Verso un’umanità senza malattie.
Saprà la mente umana adattarsi alla nuova situazione?
Alberto Oliverio
Università di Roma, La Sapienza.
In Italia e nell’Occidente industrializzato la vita media è sempre più lunga, gli anni della vecchiaia rappresentano ormai quasi un quarto della vita media di uomini e donne. Non è facile, come vedremo, definire cosa s’intende oggi per vecchiaia ma esiste una dimensione inequivocabile dal punto di vista sociale, quella del pensionamento che può segnare, almeno psicologicamente, il passaggio da una vita attiva a una “inattiva”, una perdita di ruolo dove il lavoro costituisce un elemento determinante per caratterizzare la dimensione sociale di un individuo. Numerose ricerche indicano però una trasformazione del modo in cui è percepita la vecchiaia da parte degli anziani che possono vivere in modo positivo la terza età. Ad esempio, uno studio condotto dall’Associazione Nestore[1] dimostra che da parte degli anziani una valutazione positiva della propria condizione dipende da alcuni fattori critici quali, nell’ordine di preferenza, un soddisfacente uso del tempo libero, il senso di libertà, l’equilibrio/benessere, l’utilità sociale, il recupero della vita familiare.
La mente degli anziani è quindi ben adattata e fronteggia positivamente questa età della vita oppure gli anziani presi in considerazione da questo e altri studi sono una parte “felice” della terza età, neopensionati non ancora alle prese con acciacchi, solitudine, restrizione dei legami sociali? Il problema, come ben si comprende, è vasto e spazia dalla sociologia alla politica. Anche la dimensione biomedica della vecchiaia ha però un ruolo centrale: man mano che si allunga la vita, la medicina risolverà i problemi di salute? Che ruolo avranno le malattie degenerative? E soprattutto, è possibile contrastare i processi di invecchiamento cerebrale per far sì che la qualità della vita degli anziani, e dei loro cari, non contrasti fortemente con la quantità della vita?
L’interrogativo formulato a conclusione di questo simposio contempla perciò non uno ma diversi problemi e risposte.
1. Un primo punto riguarda la capacità della nostra mente di adattarsi a un arco vitale sempre più lungo, caratterizzato da una vecchiaia che spazia per alcuni decenni.
2. Un secondo aspetto riguarda la trasformazione del nostro atteggiamento nei confronti della medicina, l’attesa che tutto sia curabile e fronteggiabile in termini biomedici.
3. C’è infine un terzo aspetto, quello che riguarda la prevenzione degli inevitabili processi degenerativi del cervello senile, prevenzione che deve necessariamente iniziare in età giovanili, quando la vecchiaia appare ancora lontana nel tempo.
Qualità e quantità della vita.
Consideriamo anzitutto le trasformazioni cui è andata incontro la vita umana, trasformazioni abbastanza recenti ma che pongono in una prospettiva diversa il nostro rapporto con la salute, la malattia, la prevenzione.
Le caratteristiche della vita umana sono cambiate radicalmente nell’ambito di poco più di mezzo secolo: pochi decenni sono appena un attimo in termini di storia del genere umano ma possono anche rappresentare un importante giro di boa evolutivo. Sin quasi alle soglie della seconda guerra mondiale le età della vita avevano diverse caratteristiche qualitative e quantitative: un “ragazzo” di 30 (o anche di quarant’anni), come lo si chiama oggi, era un uomo maturo ma circa un secolo prima, quando Dostoevskji scrisse “I Fratelli Karamazov”, parlava di uno dei suoi personaggi come di “un vecchio di quarant’anni”. Anche gli antichi romani chiamavano senex il quarantenne, Balzac definiva “amabile vegliardo” un suo personaggio di appena 45 anni, Byron temeva “la vecchiaia che insorge con i quarant'anni”[2]... Ovviamente, oggi sono cambiate anche le caratteristiche dell’infanzia e dell’adolescenza, un’età, quest’ultima che si spinge sin quasi ai vent’anni. Ma la fase dell’arco vitale che è cambiata in modo più evidente è la vecchiaia, o la terza età, se si preferisce usare un termine che fu introdotto quando la vecchiaia cominciò a trasformarsi sia dal punto di vista del numero di persone che arrivavano ad essere anziani, sia da quello della condizione degli anziani, diversi nella psiche e nel corpo rispetto ai loro predecessori di un non lontano passato.
