L’Ospedale come Comunità Terapeutica: il punto di vista di uno psichiatra ospedaliero.
Volfango Lusetti
Prima di entrare negli aspetti più attuali del nostro tema, è necessario tratteggiare una rapidissima sintesi della storia dell’idea di Comunità Terapeutica Ospedaliera in Europa: la storia della medicina, infatti, ci mostra eloquentemente come in Occidente l’idea di Ospedale e quella di Comunità si siano intrecciate a lungo, almeno dall’epoca cristiana in poi.
L’organizzazione dell’Ospedale Generale, in Italia come altrove, in Europa, ha una lunghissima storia: essa inizia con l’alto Medio Evo, sotto forma di struttura alberghiera “ospitale” per poveri, che viene creata dagli ordini religiosi e monastici (in primo luogo benedettini) in continuità fisica e topografica sia con i monasteri che, più tardi, con le residenze episcopali, e successivamente con le stesse strutture murarie delle chiese.
La prima struttura ospedaliera nacque pertanto come struttura comunitaria, più che sanitaria, e fu concepita dagli ordini benedettini in collegamento con l’idea più generale, anch’essa di origine monastica, della “domus pauperorum”, (o, il che è lo stesso, di “domus infirmorum”, poiché poveri ed infermi il più delle volte si identificavano).
Alla “domus pauperorum” però si affiancò ben presto, fino ad identificarvisi, l’idea della “domus peregrinorum” (casa dei pellegrini, ovvero di persone provenienti dal di fuori della Comunità locale, ed appartenenti di solito ad un censo più abbiente di quello dei “malati”): ma con tale identificazione l’idea di Ospedale come comunità di solidarietà ebbe un ulteriore impulso, ed un preciso riscontro sociale.
Gli ospedali monastici dell’alto Medio Evo furono dunque, da un lato il luogo della custodia della sapienza medica ereditata dall’età classica (esattamente come i testi classici erano stati custoditi e tramandati, fin dal sorgere del monachesimo, dai più colti fra i monaci); dall’altro lato, però, essi furono il luogo ove anche i monaci meno colti potevano esercitarsi nella pratica medica, ossia mettere in pratica, nello spirito della solidarietà cristiana, accanto all’erboristica ed alla medicina “naturale” e popolare, le conoscenze mediche classiche trasmesse loro dai monaci più colti.
Ma con ciò l’idea della convivenza comunitaria ed interclassista, sia fra gli ospiti, sia fra gli stessi ospitanti, sia infine fra questi ultimi e gli ospitati, ricevette una ulteriore conferma.
Il duplice intreccio fra storia dell’infermità e del pauperismo da un lato, e fra storia dell’ospitalità e del monachesimo dall’altro lato, ci svela dunque un’origine comunitaria dell’idea stessa di ospedale, almeno in Occidente.
Tutto ciò è documentato ampiamente, ad es., dallo storico della medicina Giorgio Cosmacini, sia nel suo “L’arte lunga”, dedicato alla storia della medicina dall’antichità ad oggi, sia nel suo “Storia della medicina e della sanità in Italia”, dedicato più specificamente alla storia della Sanità e degli Ospedali nel nostro paese.
Insomma dall’ottavo secolo in poi, ed in particolare dal papato di Gregorio Magno fino all’anno Mille, l’ospedalità rivolta ai poveri ed agli infermi, da un lato e l’ospitalità rivolta ai pellegrini meno poveri dall’altro lato si identificarono; e ciò avvenne in virtù dello spirito comunitario monastico e cristiano. Attraverso la Comunità Ospedaliera, infatti, il povero saliva di colpo molti gradini della scala sociale, perché veniva onorato ed accudito come un ricco, mentre quest’ultimo aveva, nella convivenza e nella solidarietà col povero, un’occasione per emendarsi dalle sue colpe.
