più grande potenza culturale del mondo”. Dovremmo riflettere attentamente su questa frase.
E adesso affrontiamo un altro argomento. Quello di una Accademia che cambia nel mondo che cambia. Il mondo della cultura ha subito nel breve volgere di pochi decenni una serie di rivoluzioni a catena.
Appena assorbito il passaggio dalla carta al digitale, la prima rivoluzione in ordine di apparizione, eccone un’altra, che ha attirato l’attenzione anche di psicologi e neurologi: la differente reazione del cervello umano ai diversi supporti di lettura. Dalla carta all’E-book il passo è lunghissimo.
Cambia la modalità di lettura, cambia la modalità di apprendimento, e di conseguenza, cambia la modalità di scrittura. Ed ecco la seconda rivoluzione.
La navigazione on line alla ricerca di dati e informazioni, la possibilità di modificare testi già esistenti su web offrono soluzioni nuove sia nella produzione che nella elaborazione di atti e documenti. Nascono nuove soluzioni editoriali home made grazie alle nuove tecnologie non solo nella ricerca delle fonti e nella elaborazione dei risultati, ma anche nel trasferimento dell’informazione dal docente al discente.
Quattro sono i pilastri attraverso cui si diffonde l’informazione, ovvero il dato culturale che interessa alla mia amministrazione: la ricerca, la scrittura, l’insegnamento, l’apprendimento. Come gli sceneggiatori devono tener conto delle inserzioni pubblicitarie e condensano film e sceneggiati in blocchi di 20 minuti, così anche chi scrive per il web ha imparato a concentrare l’attenzione del lettore con scritti di non più di 15-20 righe. In questo primo decennio del terzo millennio ci apprestiamo a salutare, con un pizzico di mestizia, la vecchia unità di scrittura universalmente riconosciuta: la cartella.
Una diversa scrittura per una diversa lettura, dunque.
E la rivoluzione si sente già tra i banchi di scuola. Oggi chi insegna si trova di fronte allievi profondamente e costantemente connessi in rete. Soggetti estremamente vulnerabili alle informazioni esterne, che difficilmente riescono a scegliere, nella massa di dati presenti in rete, le informazioni corrette e certificate. Ma d’altra parte individui molto più veloci e addestrati all’utilizzo del mezzo informatico nelle mille sue derivazioni ed in alcuni casi, diciamolo sottovoce, molto più addestrati anche rispetto al docente.
Ma nel confronto, anche soltanto con la generazione di allievi precedente, si nota una indebolita capacità di concentrazione. Alunni che taggano, chattano, twittano, ma che faticano non poco a mandare a memoria alcuni versi o mantenere viva l’attenzione per più di una manciata di minuti. Che gradiscono, più che la lettura, l’apprendimento per immagini. L’insegnamento dovrà fare conti con questa nuova realtà. Ed anche la nostra amministrazione, che supporta le istituzioni culturali che fanno ricerca e pubblicano, non può non tener conto di questi mutamenti.
Non voglio annoiarvi oltre ricordando le ultime teorie di psicologi e neurologi sulle modifiche neurali in atto nelle nuove generazioni che porteranno a mutamenti genetici. E’ probabile che i posteri indicheranno e l’era geologica che contraddistingue il nostro contemporaneo come l’era di dell’Homo digitans.
La terza rivoluzione, dopo il passaggio dalla carta al digitale e il processo di modifica nell’apprendimento, riguarda la conservazione dei libri e delle carte.
Nel corso dei secoli archivisti e bibliotecari si sono preoccupati del rischio “ sbriciolamento” della carta. Parlo di un argomento a cui in questa sede molti sono sensibili. Non si può infatti dimenticare quanto sia rilevante la biblioteca lasciata da Lancisi. E sono particolarmente lieta che sia stato previsto uno specifico intervento su questo inestimabile lascito affidato ad un bibliotecario di grande nome, il dott. Osvaldo Avallone.
Parlavamo della carta che fino alla fine del XVI secolo era ancora fatta di stracci dunque resistente, e la pergamena praticamente indistruttibile. La carta dal ‘600 in poi, fatta con la cellulosa, ha avuto in molti casi esiti catastrofici cui, con grande difficoltà, si è posto rimedio. Fino ad arrivare alla carta dei quotidiani contemporanei che in pochi anni si trasforma in coriandoli.