Un tempo, anzitutto, essere anziani, cioè aver superato i 50 o i 60 anni, a seconda del periodo storico, era un fatto che riguardava un numero relativamente ridotto di persone: non soltanto l’attesa di vita alla nascita era di circa 40 anni a causa dell’elevata mortalità infantile ma anche le persone che arrivavano a campare sino ai 60 anni, potevano sperare di vivere, in media, altri 14 anni. Oggi l’attesa di vita di un neonato è di circa 80 anni per i neonati e di quasi 83 per le neonate. Nel 2020 la speranza di vita dei sessantacinquenni dovrebbe allungarsi di circa 3 anni per gli uomini e di quasi 4 per le donne; e infine, nel 2030 l’allungamento della vita sarebbe rispettivamente di 4 anni per gli uni e di 5 anni e mezzo per le altre. Questi dati sono suffragati da recenti ricerche demografiche basate su varie fonti, tra cui i registri della chiesa Luterana svedese in cui sono annotati con estrema precisione i fenomeni demografici dal 1750 ad oggi. Ebbene, questi registri indicano che l'attesa di vita di un ottantacinquenne svedese non è sostanzialmente cambiata nell'arco di tempo che va dalla metà del Diciottesimo secolo sino all'inizio del Novecento: quando invece si considera l'ultimo mezzo secolo, si scopre che la vita-media degli ultra-ottantacinquenni è aumentata del 30-50 percento e che ciò si è verificato anche per chi ha 90, 95, 100 anni... Insomma, chi è oggi “veramente vecchio”, cioè chi arriva alla tarda età, ha di fronte a sé una vita più lunga rispetto a quanti erano “veramente vecchi” mezzo secolo o un secolo fa.
Questo per quanto riguarda la quantità, vale a dire l’età media della popolazione che nei paesi industrializzati dell’Occidente, come ben sappiamo, ha portato alla presenza di una larga fascia di anziani. Ma anche la qualità della vita è cambiata: un secolo fa un sessantenne presentava caratteristiche senili, appariva e si comportava come un vecchio, oggi é nella pienezza delle sue funzioni psicofisiche e si proietta ancora nel futuro. Ogni medaglia ha però il suo rovescio e c’è un “ma”, stiamo bene (in media) sino alle soglie dei 75 anni ma a questa età cominciano a manifestarsi i primi acciacchi: le articolazioni mostrano segni di artrosi, le ossa perdono calcio, il cuore può avere problemi di irrorazione dovuti all’arteriosclerosi, il cervello può subire i danni che derivano da una scarsa irrorazione sanguigna e da un’eccessiva morte cellulare. Gran parte di queste malattie ricadono in un’area comune: quella delle malattie degenerative della terza età, legate a una senescenza degli organi e in particolare del cervello e della mente. Malattie come l’arteriosclerosi cerebrale, il morbo di Parkinson o di Alzheimer minacciano il nostro benessere: sono più frequenti sia in assoluto, perché gli anziani sono oggi di più, sia in termini relativi. In altre parole, il benessere cerebrale di un anziano è oggi più a rischio di quanto non avvenisse in passato, forse a causa di una vita più stressante o, come sostengono alcuni, di un elevato tasso di inquinamento ambientale e di una dieta sbagliata. La vecchiaia può quindi apparire come una fase inevitabilmente negativa, caratterizzata da acciacchi, da problemi neurologici, da una memoria zoppicante e da una mente velata: ma questa evoluzione non è ineluttabile, può essere contrastata ed é quanto ci si aspetta dalla medicina.
Aspettative nei confronti della medicina.
Le aspettative nei confronti della medicina e delle sue risorse terapeutiche sono profondamente mutate nel tempo, grazie alle crescenti capacità delle scienze mediche di fronteggiare e prevenire un gran numero di processi morbosi. Basterà pensare che sino agli anni Trenta del secolo scorso, i farmaci attivi si contavano sulle dita di una mano, al massimo di due: la digitale per lo scompenso di cuore, la nitroglicerina per l'angina pectoris, l'oppio per il dolore, i salicilati per la febbre, il chinino per la malaria, l'olio di fegato di merluzzo per il rachitismo... In mancanza di farmaci adatti a curare infezioni e allergie, tumori ed epilessie, malattie gastro-intestinali e disturbi del comportamento, il medico, si affidava alle sue raffinate capacità semeiotiche: capacità non inferiori a quelle odierne, se si considera che egli doveva basarsi sulla ricerca di tracce e segni sottili, senza disporre di quell'armamentario di esami clinici cui si fa oggi affidamento per comprovare o arrivare ad una diagnosi. Oggi é possibile diagnosticare la maggior parte delle malattie, curarle con farmaci sempre più potenti, trapiantare organi e tessuti, prevenire alcune patologie fin dalla vita fetale cosicché non stupisce che nell'immaginario collettivo sia subentrato un senso di onnipotenza che si traduce nella quasi incapacità di accettare che vi siano delle forme di patologia che la scienza medica non é ancora riuscita a controllare, che non tutti i mali possano essere guariti, che non siamo immortali.