Tuttavia, nel corso dell’alto Medio Evo, la medicina ospedaliera non fece grandi progressi, né sul piano pratico o delle strutture ospedaliere, né su quello teorico: si limitò, da un lato all’elargizione di ospitalità ai poveri ed ai pellegrini (malati o non malati che essi fossero), dall’altro al tramandare i principi teorici della medicina classica di Ippocrate, Celso e Galeno, ossia di dottrine che, malgrado il loro enorme valore storico e culturale, erano, dal punto di vista della operatività medica, in gran parte astratte e prive di valore pratico, perché filosofeggianti, erudite e libresche.
Dopo l’anno Mille però, con il basso Medio Evo e con il preannuncio di un diffuso risveglio capitalistico, si ebbe il diffondersi in Europa della medicina araba ed il fiorire autoctono di numerose scuole mediche europee (ad es. quelle di Salerno e di Parigi, di Bologna e di Padova), e con ciò si registrò un importante mutamento organizzativo: gli Ospedali, anziché rimanere un affare privato degli ordini monastici, cominciarono ad essere finanziati dalla neonata classe mercantile e capitalistica (la quale, attraverso la solidarietà cristiana, come si è detto, cercava di emendarsi dalle sue colpe di cupidigia e di prevaricazione sui più deboli); perciò dovettero cominciare a rendere conto del proprio operato ai nuovi padroni, ed a mettere a frutto le nuove dottrine mediche forgiate nelle scuole mediche europee, che si speravano essere più efficaci delle precedenti.
Gli Ospedali pertanto, pur rimanendo ancorati al principio comunitario di estrazione monastica, lo attenuarono di molto, divenendo strutture sanitarie sempre più specializzate, ed al contempo più autonome rispetto alle chiese ed ai monasteri; essi presero, ad es., ad essere costruiti in luoghi fisicamente separati dagli edifici ecclesiastici; di conseguenza si ingrandirono sempre di più, ed in un certo senso, si “specializzarono”: ad es. iniziarono a separare la medicina dalla chirurgia, ecc.
Tuttavia, malgrado questi progressi organizzativi (dovuti soprattutto al subentrare, come si è detto, di finanziatori laici degli Ospedali, che presero il posto degli ordini monastici), continuavano a mancare ancora, sia negli Ospedali che altrove, quelle tecniche e conoscenze scientifiche che sole avrebbero potuto giustificare un simile cospicuo investimento, sia finanziario che di energie umane.
Perciò il diffondersi delle terribili epidemie di peste del Trecento (in particolare, quella devastante del triennio 1347-1350, che falcidiò gravemente la popolazione del continente), trovò questo modello assistenziale degli Ospedali, che potremmo definire caritativo, o cristiano-capitalistco, ad impronta comunitaria ma ad estensione ormai notevole, ancora del tutto impreparato; soprattutto, esso era assai vulnerabile al contagio, ed il contagio, puntualmente, lo mise in ginocchio.
Fu la peste, dunque, l’elemento decisivo del mutamento: con essa sopravvenne una percezione terrificante della realtà della morte, la quale inferse un colpo decisivo agli Ospedali caritatevoli; essi infatti, anche se si stavano lentamente trasformando in Istituzioni sempre più grandi e complesse, finanziati com’erano dal capitalismo nascente, erano ancora nettamente improntati ad un’ideologia comunitaria ormai del tutto inadeguata alla nuova realtà economico-sociale urbana.
Ma soprattutto, la peste colpì a morte quel residuo spirito pauperistico ed egualitario che tali Ospedali ancora conservavano al loro interno.
Il modello comunitario infatti, forzando le classi sociali ad una convivenza altamente promiscua ed interclassista, nell’ambito di agglomerati umani molto estesi e a forte concentrazione di patologie, gestite però senza alcuna protezione igienica o profilassi, favoriva potentemente il diffondersi del contagio.
L’idea che entrò in crisi, a quel punto, perciò, fu proprio quella comunitaria: essa era, come abbiamo visto, semplicemente l’idea originaria, precapitalistica, monastica e cristiana, di assistenza ospedaliera comunitaria, la quale consisteva nell’identificazione della Ospedalità con l’Ospitalità: ossia, nell’identificazione della sanità con la comunità “ideale”, di per sé solidaristica, “aperta” ed interclassista; questa “apertura” però, posta di fronte ad un brutale contatto con la contagiosissima “morte nera”, divenne un decisivo e fatale fattore di debolezza.
