L’infarto senza fattori di rischio
L. Gatto, V. Marco, G. Paoletti, F. Prati
Nelle ultime decadi si sono acquisite molte nozioni sulla genesi dell’infarto e delle sindromi coronariche acute in genere (1-3).
Si è compreso molti anni fa che l’infarto miocardico tipicamente non è causato dalla crescita progressiva delle placche aterosclerotiche. L’instabilizzazione della placca si verifica improvvisamente per un meccanismo di trombosi acuta che coinvolge prevalentemente le placche che non riducono significativamente il lume vasale. In apparente contrasto con questa conclusione si può anche affermare che le placche con grandi formazioni lipidiche superficiali causano più frequentemente delle altre lesioni gli eventi infartuali. E’ anche noto che le placche aterosclerotiche che causano l’infarto spesso non riducono significativamente il lume vasale perché il fenomeno del rimodellamento (espansione compensatoria della parete vasale evita che la crescita della placca riduca il lume.
Per identificare tali placche ad elevato rischio di instabilizzazione, sono stati proposti vari criteri (4,5). Il termine “placca vulnerabile” è stato impiegato per identificare una lesione con un’alta probabilità di divenire in futuro responsabile di un evento cardiaco. Queste evidenze non derivano da studi prospettici, che ricostruiscono la storia naturale della malattia coronarica, ma scaturiscono prevalentemente da studi retrospettivi, basati su autopsie di soggetti venuti a morte in conseguenza di un evento acuto (6-11) . Sono quindi sono stati identificati 3 tipi prevalenti di placca associati ad eventi avversi (5):
Da almeno 20 anni si è a conoscenza del ruolo dell’infiammazione nel favorire i fenomeni di trombosi locale e aumentare il rischio di eventi infartuali. Studi post-mortem hanno dimostrato che la maggior parte delle sindromi coronariche acute (SCA) è causata da lesioni con pool lipidici separati da una capsula fibrosa sottile e con un alto contenuto di cellule infiammatorie, prevalentemente macrofagi e “foam cells”. Secondo un’ipotesi alternativa l’infiammazione va intesa come fenomeno multifocale o addirittura sistemico (2,12-14), spostando l’accento sulla ricerca del cosiddetto paziente vulnerabile piuttosto che della placca vulnerabile.
Negli ultimi anni, studi condotti con biomarcatori hanno documentato la presenza di un’attivazione sistemica dell’albero coronarico in pazienti con IMA (12-14).
Esistono casi con più lesioni coronariche instabili ?
Gran parte delle conclusioni cui si è giunti e che ho riassunto nel capitolo precedente derivano da studi anatomo-patologici. In particolare la definizione di placca vulnerabile nasce prevalentemente da osservazioni post-mortem, così come l’individuazione più recente di trombosi per un meccanismo erosivo (9-11).
Studi degli anni 70 ed 80 hanno evidenziato trombi coronarici anche in sede diversa da quella infartuale in un’alta percentuale di casi. Davies et al hanno studiato 100 pazienti deceduti per infarto miocardico. Lo studio autoptico condotto entro sei ore dall’insorgenza dell’infarto, ha individuato su 100 pazienti 74 casi con trombi multipli. (6).
Più recentemente si è osservato che la numerosità dei fibro-ateromi con segni di rottura è più contenuta (15). Per esempio in un dettagliato studio autoptico eseguito su 50 cuori provenienti da pazienti deceduti per morte cardiaca improvvisa e da controlli, le placche aterosclerotiche con segni di rottura venivano identificate rispettivamente nell’1,2% dei casi.
Queste osservazioni sono state confermate da studi condotti con tecniche angiografiche o condotte con imaging coronarico. Una lettura attenta dei lavori genera comunque qualche perplessità.
Goldstein et al (16) hanno fornito una prima importante documentazione della presenza di più lesioni con caratteristiche di instabilità. Gli autori hanno notato che solo nel 60% dei soggetti con infarto miocardico si osserva all’angiografia un unico restringimento con aspetto irregolare, a suggerire un processo ulcerativo. Nel rimanente 40% dei casi, in cui venivano osservate più placche di tipo complesso, si notava, ad un anno, un tasso di eventi coronarici acuti significativamente più alto rispetto al gruppo di confronto (rispettivamente 19% vs. 2,6%, p<0,001). Nel gruppo con stenosi multiple, i reinterventi di angioplastica ad un anno ed in sedi diverse dalle lesioni precedentemente trattate, erano più numerosi che nel gruppo con una sola lesione “culprit” (17% vs 4,6%, p<0,001).
Hong et al. (17) confrontando con IVUS la morfologia di placca in pazienti con infarto miocardico acuto ed angina stabile, hanno confermato quanto emerso da studi angiografici od istologici. Gli autori hanno studiato i 3 rami coronarici principali in 235 pazienti; 122 con infarto miocardico acuto e 113 con angina pectoris stabile. Segni di rottura di placca a livello della lesione culprit sono stati individuati nel 66% dei pazienti con infarto miocardico acuto e nel 27% delle lesioni ritenute responsabili della forma stabile di angina (lesioni target). La rottura di placca nei punti “non culprit” e “non target” si verificava rispettivamente nel 17% dei pazienti con infarto miocardico acuto e nel 5% dei pazienti con angina stabile. Infine rotture multiple di placca osservavano nel 20% dei pazienti con infarto miocardico acuto e nel 6% dei soggetti con angina pectoris. All’analisi multivariata l’infarto miocardico acuto era l’unico elemento indipendente indicativo di rotture multiple di placca.
A conclusioni analoghe sono giunti Rioufol et al impiegando l’IVUS (18).
Le osservazioni più recenti sono state ottenute mediante l’impiego della tecnica FD-OCT, più accurata nell’identificare le componenti superficiali della placca, rispetto all’IVUS (19,20). Kubo et al hanno studiato 42 pazienti con infarto acuto ed evidenziato segni di ulcerazione e/o trombosi locale in sede non culprit in 3/43 pazienti. (9%) (21). Analogamente secondo Tanaka (22) l’incidenza di rottura di placca nelle sedi non culprit era intorno al 12%.
Questi studi di imaging coronarico, anche se condotti con tecniche diverse, portano ad una conclusione: la presenza di più lesioni complicate, prevalentemente con aspetti di ulcerazione , sta ad esprimere una malattia multifocale che coinvolge l’intero albero coronarico.
L’affermazione non può essere confutata. Gli autori degli studi in oggetto lasciano però intendere che l’aspetto complicato della placca (ulcerativo) esprima un evento acuto. Non a caso il lavoro di Goldstein et al (16) ha suscitato così tanto interesse. E’ clinicamente allarmante pensare che esistano placche attive e potenzialmente pericolose nel 40% dei casi e preoccupante generare delle ipotesi fisiopatologiche secondo le quali esistano più placche coronariche che si instabilizzano contemporaneamente.
Questa secondo aspetto lascia perplessi. Non esistevano infatti dati sulla tempistica dei processi riparativi che si attuano dopo una ulcerazione di placca o in ogni caso dopo una trombosi asintomatica. In altri termini non si può escludere che le instabilizzazioni di placca riportate dagli autori si riferissero ad episodi occorsi in passato e pertanto non acuti.
Nuove evidenze sulle modalità di “guarigione” delle lesioni culprit nei pazienti con SCA
Dati non ancora pubblicati provenienti dal nostro centro ricerca indicano che, nel processo di guarigione delle placche ulcerate, la cosiddetta rottura di placca rimane stabile nel tempo. Abbiamo studiato 10 pazienti con SCA provenienti dal centro francese di Clermont-Ferrand University Hospital, France). La maggior parte dei pazienti è stata trattata con la rimozione del trombo mediante tecnica di trombo-aspirazione mentre un sottogruppo è stato sottoposto al trattamento medico (trombolisi o impiego di abciximab). A distanza di qualche giorno i pazienti sono stati sottoposti a coronarografia con esame OCT per definire la morfologia delle lesioni culprit e il meccanismo con cui si è verificata la trombosi locale. In 5 casi si è identificata una ulcerazione di placca , nei rimanenti 5 una erosione. Lo studio OCT è stato quindi ripetuto a distanza di mesi (tra 1 e 7) per studiare il processo di guarigione delle lesion culprit.
Sorprendentemente la morfologia delle lesioni culprit con ulcerazione è risultata in gran parte sovrapponibile al follow-up, mostrando le presenza di comunicazione tra il pool necrotico lipidico ed il lume. Va anche sottolineato come aspetti ulcerativi fossero visibili persino dopo 4 o 6 mesi dall’insorgenza dell’infarto.
Nei 5 soggetti con trombosi su erosione era possibile identificare al follow-up una linea di frattura che demarcava uno strato di tessuto interno con caratteristiche acustiche diverse.
Infine il trombo che in fase acuta/subacuta appariva con superficie irregolare o frastagliata, tendeva con il tempo ad assumere un contorno liscio. E’ importante notare che ad un mese di distanza la superficie del trombo poteva essere ancora irregolare.
Che cosa cercare negli studi in vivo con le tecniche di imaging? E’ possibile individuare le lesioni coronariche che in passato si sono complicate causando trombosi rimaste clinicamente silenti?
Le metodiche di imaging intracoronarico molto probabilmente forniranno altre conoscenze fisiopatologiche. La possibilità di impiegarle in vivo e con studi seriati rappresenta un importante vantaggio rispetto agli studi post-mortem. Le metodiche si vanno perfezionando. L’OCT rappresenta l’ultimo importante traguardo e permette di studiare l’aterosclerosi con alta accuratezza e con una risoluzione che potremmo definire quasi cellulare (19,20).
A mio modo di vedere è necessario chiarire quali aspetti morfologici vadano cercati e provare ad individuare nuovi aspetti. Può sembrare una affermazione banale, ma per giungere a nuove acquisizioni è necessario studiare aspetti morfologici fino ad ora non studiati.
Negli studi con imaging effettuati negli ultimi 20 anni con tecniche di imaging invasivo (IVUS, OCT, angioscopia) o non invasivo (TAC) vengono spesso accumunati elementi morfologici che andrebbero invece separati. Mi riferisco alle placche vulnerabili e ai segni di rottura o trombosi locale. Mentre i primi starebbero ad indicare placche con una maggiore predisposizione alla trombosi e in alcuni casi alle SCA, gli altri elementi sono stimmate di una pregressa instabilizzazione.
La classificazione da noi proposta dovrebbe ovviare a questo problema interpretativo, separando le lesioni vulnerabili da quelle cosiddette trombogeniche (con segni di ulcerazione o trombosi) (Figura 4). La presenza di trombosi con aspetto frastagliato, indica secondo i nostri dati una trombosi acuta o quantomeno recente (entro un mese), mentre una ulcerazione con trombo indica lesioni acutamente instabili per un meccanismo ulcerativo. Inoltre un’ulcerazione senza trombo sta ad indicare una rottura ormai vecchia. Questa affermazione scaturisce dallo studio descritto nel capitolo precedente e da una osservazione aneddotica, ottenuta effettuando l’OCT in modo seriato. L’ulcerazione di placca senza segni di trombosi e localizzata in una sede diversa dalla lesione culprit rimaneva immodificata dopo 8 mesi (23).
Le erosioni rimangono più difficili da studiare. Si dovrà ulteriormente validare l’aspetto OCT che abbiamo visto accompagnarsi a vecchie erosioni. In questo caso va ricercata una rima di frattura con aspetto a due strati, ad indicare un’organizzazione del trombo nel tempo.
Tabella 1. Criteri per la definizione della Placca Vulnerabile (modificati da Naghavi et al. ADDIN EN.CITE
Criteri Maggiori:
• Infiammazione in atto (infiltrato monocito/macrofagico)
• Cappuccio fibroso sottile (≤65 mm) con largo core lipidico
• Placca Fissurata
• Area di stenosi >90%
Criteri Minori:
• Noduli calcifici superficiali
• Superficie di colore giallo scintillante
• Emorragia intraplacca
• Disfunzione Endoteliale
• Rimodellamento Positivo
Bibliografia
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Ospedale San Giovanni & Fondazione CLI, Roma