Il rapido sviluppo delle tecnologie biomediche ha avuto un altro effetto: quello di sovvertire dei parametri della salute e della malattia che per lungo tempo erano apparsi immutabili: tecnologie della riproduzione, trapianti d'organo, nuovi farmaci, ingegneria genetica, rappresentano soltanto alcuni aspetti della vita umana che rimandano, quasi quotidianamente, a problemi nuovi rispetto al passato, ad una dimensione non tradizionale delle nostre scelte e giudizi di valore. Così, se da un lato si rafforza quello spirito di onnipotenza e di fiduciosa aspettativa che derivano dallo sviluppo di potenti tecnologie, dall'altro la violazione della "sacralità della natura" suscita perplessità e timori e soprattutto pone dei problemi etici che un tempo erano inesistenti o di scarso impatto. Anche nel passato, ovviamente, gli uomini interferivano con le cosiddette "leggi della natura" e si opponevano ai loro aspetti negativi: se essi avessero ritenuto che la nascita e la vecchiaia dovessero avere un loro corso naturale o che le malattie dovessero avere un decorso immodificabile la specie umana si sarebbe probabilmente estinta. La bivalenza nei confronti delle tecnologie biomediche e dei farmaci rappresenta tuttavia uno degli aspetti tipici della condizione postmoderna: così, se alcuni guardano ai farmaci con fiducia e ottimismo, altri li giudicano con sospetto, in termini negativi.
Ma la bivalenza nei confronti del farmaco ha ricadute ben più ampie: essa non si esaurisce in un atteggiamento di fiducia o sfiducia nei riguardi del farmaco ma investe il significato stesso della medicina e del concetto di salute. Lo studioso francese René Dubos[3] ha ben tratteggiato la dicotomia che esiste tra prevenzione e cura: volendo schematizzare, egli indica come, da un lato, la salute sia vista come il risultato di corrette abitudini di vita, dall'altro come il superamento della malattia. Non si tratta, anche in questo caso, di una contrapposizione recente in quanto essa é radicata nell'antichità, nei miti della Grecia Classica:
"I miti di Igea e di Asclepio simbolizzano l'oscillazione continua tra questi due differenti punti di vista della medicina. Per i seguaci di Igea la salute è nell'ordine naturale delle cose, come attributo positivo cui gli uomini hanno diritto se conducono la loro vita saggiamente. Secondo la loro opinione il ruolo più importante della medicina è di insegnare le leggi naturali che assicurano all'uomo una mente sana in un corpo sano. Più scettici o più saggi, a seconda dei punti di vista, i fedeli di Asclepio ritengono invece che il ruolo principale del medico sia quello di trattare le malattie e di ripristinare la salute correggendo ogni imperfezione causata dagli accidenti della nascita o della vita".
Alla luce della dicotomia tracciata da Dubos, diversi studiosi si sono domandati se la conoscenza delle "leggi naturali" o un miglior adeguamento alla natura, si legga un miglior benessere, dieta ed igiene, non siano stati i veri responsabili del miglioramento delle condizioni di salute dell'umanità, o almeno degli abitanti dei paesi industrializzati. La medicina, con le sue pratiche e i suoi farmaci, ha in realtà usurpato un merito che non le compete ma che deve essere attribuito, anziché ad Asclepio, ad Igea? In realtà, senza i farmaci le sole pratiche preventive sembrano in molte occasioni disarmate e la stessa medicina impotente, come indicano alcuni esempi che si riferiscono specificamente alle malattie infettive. Daniel Bovet, premio Nobel nel 1956 per le sue ricerche sui sulfamidici, antistaminici e curari, in un suo saggio dedicato alla chimica terapeutica ha notato come dopo la prima guerra mondiale i medici avessero assistito inermi alla morte di ben 25 milioni di persone a causa della "febbre spagnola". I medici non possedevano infatti che rimedi sintomatici, affermava il grande clinico Cesare Frugoni: "identificata la malattia, il malato era, sì assicurato e curato nei suoi sintomi ma contro la malattia, cioè contro la sua causa infettiva, non era possibile una terapia causale". Vorrei citare ancora la parole di Bovet, indicando il drastico cambiamento che si verificò già nei primi mesi che seguirono la scoperta dei sulfamidici: in Inghilterra, "nell'ospedale di Birmingham, quattro mesi dopo la scoperta della sulfopiridina, la mortalità da polmonite era scesa all'8% mentre essa restava al 27% nel gruppo dei pazienti non trattati. Da un'inchiesta condotta nella città di New York emerse che i malati di polmonite che la nuova terapia aveva salvato ammontavano a 5.000. Riportato all'insieme degli Stati Uniti, questo dato indicava che ogni anno si potevano annoverare 25.000 persone salvate da sicura morte, cioè la popolazione di una piccola città"[4].
Per apprezzare meglio la portata della rivoluzione farmacologica, basterà ricordare che negli anni Trenta, esattamente nel 1932, la voce "Farmacologia" dell'Enciclopedia Treccani indicava che sarebbe stato difficile elencare dieci farmaci attivi. Poco meno di mezzo secolo dopo, nel 1979, l'OMS avrebbe indicato ufficialmente 234 farmaci di prima necessità e avrebbe introdotto un concetto, quello dell'esistenza di un certo numero di farmaci "essenziali, cioè basilari, indispensabili e necessari per i bisogni di salute della popolazione". Lo stesso termine "essenziale" può tuttavia suscitare -e lo ha fatto- delle discussioni che non si riallacciano soltanto a delle categorie medico-biologiche ma a un problema quasi filosofico, quello della ricerca di farmaci caratterizzati da un rapporto ottimale tra benefici e rischi, oltre che, ovviamente, tra benefici e costi.
Quest'ultimo aspetto, cioè il rapporto tra beneficio e rischio, è stato al centro di aspri dibattiti centrati sul concetto di accettabilità dell'incidenza di un effetto indesiderato in funzione del tipo di farmaco. Così, è stato proposto che per un farmaco di efficacia non dimostrata o per il trattamento di condizioni benigne sarebbe accettabile un effetto indesiderato su 100.000 casi trattati, mentre per il trattamento di gravi patologie sarebbe tollerabile un effetto indesiderato su 1000 casi trattati. Ma alcuni, e più oltranzisti critici della medicina, asseriscono che nel caso della salute non si può tollerare un ragionamento probabilistico ma bisogna poter fare affidamento sulla certezza. Al giorno d'oggi, infatti, la nostra propensione a correre dei rischi è minore rispetto ai tempi in cui non disponevamo di tecnologie sicure e di terapie valide. Ne sono un indice i tempi necessari per immettere un farmaco sul mercato rispetto al passato: questi tempi nel 1937, ai tempi dei sulfamidici, non raggiungevano un anno mentre oggi arrivano, e a volte superano, il decennio: nel 1940 una molecola su 300 o su 500 poteva diventare un prodotto suscettibile di applicazioni cliniche, nel 1955 il rapporto passa da 1 a 1.000, nel 1975 da 1 a 5.000, nel 2000 da 1 a 8000...
Essendo ormai trascorsi gli anni "eroici" della farmacologia, la collettività -ormai dotata di un discreto arsenale farmacologico- è meno propensa a correre dei rischi ed esige sicurezza. Il farmaco, come altri tipi di intervento scientifico-tecnologico, é infatti entrato a far parte di una concezione del mondo improntata alla regolarità, al controllo ed alla razionalità: ovviamente non tutti aderiscono a questo tipo di concezione ma la maggior parte dell'opinione pubblica guarda oggi alla vita, e quindi alla salute, come a dei processi controllabili su cui l'uomo può incidere a suo piacimento. Questa concezione può sfociare, se estremizzata, in una sorta di delirio di controllo e di onnipotenza che trova, prima o poi, le sue ovvie disconferme: ma ormai alcuni aspetti delle nostra esistenza, dalla vecchiaia alla malattia e alla stessa morte, hanno acquistato valenze ben diverse rispetto al passato, quando l'uomo non viveva in un sistema tecnologico talmente spinto da esigere di esercitare un controllo su quasi ogni ambito della realtà, dalla traiettoria di quegli asteroidi che potrebbero minacciare il nostro pianeta al flusso della lava vulcanica, sino alla nostra stessa salute.
La malattia, insomma, è considerata come uno stato di disordine che può essere contrastato attraverso il farmaco o meglio ancora attraverso la prevenzione. In una società in cui ci si ammala di meno rispetto al passato e in cui alcune malattie hanno cessato di esistere, la prevenzione può apparire come una forma di controllo ancor superiore allo stesso farmaco: non è infatti meglio evitare qualcosa che dover correre ai ripari, rischiando? Laurence e Bennett[5] hanno affrontato questo tema in un loro saggio che è ormai un classico della farmacologia clinica: essi indicano, ovviamente, come sia senz'altro preferibile prevenire alcune malattie, ad esempio le cardiopatie, regolando le proprie abitudini di vita, anche se va osservato che questi buoni principi sono ancora largamente disattesi. Eppure coloro che si ammalano saranno grati ai farmaci. Oggi, la richiesta di nuovi farmaci, non si riferisce oggi soltanto a farmaci che si sostituiscano a medicine ormai obsolete ma a farmaci che consentano di affrontare un settore nuovo in termini "storici", quale può essere quello della gerontologia, delle malattie croniche e degenerative, un settore legato a una migliore qualità della vita, drasticamente importante per una terza età sempre più estesa. Se si presta attenzione a questa trasformazione, si può comprendere il motivo della proliferazione di medicine alternative, in gran parte inconsistenti nelle loro basi scientifiche e nei reali risultati terapeutici, quando esse non agiscono essenzialmente in una sfera psicosomatica.
Prevenzione degli stati degenerativi cerebrali.
Gli studi sulle caratteristiche del cervello senile e sui fattori che, contrastandone l’invecchiamento, si traducono in una vecchiaia migliore si sono moltiplicati in questi ultimi anni. Queste ricerche riguardano sia una dieta appropriata, che contrasti l’accumulo di quei radicali liberi che, ossidando le cellule nervose, riducono l’efficienza del cervello, sia la scelta di uno stile di vita che ostacoli quei fenomeni involutivi del corpo e della mente che si manifestano nell’ultima fase della vecchiaia: in parole semplici, oggi sappiamo che la salute del corpo (e con esso del cervello) e della mente dipende da un’opportuna stimolazione, come indica il detto americano “Use it or loose it” (o lo adoperi o lo perdi). Questa massima riassume un importante caposaldo delle neuroscienze moderne. La struttura e le funzioni del cervello si modificano in rapporto all’ambiente e alle nostre esperienze: in positivo, se queste sono stimolanti, in negativo, se il cervello manca del “cibo” di cui ha bisogno.
In generale, e per quanto ovvio ciò possa ormai sembrare, nella terza età la cosa più importante è mantenere vivi interessi e hobby che tengano occupati, stimolino la mente, mantengano in efficienza la memoria. Diversi studi hanno dimostrato che la memoria ha bisogno di essere stimolate ed esercitata, anche attraverso la vecchia strategia dell’imparare a memoria: questo allenamento è scarsamente utile in gioventù ma migliora le prestazioni mnemoniche dell’anziano perché fa sì che il cosiddetto “magazzino della memoria breve” (il luogo in cui le memorie sono depositate per breve tempo prima di essere convertite in memorie durature), non si “restringa”, resti elastico, pronto a dilatarsi per accogliere e registrare nuove esperienze. E’ quindi fondamentale tenere viva la mente e continuare ad aggiornare i propri schemi mentali facendo, per quanto possibile, nuove esperienze: anche se il cervello viene nutrito nel modo migliore, se si evitano gli eccessi legati all’alcol o al fumo, se si scongiurano i danni vascolari o quelli esercitati da sostanze ossidanti, come i radicali liberi, questo organo si nutre prevalentemente di stimoli, mantiene la sua efficienza sulla base delle esperienze quotidiane.
E’ indubbio che ogni età, ha un suo “tipo” di mente, un suo modo di ragionare e di agire e non è quindi motivo di stupore che un bambino, un ragazzo, un uomo maturo o un anziano pensino e si comportino in modo diverso. Tuttavia, in un mondo in cui aumenta il numero di lavoratori anziani la minore efficienza psichica può diventare un problema: un tempo si andava in pensione a 55, 60 o 65 anni, oggi si parla di 70 anni come di una meta possibile. Negli USA per far fronte a questa trasformazione sociale e a un mondo del lavoro diverso si prospettano programmi di stimolazione mentale dall’età adulta e a una ristrutturazione delle strategie di lavoro. E’ infatti necessario prevenire l’invecchiamento cerebrale sin dall’inizio della maturità stimolando il cervello in ogni modo.