La concezione comunitaria dell’Ospedale entrò dunque, a quel punto, in uno stato di crisi irreversibile, sia sul piano finanziario, sia su quello ideologico, sia su quello sanitario-epidemiologico; il modello organizzativo cui essa faceva riferimento fu dunque gradualmente superato, attraverso un lento processo che durò un paio di secoli.
Tale processo di superamento dell’idea comunitaria si accompagnò peraltro ad un costante progredire della medicina specialistica, in una specie di paradossale e rivelatore rapporto di proporzionalità inversa fra specializzazione tecnica ed ideale comunitario.
L’idea medievale e monastica di Comunità Terapeutica perciò, alla fine, si rivelò controproducente, perché si rivelò letteralmente, un veicolo di diffusione delle malattie: essa dunque cedette il posto all’idea, ormai prettamente capitalistica, di una organizzazione sanitario-assistenziale separata, ossia da un lato sempre più specialistica, gerarchica ed autoritaria, dall’altro sempre meno comunitaria ed “aperta”, sempre più chiusa e rigida.
Questo processo di trasformazione-separazione degli Ospedali fu attivato, come abbiamo visto, dalla pestilenza, ossia, da una percezione netta e spietata della realtà della morte.
La percezione della morte, nel mondo occidentale, era già particolarmente forte, sul piano culturale, a causa della antichissima storia della civiltà europea, tutta intrisa di morte perché fatta di continui trapassi di civiltà, ossia di morti e di rinascite collettive, incise indelebilmente nella memoria dei popoli europei: il trapasso dalla civiltà greca alla romana, poi quello dalla civiltà pagana alla cristiana, poi quello dalla civiltà classica a quella medioevale e moderna, attraverso il trauma fortissimo delle invasioni barbariche; ed infine, quello dalla civiltà universalistica, corporativa e collettivistica del Medio Evo, a quella capitalistico-mercantile ed individualista, fondata su stati nazionali in perenne lotta fra di loro. Fu fatale, insomma, che in una civiltà così dinamica, fluida e transeunte, ma allo stesso tempo così colta e portata a conservare in sé le memorie del passato, come quella europea, il problema della percezione della morte divenisse un problema prioritario, urgente e difficile da gestire, ed al quale andava trovata una qualche soluzione extra-religiosa.
Sul piano sanitario, poi, la percezione della morte, da un lato si presentò con un’intensità del tutto inusuale (sia a causa di una fortissima urbanizzazione dell’occidente, non accompagnata peraltro da adeguate protezioni igieniche, sia a causa della vivacissima mobilità sociale occidentale e degli intensi traffici di uomini e di merci che essa implicava); dall’altro lato essa si scontrò con una cultura cristiano-solidaristica ancora molto diffusa, che in sé era portata a negare la morte, e che pertanto, forniva delle risposte del tutto controproducenti rispetto all’esigenza prioritaria di arginare il contagio, proprio in ragione del proprio carattere di “apertura” programmatica all’altro, al diverso.
Fu per tutte queste ragioni, forse, che la percezione della morte (senz’altro più forte, nell’Occidente cristiano, di quella presente in altre epoche e culture) ebbe il potere di travolgere ogni negazione ed ogni illusione: in particolare, la generosa illusione-negazione della morte di tipo caritativo o comunitario; tale illusione fu dunque volta, alla fine, nel suo contrario, ossia in una visione dell’altro da sé, ed in definitiva della morte, che dovette essere di tipo scientista, spassionato, distanziato ed oggettivante, perché volto al preciso scopo di padroneggiare ogni pericolo.
La percezione ed il terrore della morte nera trionfante, dunque (morte che era stata favorita e fatta transitare proprio dai principi solidaristici cristiani), favorì la fine delle illusioni comunitarie.
Su un piano più generale, questa intensa percezione della morte sboccò in una gigantesca crisi spirituale, e nel conseguente inizio di secolarizzazione della società occidentale (processo di cui ebbe una prima, geniale premonizione Dante Alighieri nella Divina Commedia, ed in particolare nell’Inferno); sul piano medico, essa fece sorgere la mentalità medicalistica moderna, con la nascita dello specialismo, la rottura della mentalità olistica e la conseguente creazione, per la cura delle malattie, di sempre più numerosi “luoghi separati”: gli Ospedali, intesi nel senso a noi più familiare.
Questi luoghi furono destinati dapprima alla cura delle malattie percepite come più “pericolose”, quelle infettive, ma poi anche alle altre; infatti era la malattia in quanto tale, ormai, che appariva sempre più bisognosa di specializzazione nel trattamento, e quindi di luoghi il più ‘possibile “idonei” e separati, proprio affinché tale specializzazione potesse avere luogo.
Un primo esempio di tutto ciò fu la graduale trasformazione dei lebbrosari in lazzaretti (ossia in luoghi separati adibiti alla detenzione, prima che alla cura, al posto della lebbra, di malattie infettive ben più pericolose e contagiose quali la peste).
Un altro esempio, ancora più celebre, di ciò, fu la nascita, quasi tre secoli dopo, sul finire del Cinquecento (significativamente, nell’epoca del fiorire di Galileo Galilei), dei primi asili per gli ammalati di mente; asili denominati pittorescamente come “ricoveri per pazzerelli”, e destinati agli affetti da quell’altra forma di “malattia”, dopo la peste, misteriosamente percepita come contagiosa (e che perciò era ugualmente necessario “distanziare”): la follia.
Questa esigenza, specie in epoca di Riforma e di Controriforma, di streghe e di Inquisizione, fu avvertita molto nettamente, sia dai Cattolici, sia (ancor di più!), dai Protestanti.
Gli ammalati di mente, peraltro, in questi asili furono semplicemente dei reclusi, mescolati com’erano con delinquenti, libertini, prostitute: ossia con ogni altra forma di devianza socialmente inquietante. Inoltre, per neutralizzarli meglio, essi, al pari degli altri ospiti, vi furono letteralmente incatenati.
Ma alla fine, fu la stessa istituzione dell’Ospedale Generale che dovette divenire, sempre più, un’Istituzione separata, con proprie regole ed esigenze, e come tale dovette prescindere da ogni spirito comunitario; essa infatti, se voleva essere davvero efficiente, sotto una residua parvenza solidaristica doveva divenire sempre più autoritaria e gerarchica, e come tale preservare l’interesse prioritario alla protezione della collettività e della sua salute da tutto ciò che poteva minacciarla.
Questo processo di sostanziale abbandono dell’idea comunitaria e cristiana di cura, e la conseguente separazione dei luoghi del trattamento dei malati (specie dei cosiddetti “incurabili”) dal contesto della vita civile, fu, come già accennato, parallelo ad un altro processo: quello da un lato della nascita della scienza moderna, dall’altro dello specializzarsi ed all’affinarsi delle tecniche di cura; e questo intreccio più generale, insieme col processo di reclusione dei folli, è stato magistralmente descritto da Michel Foucault, nel suo “storia della follia nell’età classica” ed in altre sue opere.
Il resto è storia di oggi: il progredire scientifico e tecnico si è svolto, in Europa, in tutti i campi, su questa falsariga, ed ha condotto dal Seicento in poi, col diffondersi dell’idea di Cartesio di una distinzione radicale fra “res cogitans” e “res extensa”, ad uno spettacolare progresso, oltre che scientifico generale, anche medico-sanitario; ma anche quest’ultimo progresso, al pari del primo, è stato reso possibile proprio dall’oggettivazione della malattia, ossia dalla sua osservazione prolungata, spassionata, nonché dalla sua reclusione in luoghi appositi ove potesse venire osservata, vivisezionata, diagnosticata con tutta calma.
Su un punto occorre essere estremamente chiari: la scienza sperimentale e la tecnologia moderne sono state le conquiste più grandi che l’umanità abbia conseguito, dopo l’acquisizione della coscienza e del linguaggio simbolico; ma esse, con la loro strapotenza liberatoria dell’uomo dai suoi mali, forse non ci sarebbero mai state senza la mentalità fredda, spassionata ed “oggettivante” che le idee di Cartesio riassumono così bene: con l’animismo dei primitivi, con la medicina “olistica” o con i principi solidaristici, probabilmente non avremmo mai avuto gli antibiotici e gli antipsicotici, i progressi della chirurgia e degli strumenti diagnostici, i trapianti di organo e le enormi possibilità odierne di prevenzione delle malattie, nonché l’abbattimento della mortalità infantile e da parto.
Il prezzo pagato per tali progressi, però, fu degno dell’enorme posta in gioco (che era una parziale vittoria nella lotta contro la morte): la spietata oggettivazione sia della natura che dell’uomo, sia del sano che del malato: ossia, una riduzione della natura e dell’uomo stesso ad oggetto dell’osservazione, in genere “impassibile”e scarsamente partecipe, da parte di altri uomini. E’ a questo aspetto negativo che alludono le radicali critiche alla scienza formulate dalla più alta tradizione filosofica contemporanea, da Nietzsche ad Heidegger, fino a Benedetto Croce.
Il senso e l’utilità di tale oggettivazione, però, furono essenzialmente il distanziamento psichico ed emozionale, nonché il padroneggiamento intellettuale della morte, elementi, questi, assolutamente necessari a permettere al pensiero scientifico di sorgere. E la morte da cui occorreva distanziarsi fu impersonata da chi più ne era portatore: il malato, il quale, dalle pestilenze del Trecento in poi, fu percepito come il principale portatore di morte, e come tale, da recludere ed allontanare.
Perciò anche l’abbandono dell’idea monastica di “Ospedale-ospitale”, ovvero dell’idea cristiano-solidaristica di Comunità Terapeutica, (un’idea che in quanto tale era egualitaria e tendenzialmente anti-autoritaria), è stata parte integrante ed inevitabile di questo di questo prezzo da pagare.
Ma la Psichiatria che ruolo ha avuto, in questo processo di progressiva oggettivazione epistemologica, scientifica e medica dell’uomo, che fu propria della civiltà occidentale?
La risposta non può essere che una: essa ebbe un ruolo profondamente ambivalente, ed in gran parte contraddittorio.
Infatti la Psichiatria, al momento del suo sorgere, con Pinel ed Esquirol, a fine Settecento, cioè in un clima tardo-illuministico (ed in realtà ormai pre-romantico e rivoluzionario), tese a spezzare, sia letteralmente che metaforicamente, le catene che asservivano i folli, nonché a recuperarli ad un rapporto umanistico, in qualche modo paritario e comunque liberatorio, con i medici.
Successivamente però, nel clima di positivismo imperante proprio del secolo successivo (il diciannovesimo), la Psichiatria tornò ad instaurare con la follia un rapporto che fu ancora una volta oggettivante, classificatorio, quasi “linneiano”: il folle apparve, agli psichiatri positivisti, più che un essere umano portatore di una propria soggettività, un oggetto, quasi una strana specie botanica, che occorreva innanzi tutto inquadrare, classificare, ed in sostanza distanziare emotivamente, al fine di neutralizzarlo nei suoi aspetti più inquietanti; da esso, infatti, occorreva difendersi, per prima cosa sul piano intellettuale, poiché esso appariva, misteriosamente, come “contagioso”; ed il padroneggiamento intellettuale della sua “malattia”, unita ad una buona dose di astrazione e di fuga dal rapporto con lui, erano preziosi strumenti anche per il suo padroneggiamento emotivo.
Insomma, con i folli, a cavallo fra Ottocento e Novecento, fu necessario, per la medicina, ripetere una seconda volta quel processo di allontanamento materiale ed emotivo del malato dal rapporto col suo curante, e di sua espulsione da ogni possibile dimensione comunitaria, che la medicina moderna aveva operato ai suoi albori, nell’epoca che era seguita alle grandi pestilenze del Trecento, e che aveva portato, come sappiamo, alla prima, decisiva crisi dell’idea cristiana, comunitaria e solidaristica, di Ospedale.
Quale fu, però, il motivo, ossia la profonda necessità storica e psicologica, che determinarono tutto ciò per la Psichiatria?
Secondo il nostro punto di vista, la Psichiatria non ebbe a che fare con qualcosa di molto diverso dalla realtà che aveva così potentemente operato nel Trecento: si trattò, ancora una volta, della percezione, intollerabile e terrificante, della morte.
Però la morte di cui era latore il malato di mente, a differenza della peste, era contagiosa in un senso tutt’affatto diverso: essa richiamava potentemente, attraverso un rapporto medico-paziente oltremodo tossico, pericoloso e terrificante, aspetti della natura umana (quelli persecutori) che era molto più comodo ignorare, oppure rubricare sotto comode ed innocue etichette di tipo “medico”.
La Psichiatria “medica” infatti, nel suo insieme, da Kraepelin a Bleuler, da Leonhardt a Schneider, per quanto profonda, ed a suo modo geniale nel cogliere le distorsioni degli aspetti formali del pensiero e della percezione del malato, non aveva minimamente indagato il contenuto di questi pensieri e di queste percezioni; e non lo aveva fatto proprio perché si trattava di un nucleo oltremodo inquietante, in quanto violentemente ed esplicitamente persecutorio.
L’esigenza di distanziare la mente del medico, dello scienziato, dell’osservatore, da questo nucleo inquietante, mortifero, riguardante la natura umana, fu secondo noi l’elemento che rese la Psichiatria ottocentesca così classificatoria, così linneiana, ed in un certo senso, così disumana.
Essa, per tutti questi motivi, dovette divenire anche profondamente oggettivante; ma in quanto tale (e del tutto conseguentemente!), dovette anche edificare un sistema assistenziale di tipo segregante: quello, appunto, manicomiale.
Il Manicomio, in un certo senso, colmava sul piano pratico una lacuna teorica della Psichiatria: e lo faceva, per la precisione, etichettando con voluta superficialità l’aspetto più inquietante della malattia mentale, quello persecutorio, come mera “pericolosità” da recludere; ma nel compiere questa operazione, la Psichiatria manicomiale esentò gli psichiatri dal ricercare più a fondo dietro a questa pericolosità, sia a livello teorico che di contatto interpersonale, le ragioni dei vissuti persecutori che ne erano alla base.
Fu proprio questo elemento persecutorio, il nucleo di morte e di “contagiosità” che la malattia mentale, come una nuova peste, portò in retaggio, ormai in piena era scientifica, alla medicina; fu esso l’elemento misterioso che richiese alla Psichiatria ottocentesca di ripetere, quasi cinque secoli dopo, la stessa operazione di annullamento di ogni dimensione comunitaria, che la Medicina Generale aveva operato, dopo la metà del Trecento, nei confronti degli Ospedali, delle malattie infettive, e delle malattie in generale.
Il Manicomio, in particolare, serviva principalmente allo scopo di porre il folle in una condizione di assoluta passività, ove esso, una volta neutralizzato nei suoi comportamenti più inquietanti, poteva essere “studiato” appropriatamente ed a lungo, sia nel decorso della sua malattia e del suo destino personale, sia nella struttura profonda della sua personalità e nell’evoluzione dei suoi sintomi.
Accanto a questo atteggiamento, però, ed in palese contraddizione con esso, è sempre esistita una Psichiatria “alternativa” che ha contrapposto, in tutta la storia della Psichiatria, all’atteggiamento scientista, linneiano ed oggettivante, un forte richiamo al rapporto interpersonale, al rapporto medico-paziente, ed allo stesso principio comunitario originario che fu proprio della medicina ospedaliera ai suoi albori.
Questa seconda Psichiatria, nelle sue multiformi espressioni dottrinali e pratiche, ha di fatto edificato, sia sul piano dottrinale che pratico, dei potenti contrappesi alla tendenza oggettivante e scientista: e si è trattato di contrappesi essenzialmente umanistici, tesi ad esaltare la soggettività, sia del malato che del terapeuta.
A tale fine, di fatto, la Psichiatria, più di ogni altra disciplina medica, forse in ragione della natura stessa della malattia mentale (una natura complessa ed a tutt’oggi assolutamente misteriosa), ha sempre teso, attraverso multiformi e contraddittorie tendenze, a recuperare con i folli un rapporto basato non solo sulla “spiegazione“ scientifica dei fenomeni psicopatologici, ma anche sulla “comprensione”, sull’empatia, ovvero sul rapporto fra due soggettività: un rapporto medico-paziente pieno, insomma, capace di riconoscere e di “liberare” la soggettività dei folli, esattamente come Pinel ed Esquirol, fondatori della Psichiatria moderna, erano stati capaci di fare con la loro corporeità, liberandoli materialmente dalle catene.
Questo atteggiamento psichiatrico “alternativo” ha compreso, in tempi diversi, orientamenti molto differenti fra loro, ma sostanzialmente convergenti (al di là dei cospicui elementi di negazione della morte che si affacciano qua e là, fra di essi) su un unico fine: il recupero del rapporto col malato. Questi orientamenti furono:
1) quello dei grandi “operatori pratici” della Psichiatria comunitaria (ad es. i fondatori del concetto e della pratica “democratica”della Comunità Terapeutica, Maxwell Jones e Conolly).
2) quello dei grandi psichiatri di impronta fenomenologica ed antropo-analitica (Jaspers, Binswanger, Minkowskji, Cargnello), i quali erano perfettamente integrati nel mondo della Psichiatria ufficiale, ma erano al contempo fervidi e convinti fautori di un rapporto medico-paziente (e di una investigazione dei suoi sintomi), basato sulla relazione Io-Tu.; quest’ultima andava intesa, secondo loro, in direzione dell’alterità anziché dell’alienità dell’altro, della sua “comprensione” anziché della “spiegazione” dei sintomi, dell’analisi, anche a scopo diagnostico, di ciò che “appare” alla soggettività del medico, e che la fa risuonare in un modo piuttosto che in un altro (fenomenologia viene dal greco “Fainein”, che significa appunto apparire), anziché in direzione di ciò che “è”, ossia di ciò che risiederebbe “oggettivamente” nelle profondità insondabili della biologia del paziente (il cosiddetto “Endon”, da essi riconosciuto come enigmatico, e da cui proviene il concetto stesso di “Psicosi Endogene”).
3) quello degli “antipsichiatri” anglosassoni (Esterson, Laing, Cooper), che vedevano nella malattia mentale, prevalentemente, un risultato della invasione e della cannibalizzazione dei figli da parte dei genitori, lesione primaria rispetto a cui lo psichiatra, in sostanza, doveva porre riparo ed ergersi egli stesso a filtro e difesa.
4) quello dei fondatori della Psichiatria relazionale o sistemica (Bateson, Minuchin, Watslawitch), che vedevano nella follia il sottoprodotto di una relazione sociale e/o familiare, oppure di gruppo, malata nel suo insieme, e che come tale andava curata.
5) quello dei teorici della malattia mentale come artefatto sociologico, ovvero come prodotto delle istituzioni totali, oppure della società divisa in classi (Goffman, ed in parte Basaglia).
6) quello di alcuni dei teorici più radicali della Psichiatria transculturale, i quali in un’ottica più relativistica che multi-culturalista, hanno teso a reinterpretare la malattia mentale come un errore di prospettiva, che scaturirebbe da un’ottica eurocentrica ed auto-referenziale; in tale ottica ciò che altrove, ossia in altre culture, sarebbe normale (ad es. l’isteria, oppure la mentalità magica e simil-schizofrenica di molti popoli “primitivi”), nella nostra cultura apparirebbe come “patologico”, e verrebbe perciò frainteso in senso “medico”. Una variante interessante, e forse più realistica, di questa impostazione, è costituita dall’emergente approccio darwiniano alle malattie mentali.