Ma queste ansie per la conservazione della carta, sembrano ai bibliotecari e agli archivisti di oggi, davvero poca cosa, a raffronto con la velocissima caducità dei microfilm e l’incerto futuro dei documenti digitali nativi o trasferiti da supporto cartaceo a digitale.
La Direzione Generale Biblioteche in proposito ha attuato un programma di conservazione perpetua del materiale digitale creando la più grande infrastruttura nazionale di conservazione denominata Magazzini digitali, che conserva dalle tesi di dottorato alla produzione on line delle riviste delle università, al materiale pubblicato solo in digitale in Italia e conservato per obbligo di deposito legale. Però il digitale, nonostante la delicatezza della sua conservazione, ha un vantaggio immenso sul cartaceo; grazie ai motori di ricerca, alle indicizzazioni, agli OPAC, le informazioni, anche le più distanti nel tempo e nello spazio sono alla portata di tutti. Le distanze sono annullate, i tempi sono minimizzati.
E questa è la quarta rivoluzione: il tempo! E’ il più prezioso bene della nostra epoca, come il fuoco fu nell’età della pietra. Come l’oro, rimasto il bene più prezioso fino al superamento del golden change standard con gli accordi di Bretton Wood. Come negli anni 2000, con la nascita di internet, fu l’informazione.
Il tempo ha un costo. E sul valore del tempo si è innescata la quarta rivoluzione. Una rivoluzione silenziosa, che tocca tutti gli ambiti della nostra vita. Dal commercio: per noi signore le verdure già lavate o i piatti pronti surgelati; al lavoro il tablet con la connessione internet per essere sempre in contatto con tutti; al tempo libero il ciberturismo o, molto più semplicemente, le video guide e le app da scaricare sul cellulare. Vietato perdersi in vacanza, vietato perdere anche un attimo del nostro prezioso tempo libero.
Detto ciò è lecita la domanda: ma il Ministero dei beni culturali cosa può fare per le istituzioni culturali che come l’Accademia Lancisiana lavorano alla diffusione della cultura in un mondo stravolto in meno di 50 anni da quattro rivoluzioni copernicane ?
Il punto di partenza di qualsiasi progetto nel settore degli istituti culturali deve essere l’idea che la cultura permea trasversalmente tutti i settori. Come vedete una riflessione molto lancisiana. Dunque un progetto sulle nuove strategie per il sostegno agli istituti culturali non può prescindere da una analisi complessiva di tutto il settore cultura.
Partiamo da una affermazione universalmente condivisa.
Se un Paese ha risorse naturali o giacimenti petroliferi è considerato corretto e auspicabile che tali risorse vengano utilizzate in favore della popolazione, per aumentare la scolarizzazione, per risollevare le fasce più deboli dalla povertà per alzare il livello medio di vita di tutta la popolazione.
La Russia, gli Emirati Arabi gli Stati Uniti hanno investito così le loro immense riserve naturali. E noi? Le nostre risorse sono i beni culturali e paesaggistici: i templi greci di Selinunte e Segesta, i trulli pugliesi, le cattedrali gotiche, i mosaici ravennati, l’immenso patrimonio di opere architettoniche, gli archivi, i musei, le biblioteche e gli istituti culturali. Purtroppo non ci distinguiamo per l’eccellenza nella gestione di questi tesori né tanto meno per la loro valorizzazione (°°). Prìncipi illuminati come i Medici o i Gonzaga hanno, già più di seicento anni fa, compreso i princìpi base della politica culturale. Ancora dopo cinque secoli il nostro Paese offre agli occhi incantati di turisti di tutto il mondo opere di straordinaria eccellenza e raffinata eleganza.
È grazie a quei Prìncipi e a quei princìpi che si compie ancora oggi il rito del viaggio in Italia. Palazzo Vecchio; l’Arena di Verona, i giardini di Boboli, Venaria reale, Palazzo Te, le ville palladiane sono luoghi di silenzioso omaggio all’arte e alla cultura del nostro Paese. Incredulità ed emozione si leggono negli occhi di turisti di ogni parte del mondo che si aggirano nel Foro romano o in Castel Sant’Angelo.
