Come è cambiata la terapia del tumore del polmone: dalla comunicazione alle cure palliative.
L. Portalone, S. Portalone
Dagli anni ’70 ad oggi la terapia oncologica ha subito una incessante evoluzione1,2,3. In alcune neoplasie, come quella mammaria od i linfomi, il successo terapeutico è stato enorme ed oggi queste patologie sono divenute guaribili in grande parte. Il tumore polmonare rimane ancora in massima parte mortale anche se la sopravvivenza mediana si è praticamente raddoppiata. Di contro la sua incidenza è aumentata ed è previsto un trend fortemente incrementale nelle prossime decadi: dai 32.000 casi attuali ai 52.000 del 2030. Molto tempo è passato dalle epoche pionieristiche in cui veniva usato un solo farmaco, alchilante di prima generazione nella speranza di ostacolare l’avanzare della neoplasia metastatica. Negli anni ’70 comparvero dapprima gli alcaloidi della Vinca, quindi il cis platino ed i suoi derivati; tutt’ora quest’ultimo farmaco rimane un caposaldo della terapia di molti tumori soprattutto da quando si è riusciti a controllare l’emesi indotta, con i farmaci inibitori dei recettori H3 istaminici1,2. A questo primo pool di farmaci si sono aggiunti quelli di seconda e terza generazione, la gemcitabina, i taxani, la vinorelbina, e più recentemente il pemetrexed. Ma soprattutto si è meglio delineata la schedula ideale di somministrazione, circa il numero di farmaci da usare in associazione (due) ed il timing. Ancora esistono perplessità sulla indicazione a proseguire la terapia oltre gli abituali sei cicli terapeutici in un mantenimento che consenta un controllo della malattia nel tempo3. Negli anni ’70 Volkman riprese il concetto della neoangiogenesi ed ipotizzò la possibilità di interferire sull’accrescimento neoplastico bloccando la creazione di vasi neoformati. In realtà la novità consisteva nell’aver spostato l’attenzione dei ricercatori dalla cellula neoplastica al tessuto neoplastico con tutte le implicazioni di integrazione e coordinamento fra cellule che questo comporta. A questo seguì la presa di coscienza che esiste una grande variabilità individuale su base genetica che condiziona l’espressione di varietà enzimatiche diverse che a loro volta possono avere un ruolo prognostico ma anche biologico nel metabolismo cellulare; possono condizionare la maggiore o minore sensibilità del tumore fino alla comparsa di resistenze ai farmaci antiblastici tali da condizionare la risposta terapeutica. Nelle prospettive attuali potremo costruire una sorta “anticitogramma” su cui basare le nostre scelte terapeutiche. In realtà è già possibile oggi fare delle scelte mirate sulla scorta di informazioni genetiche ricavate dal campione bioptico: non basta più definire una neoplasia sulla scorta di criteri morfologici tradizionali. Stiamo cercando di ottenere più informazioni in modo da utilizzare farmaci attivi biologicamente e meno tossici. L’uso dei farmaci biologici rimane però circoscritto ai pazienti che presentino una mutazione recettoriale bel definita a carico della cellula ed, in tal caso, questi avranno una buona efficacia. La frequenza di una mutazione è molto bassa e non supera un 18-20% di tutti i casi4. Va quindi ribadito che il trattamento preferibile ancora oggi è quello tradizionale. In realtà esiste tutta una serie di mutazioni e riarrangiamenti genetici che sono osservati molto attentamente alla ricerca di nuove soluzioni: finora il dato più eclatante è che si è riuscito ad abbattere il muro dei 12 mesi di sopravvivenza mediana attuali dai 4 degli anni ’70.
Quando ci troviamo di fronte ad un sospetto di neoplasia polmonare il percorso diagnostico e terapeutico si snoda attraverso un iter codificato e consolidato che parte dal momento diagnostico per giungere, attraverso la terapia, qualunque essa sia, alla guarigione od alla fase terminale ed all’exitus. Spesso la terapia, nelle fasi avanzate, è utilizzata non come strumento utile per il prolungamento della vita, ma per rispondere ad esigenze psicologiche del paziente e dei suoi familiari. La chemio terapia può provocare danni devastanti quando utilizzata in pazienti scarsamente in grado di tollerarla, o per le condizioni generali, o per la presenza di comorbidità importanti, o per l’età biologica troppo avanzata. Addirittura si può configurare un conflitto etico per un accanimento terapeutico non altrimenti giustificabile. Al di là quindi della possibilità di fare quello che è necessario, esiste la necessità di fare tutto il possibile per garantire al Paziente una sopravvivenza più lunga nelle condizioni migliori.
Esiste attualmente una precisa dicotomia fra l’interrompersi della fase curativa e l’inizio della fase palliativa, gestita da equipe diverse, con competenze e peculiarità differenti. Questo finisce col disorientare i pazienti che si sentono abbandonati dai medici della prima equipe quando capiscono che ormai la loro sorte è segnata. Nel 2010 e quindi nel 2012 la dottoressa Jennifer Temel pubblicò una ricerca in cui metteva a confronto due gruppi di pazienti affetti da neoplasia polmonare inoperabile: il primo trattato in modo tradizionale ed il secondo con un approccio misto terapeutico - palliativista fin dal primo momento5. I risultati furono sorprendenti, non solo si ebbe un miglioramento scontato della situazione psicologica ma una sopravvivenza superiore nel secondo gruppo. Da allora le maggiori Associazioni Oncologiche6 appoggiano questo approccio olistico nella convinzione che l’attenzione ai bisogni psicologico sociali, un migliore trattamento del dolore assuma un significato di rilievo accanto al trattamento terapeutico tradizionale, non solo per migliorare la qualità di vita ma la sopravvivenza del paziente. Studi successivi hanno documentato un migliore controllo del dolore quando il Paziente viene visto da subito con un ‘ottica palliativa; questo atteggiamento può produrre un maggiore contenimento dell’uso di terapie endovenose, un maggiore impiego di farmaci orali, con relativo abbassamento dei costi e del disagio dei Pazienti. Per arrivare a tutto questo è necessario cambiare radicalmente l’approccio metodologico terapeutico, contando su equipe multidisciplinari in grado di valutare il Paziente sotto tutti gli angoli visuali, ciascuno portando il proprio contributo tecnico alla discussione del caso. E’ scontato che alla base del percorso, nel rapporto Medico Paziente, spesso modificato dall’intervento parentale in rapporto trilaterale, è fondamentale dicevo una corretta comunicazione7. Costruire un rapporto di comunicazione corretto è la grande sfida dei nostri giorni e necessita di un approfondimento tecnico solido, non improvvisato. E’ indispensabile che l’oncologo sia consapevolmente preparato a questo impegno. E’ un impegno che richiede un adeguato training oltre che una grande cultura tecnica: il Paziente richiede spiegazioni esaustive, complete, aggiornate e convincenti; deve essere messo in condizione di operare scelte consapevoli non scontate come poteva essere una volta. Nello stesso tempo però non si può ridurre tutto alla semplice enunciazione di dati statistici e scaricare sul Paziente la responsabilità di una scelta che condizionerà nel bene e nel male la sua esistenza e quella della sua famiglia per un periodo anche abbastanza lungo. Stabilire una relazione consapevole, empatica può essere la faticosa risposta a questa condizione. Faticosa per l’impegno psicologico e tecnico che comporta soprattutto con i pazienti meno recettivi, più puntigliosi e talvolta meno in grado di capire, anche per motivi psicologici la realtà. La difficoltà di stabilire questo rapporto empatico è sollevata da interessanti esperienze in cui viene documentata l’incapacità di raccogliere da parte anche di Medici esperti, le opportunità empatiche, le domande di aiuto implicite od esplicite, lanciate dal Paziente. Spesso il Paziente chiede al Medico più una disponibilità psicologica che tecnica e lo giudica più su questo aspetto che su quello specifico oncologico8.
Come accennato è necessario rimodulare l’approccio oncologico in modo radicale, fino dalla preparazione del personale a livello universitario. Ma è indubbio che anche l’aspetto organizzativo presenta le sue criticità: ripensare l’integrazione fra rete oncologica, rete palliativistica e rete di terapia del dolore, è l’indispensabile corollario su cui fondare il moderno assistenzialismo oncologico. Rivedere l’attuale meccanismo di erogazione dei farmaci diventa una priorità per garantire il corretto uso dei presidi anche a livello domiciliare.
Il processo di adeguamento quindi passa per un momento culturale ed uno organizzativo necessariamente correlati ed imprescindibili nell’evoluzione non tanto di un percorso terapeutico, quanto nell’evoluzione e ripensamento di un approccio medico più rispondente alle necessità dell’utenza e delle disponibilità del SSN.
Va sempre però sottolineato che nessuna integrazione o razionalizzazione tecnica potrà mai riuscire se il rapporto Medico Paziente non sarà fondato su un rapporto di relazione empatico: dall’unione fra il recupero culturale del sentire e l’applicazione razionale delle risorse può nascere un nuovo modo di fornire salute.
Bibliografia:
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4. Petrosyan F,Daw H, Haddad A, Spiro T: Targeted therapy for lung cancer. Anti-cancer drugs 2012; 23:1016-1021.
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6. Smith TJ, Temin S, Alesi ER, Abernethy AP, Balboni TA, Bash EM, Ferrel KR, Loscalzo M, Meier DE, Paice JA, Peppercorn JM, Sommerfield M, Stovall E, Von Roenn JH: American Society of Clinical Oncology Provisional Clinical Opinion: The integration of palliative care into standard oncology care. J Clin Oncol 2012; 30:880-887.
7. Paul CL, Clinton-McHarg T, Sanson-Fisher RW, Douglas H, Webb G: Are we there yet? The state of evidence base for guide lines on breking bad news to cancer patients. Eur J Cancer. Eur J Cancer 2009; 45: 2960-2966.
8. Rossi Ferrario S. Cremona G. :Communication in a medical setting: can standards be improved? Multidisciplinary Respiratory Medicine, 2013; 8:1
Luigi Portalone, Silvia Portalone
II UOC Pneumologia Oncologica Az. Osp. S. Camillo Forlanini, Roma