Malgrado queste nuove acquisizioni, sopravvivono ancora stereotipi sulla vecchiaia legati al passato cosicché molti ritengono che le caratteristiche delle età della vita non siano passibili di modifiche. E’ perciò importante rovesciare questa concezione, non più in linea con le nuove conoscenze e sensibilizzare gli adulti di oggi a praticare un vero e proprio fitness della mente. Oggi è ben noto che negli anni giovanili i processi plastici fanno in modo che quando una rete nervosa deperisce o perde efficienza, subentri un’altra rete in grado di svolgere le funzioni esercitate dalla prima: il che significa che tanto maggiore è il numero delle reti, tanto più elevate saranno flessibilità cognitiva, capacità della memoria, apprendimento ecc. Dalla maturità queste capacità cerebrali si riducono: ma se il cervello beneficia di un capitale accumulato in precedenza, può compensare i danni che si manifestano inesorabilmente con l’età. Un’analogia può spiegare meglio questa situazione. Immaginate che il traffico automobilistico percorra una rete stradale e che questa deperisca per l’usura: se esistono altri circuiti alternativi, il traffico, cioè le operazioni mentali, potrà continuare in modo efficiente…
Come favorire la presenza di circuiti alternativi? Una strategia interessante emerge da uno studio coordinato da Hanna-Pladdy e MacKay[6] che indica come le capacità cognitive di chi ha fatto precocemente pratica musicale si ripercuotano sulla terza età. La ricerca è stata condotta su un campione di anziani in salute suddivisi in tre gruppi in base alle esperienze musicali: nel primo sono stati inseriti chi non aveva mai praticato musica, nel secondo chi l'aveva praticata per alcuni anni (nove al massimo), nel terzo quelli con più di 10 anni di esperienza. Diversi test neuropsicologici hanno indicato che chi aveva studiato musica più a lungo raggiungeva i risultati migliori, mentre i non-musicisti conseguivano punteggi più bassi in tutte le prove. Ci si può chiedere se le migliori prestazioni delle persone che hanno suonato più a lungo siano legate al fatto che hanno continuato a suonare negli anni della tarda maturità o della vecchiaia, tenendo quindi il cervello impegnato e stimolandolo a lungo. La risposta è però negativa. L’effetto positivo sul cervello deriva essenzialmente dall’averlo stimolato precocemente: ci sono, infatti, periodi cruciali della plasticità cerebrale che hanno un maggiore impatto sullo sviluppo del sistema nervoso. In sostanza, tanto prima si fa pratica musicale, tanto meglio per il cervello: suonare uno strumento coinvolge, infatti, numerose funzioni cerebrali, da quelle linguistiche a quelle sensoriali, motorie, oltre a potenziare funzioni esecutive come attenzione e memoria.
Più in generale, questi e altri dati, indicano che la stimolazione cerebrale negli anni giovanili contribuisce a rendere il cervello plastico: apprendere una seconda lingua, suonare uno strumento, sviluppare la mente attraverso strategie diverse, non rappresenta soltanto un vantaggio concreto nell’immediato ma costituisce un capitale che tornerà utile nella vecchiaia. D’altronde, le statistiche dimostrano che le persone che hanno svolto attività intellettuali sono più protette nei confronti dei deficit cognitivi che si manifestano nella vecchiaia. In conclusione, é necessario per il futuro un cambiamento di strategia, un'ottica preventiva che a livello collettivo e individuale, consideri che la vecchiaia vada preparata e affrontata sin dagli anni della giovinezza. L'ottica con cui guardare alla terza età deve essere diversa rispetto al passato, puntare al superamento di stereotipi culturali che non corrispondono più all'attuale e futura situazione della vecchiaia. In altre parole, é la nostra mentalità che deve cambiare affinché mente e cervello possano adeguarsi alla nuova situazione demografica.
[1] Associazione Nestore. Andare in pensione: Problema o risorsa? Atti del convegno del 2008 pubblicazione web: http://www.associazioni.milano.it/nestore/Atti_per_Web.pdf
[2] Oliverio A. e Oliverio Ferraris A. Le età della mente, Rizzoli, Milano, 2004. BUR Saggi, Milano 2005.
[3] Dubos R. Mirage of Health, Aldridge, Londra 1970.
[4] Bovet D. Vittoria sui microbi, Bollati-Boringhieri, Torino 1991.
[5] Laurence D.R. e Bennett P.N., Farmacologia clinica, Piccin Editore, Padova, 1981.
[6] Hanna-Pladdy B. e MacKay A. The Relation Between Instrumental Musical Activity and Cognitive Aging," Neuropsychology, 25, 3-11, 2011.