Quegli sguardi attoniti e rapaci nell’abbeverarsi alla fonte di tanta bellezza ci rammentano che la prima legge di una valida teoria economica è che la domanda sia pari all’offerta. Più alta è la domanda, rispetto all’offerta, più aumenta il valore del bene.
La domanda di accesso ai nostri beni culturali è immensa, potenzialmente quantificabile nell’intera popolazione terrestre per il prossimo futuro. E l’offerta? Gli articoli di protesta per le chiusure dei musei e dei luoghi d’arte nei giorni festivi ci danno il polso dell’offerta di cultura nel paese.
E’ dunque improcrastinabile una riflessione condivisa su quale futuro scegliere per questo Paese.
Insieme, l’Amministrazione e le istituzioni culturali, si sono interrogate, nel corso di tutto quest’anno, e poi durante il convegno AICI (Associazione degli istituti culturali italiani) lo scorso settembre a Torino, su cosa si voglia fare della ricchezza culturale di questo Paese.
Questo è, credo, il momento più adatto, quando i finanziamenti sono stati ormai ridotti al lumicino e la politica, superando la vecchia e mai troppo vituperata idea che la cultura non crea benessere, si è data nuove norme. Una per tutte il decreto denominato “Art Bonus” che permette sgravi fiscali per chi contribuisce a salvare e tutelare il patrimonio culturale. Quale momento migliore per rimettere sul tavolo il problema e affrontarlo in modo completamente nuovo, utilizzando anche lo strumento della riorganizzazione dell’assetto amministrativo del Mibact?
Insieme a tutti i rappresentanti della ricchissima realtà culturale del nostro Paese, abbiamo riscritto, a più mani, gli articoli di una nuova norma che, riconoscendo che la cultura è per definizione polimorfa e multisettoriale, ha abbandonato la filosofia assistenziale in favore di una filosofia inclusiva che permetta un dignitoso sostegno alle istituzioni che elaborino attività in rete, che collaborino per materie affini, che offrano al pubblico servizi integrati, che sviluppino progetti condivisi.
Abbiamo avviato la procedura di delegificazione della legge 534 che, lo ricordo, era nata nel 1996 e individuava criteri ormai superati sui quali valutare l’attività delle istituzioni culturali da finanziare. Criteri quantitativi piuttosto che qualitativi, numero delle postazioni di lavoro per gli utenti, numero dei volumi della biblioteca, numero delle pubblicazioni edite annualmente e così via.
La nuova norma prevede una valutazione più all’altezza dei tempi. Si valuta non solo la consistenza del patrimonio ma anche la qualità. Non solo la quantità di volumi presenti in biblioteca ma anche l’esistenza di patrimonio raro o di pregio, la presenza di fototeche, nastroteche, mediateche, la possibilità dell’utente di connettersi in istituto con banche dati specialistiche.
Non si richiede più un apertura fisica dell’istituto per un congruo numero di ore a settimana. Infatti grazie alla digitalizzazione del patrimonio bibliografico che molte istituzioni, anche con il contributo del ministero hanno attuato, l’apertura fisica non è un must. E’ altrettanto importante la facile fruizione del patrimonio da remoto. La nuova norma ha iniziato il suo iter. Resta solo da sperare che i tempi di lavorazione di questa nuova regolamentazione siano abbastanza brevi da permetterne l’applicazione già dall’anno 2015.
Io concludo qui questa prolusione con l’augurio che l’Accademia Lancisiana possa accedere a questo nuovo strumento di finanziamento del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, così da poter degnamente sostenere quel nuovo ruolo in cui si è impegnata, e che la vede agire, già da tempo, non più settorialmente nel panorama culturale del nostro Paese ma ad amplissimo spettro.
Bibliografia
(°)Accademie e biblioteche n.3/4 2012 pagg.53 e segg. Gangemi editore
(°°)Accademie e biblioteche n.3/4 2012 pagg.58 e segg. Gangemi editore
Angela Benintende
Direttore del servizio
Patrimonio bibliografico e istituti culturali
Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo