Il paziente anziano complesso
Introduzione
G. Minardi, R. Lanzetta
Negli ultimi 20 anni si sono verificati notevoli cambiamenti nel mondo della salute. Questi sono da rapportare a tanti fattori tra i quali: l'invecchiamento della popolazione, le trasformazioni indotte dalle migrazioni, la riduzione delle risorse impiegate in sanità, le nuove modalità di convivenza delle persone e il riemergere del “welfare invisibile” delle famiglie, la difficoltà ad elaborare una nuova organizzazione basata sul ruolo dell'ospedale e una sua migliore integrazione con il territorio.
Per quanto riguarda l'invecchiamento si è visto aumentare il numero degli ultra-ottantenni da 724.000 del 1960 a 2.476.000 del 2000, con una proiezione a 2.890.000 nel 2030 e a 4.180.000 nel 2050. Le malattie croniche sono diventate il principale problema di salute pubblica in Italia e negli altri Paesi occidentali. Esse rappresentano il 92% di tutte le morti nel nostro Paese, con una maggiore rilevanza delle patologie cardiovascolari (41%) e dei tumori (28%). I progressi della medicina hanno permesso di curare, ma non di guarire, patologie che un tempo avevano un esito letale precoce (cardiopatie congenite, metaboliche etc.) e hanno prolungato la sopravvivenza di pazienti affetti da malattie croniche (es. cardiovascolari, metaboliche). Ma è la crescente prevalenza dei pazienti con polipatologie – circa 1/3 della popolazione adulta e 2/3 della popolazione anziana – che ha posto ulteriori sfide, fra cui la definizione di Linee Guida diagnostico-terapeutiche e dei parametri di esito che tengano conto della complessità clinica.
La “medicina della complessità” considera l’insieme delle diverse condizioni morbose non solo in quanto presenti contemporaneamente (come sommatoria), ma nella loro interazione multidimensionale (comorbilità, multi morbilità a genesi comune o diversa, convergenza su elementi clinici comuni e interconnessione con acuzie e cronicità e con l’intensità di cura necessaria). Essa realizza una sintesi sinergica tra i vari organi ed apparati, con una valutazione contemporanea delle varie componenti e senza regole gerarchiche. L'approccio metodologico, inclusivo di tutti gli aspetti, si basa sulla rilevazione dell'anamnesi e dell'esame obiettivo con l'individuazione dei sintomi e dei motivi della richiesta di assistenza; sull'impostazione dell’iter diagnostico-terapeutico integrato; sull'impostazione di un programma di follow-up e di proseguimento del percorso clinico.
Nell'abituale comportamento del medico, la malattia viene identificata in
relazione ai sintomi e ai segni clinici e viene trattata al fine di
ripristinare, se è possibile, uno stato di salute completo o, comunque, almeno
una qualità di vita accettabile. Oggi, in rapporto all’invecchiamento della
popolazione, questi obiettivi sono spesso di difficile conseguimento per:
- le conseguenze della malattia sui diversi organi e apparati;
- la coesistenza di più condizioni morbose;
- le caratteristiche peculiari dei pazienti e delle loro storie cliniche;
- la possibile comparsa di complicanze;
- i trattamenti praticati, i loro effetti specifici, diretti e indiretti, e gli
effetti collaterali;
- l'invecchiamento e la progressiva riduzione delle funzioni d’organo e di
apparato.
La gestione olistica del paziente complesso richiede un approccio che va al di là del semplice coordinamento delle varie prestazioni specialistiche e si configura come la identificazione di percorsi diagnostico-terapeutici-riabilitativi il più possibile individualizzati, con buon rapporto costo/efficacia, che prevedano sempre di più l’empowerment del paziente e della sua famiglia e la costituzione di percorsi assistenziali in continuità ospedale-territorio.
“L'approccio tradizionale della medicna occidentale degli ultimi 600 anni, basato sulla duiagnosi e sulla cura della singola malattia, è del tutto anacronistico, se non addirittura dannoso. Esso, infatti, non tiene conto delle co-morbilità, dell'influenza dei fattori psicologici, culturali e ambientali dello stato di salute; così come del fatto che I pazienti, soprattutto se anziani, possono avere priorità differenti rispetto agli obiettivi storicamente perseguiti dal medico, privilegiando la qualità della vita alla sua durata” (Mary E. Tinetti, 2004).
Questo Simposio è stato organizzato tenendo presenti gli scenari che attualmente configurano il mondo reale della salute e che rappresentano una sfida a cui tutti gli operatori sanitari e gli organi istituzionali sono chiamati a dare risposte concrete e risolutive.
Professionisti esperti in vari settori hanno affrontato alcune delle problematiche del paziente anziano complesso: la fragilità, lo scompenso cardiaco, la sindrome cardio-renale-anemia e la stenosi aortica.
La fragilità può essere definita come una sindrome complessa, biologica e clinica, caratterizzata da riduzione delle riserve e della resistenza agli stress, causata dal declino complessivo di più sistemi fisiologici, in conseguenza a fattori biologici, psicologici e sociali. Essa ha una prevalenza incrementale in funzione dell'età, che va dal 7% nella fascia di età 65-74anni al 36.6% nella fascia di età 80 e più anni. La fragilità denota uno stato di instabilità e di rischio di perdita o di ulteriore perdita di funzione e cioè può portare a disabilità o ad aggravare una pre-esistente disabilità. Le co-morbidità e le malattie croniche aumentano la fragilità, così come l'invecchiamento (genetica, metabolismo, infiammazione), portando a compromettere progressivamente le IADL e le ADL. Il precoce riconoscimento e trattamento della fragilità potrebbe avere maggiori effetti positivi sulla salute degli anziani e sul contenimento della spesa sanitaria.
Lo scompenso cardiaco (SC) è una sindrome clinica complessa, caratterizzata da disfunzione ventricolare sinistra, segni di congestione venosa sistemica e/o polmonare e attivazione compensatoria dei sistemi neurormonali. Ha una prevalenza totale pari a 1.2% (0.02%-18.2%), incrementale con l'età; ha una incidenza totale pari a 3.2/1000 (0.1-49/1000); ha una letalità media del 16% (3.6%-31%); ha determinato >200.000 ricoveri con DRG 127, interessando 1.500.000 pazienti, con 2-3% spesa sanitaria. Le principali manifestazioni sono rappresentate da ridotta tolleranza allo sforzo, ritenzione di liquidi e diminuita spettanza di vita. L'andamento della malattia è ondulante e ingravescente, con fasi di relativa stabilità seguite da aggravamento improvviso e nuova stabilizzazione ad un livello più basso di compenso clinico-emodinamico. Il suo precoce riconoscimento e trattamento e una maggiore integrazione ospedale-territorio potrebbero avere positivi effetti sulla salute/qualità di vita degli anziani e sul contenimento della spesa sanitaria.
La triade composta da anemia, malattia renale cronica (IRC) e SC è una sindrome complessa che si colloca nell’ambito della sindrome cardio–renale di tipo IV. Un terzo dei casi di anemia in corso di malattia cronica è associato in particolare con la IRC e il 12% dei casi di anemia è associato con lo SC (Circ Heart Fail 2011; 4:599-606. Ankit Parikh et al. NHANES III: Prevalence and Associations With Anemia and Inflammation).L’anemia in corso IRC è caratterizzata da emazie normocitiche e normocromiche con riduzione reticolocitaria relativa. L’anemia renale prevalentemente è di tipo ipoproliferativo. L’infiammazione è un importante fattore patogenetico dell’anemia renale. Livelli sierici aumentati dei markers dell’infiammazione, ad es. della proteina C reattiva, sono frequenti nei pazienti con IRC. Sicchè la IRC può identificarsi con una condizione infiammatoria, al pari di altre malattie croniche quali l’aterosclerosi e l’insufficienza cardiaca. Il processo infiammatorio determina il progredire della malattia renale cronica, poiché nel parenchima renale si verifica un’infiltrazione cellulare di linfociti T e di macrofagi, con produzione di citochine. A livello renale le citochine hanno un effetto pro-fibrotico e reclutano nuove cellule flogistiche, con il risultato che il circolo vizioso fibrogenetico renale si automantiene e progredisce. L’incremento del livello sierico della proteina C reattiva (marker di flogosi) è associato con un aumento della mortalità nello SC congestizio. In conclusione, l’anemia. l’infiammazione, l'IRC e lo SC sono tra loro correlate.
Nella terapia dell’anemia renale, gli Erythropoiesis-Stimulating Agents (ESA) sono vantaggiosi, quando somministrati in accordo con le Linee Guida. Le Linee Guida della Società Italiana di Nefrologia (G Ital Nefrol 2007, 24(Suppl 37):99-106. Canavese C, Strippoli GF, Bonomini M, Triolo G: Hemoglobin targets for chronic kidney disease: guideline from the Italian Society of Nephrology) raccomandano: nei soggetti nefropatici cronici (non in terapia sostitutiva) un target di emoglobina (Hb) pari a 11.3 g/dl andrebbe preferito rispetto a un target di Hb > 13.5 g/dl (livello di evidenza 2). Il target di Hb preferibile nei pazienti in trattamento sostitutivo emodialitico in assenza di cardiopatia severa può essere di 11 – 11.5 in virtù della mancata evidenza di un beneficio di sopravvivenza con il ricorso a un target superiore [(Hb = 14 g/dl) (livello 2)]. Il target preferibile di Hb nei pazienti in trattamento sostitutivo emodialitico con cardiopatia severa (cardiopatia ischemica: angina pectoris in trattamento farmacologico, gli esiti di una rivascolarizzazione ; infarto miocardico; SC con necessità di ospedalizzazione o ultrafiltrazione accessoria) deve essere di 10 – 10.5 g/dl (livello 1). La somministrazione di ESA > 20.000 UI/settimana e una Hb elevata > 13 g/dl possono provocare un aumento della mortalità a causa di un aumentato rischio di gravi complicanze cardiovascolari e tromboemboliche quali ipertensione arteriosa e stroke. Gli ESA attivano e/o incrementano il numero delle piastrine ≥ 300.000/μl, attraverso la via di una ridotta disponibilità di ferro per la sintesi dell’eme, con il risultato di un rischio aumentato di complicanze tromboemboliche (Am J Kidney Dis 2008; 52:727-736. Elani Steja et al). Quanto sopra esplicita chiaramente la complessità dei pazienti, soprattutto anziani, e la necessità di un precoce riconoscimento e trattamento di tale sindrome.
La stenosi aortica degenerativa calcifica (SA) dell'anziano è la valvulopatia più frequente nel mondo occidentale: 4.6% sopra i 75 anni, 8.1% sopra gli 85 anni. La comparsa dei sintomi avviene in genere dopo la sesta-settima decade di vita e coincide solitamente con una riduzione dell’area valvolare aortica al di sotto di 0.8-1.0 cm² e con il venir meno dell’efficacia dei meccanismi di compenso. L’inizio dei sintomi costituisce uno snodo cruciale nella storia naturale della malattia, provocando un repentino e drammatico peggioramento della prognosi; è noto infatti che in assenza di intervento chirurgico, l’aspettativa media di vita è di circa 5 anni dopo l’insorgenza di angina pectoris, di 3 anni dopo sincope e di 2 anni dopo un episodio di SC acuto. La Euro Heart Survey ha evidenziato che circa 1/3 dei pazienti con SA di interesse chirurgico non viene operato o perché non inviati alla chirurgia o perché rifiutato dal cardiochirurgo in ragione dell’età avanzata, ma in modo particolare per la presenza di comorbilità, che nel paziente anziano sono significativamente più frequenti e più gravi: coronaropatia nel 30-60% dei casi, insufficienza renale nel 4-11%, ictus cerebri nell’11-19%, arteriopatia periferica nel 9%, diabete mellito nell’11-21%. Esse rendono il paziente “complesso” e aumentano in modo significativo il rischio operatorio e peri-operatorio. La possibilità di impiantare una protesi aortica per via percutanea (transapicale o transfemorale) rende disponibile, per una larga parte dei pazienti ad alto rischio o non operabili, un trattamento efficace e con buoni risultati a breve-medio termine, sia in termini di sopravvivenza che di qualità di vita.
Prof. Giovanni Minardi Cardiologo A.O. San Camillo Forlanini Roma
Prof. Raffaele Lanzetta Nefrologo A.O. San Camillo Forlanini Roma