7) infine, ultime ma non ultime, le impostazioni psicoanalitiche, sia nella versione di Freud che in quella di Jung; queste dottrine infatti, al di là delle loro formulazioni teoriche, si basano tutte quante su una prassi incentrata sul rapporto e sulla interazione fra due soggettività, quella del medico e quella del paziente, e sulla analisi delle reazioni di entrambe queste due soggettività all’influenza dell’altra (detta anche analisi del transfert e del contro-transfert), più che su una osservazione-classificazione di tipo oggettivante, ossia fatta dal solo medico, unilateralmente, sui sintomi del paziente.
La risultante di tutte queste impostazioni (unitamente alle necessità economico-sociali di ridurre i costi dei ricoveri psichiatrici, ed all’introduzione di psicofarmaci sempre più potenti ed efficaci nel controllo dei sintomi), fu costituita dalla tendenza (che in Italia si è espressa nella legge 180 del 1978, ma che ormai è da tempo dilagante in tutto il mondo occidentale), a ridurre progressivamente sia il concetto di pericolosità, sia la durata e l’importanza del ricovero psichiatrico, rispetto agli interventi “di rete” sul territorio, ossia in famiglia, sul posto di lavoro, nel gruppo sociale, a livello sia preventivo che terapeutico.
Viceversa, occorre osservare che l’impatto di queste imponenti trasformazioni della Psichiatria sull’assetto degli Ospedali generali, si è rivelato a tutt’oggi molto limitato.
Ciò appare a prima vista paradossale: infatti, sono tornate a prevalere, dopo la parentesi basagliana, ossia dagli anni Ottanta in poi, anche in Psichiatria come già in ogni altra branca della medicina, le impostazioni di tipo medico-biologico, riduzionistiche ed oggettivanti, imperniate sulla “medicina delle evidenze”, ossia sulla somministrazione delle terapie farmacologiche, e delle stesse psicoterapie, secondo linee guida e protocolli scientificamente validati (elementi che sono propri di tutta la medicina moderna), rispetto alle impostazioni più attente alla soggettività del malato, ma assai meno validabili sul piano delle scienze sperimentali, che abbiamo sopra elencato.
Ma ciò, in teoria, sembrò in un primo momento la migliore premessa perché, almeno in ambito ospedaliero, Medicina e Psichiatria si integrassero sempre di più, riuscendo ormai a parlare, almeno in un certo senso, la stessa lingua: quella della scienza medica.
Se oggi assistiamo, ad es. ad un Congresso di Psichiatri, ormai riusciamo a malapena a cogliere, nel linguaggio e nella mentalità generale, una significativa differenza rispetto al linguaggio ed alla mentalità di altre discipline mediche.
La omologazione dei linguaggi fra Medicina Generale e Psichiatria sembrava preludere all’ingresso a pari titolo degli Psichiatri nel seno di una comunità scientifica, quella medica, e di una Istituzione Ospedaliera, ormai da gran tempo non più comunitarie ed “olistiche”, bensì tendenzialmente autoritarie ed oggettivanti, arciscientifiche ed ultraspecialistiche.
Invece, inaspettatamente, la presenza della Psichiatria nella sanità e negli Ospedali Italiani continua tuttora a configurarsi con modalità tali da renderla in gran parte un ospite estraneo ed indesiderato dalle altre branche della medicina, più che un loro interlocutore paritario: e ciò del tutto a prescindere dalla sua collocazione in un Dipartimento di Salute Mentale il cui baricentro è per legge nettamente spostato sul territorio, piuttosto che in Ospedale.
Infatti il punto non è affatto questo: in realtà gli Psichiatri, oggi, negli Ospedali Generali, possono davvero fare qualunque cosa.
Possono privilegiare l’approccio medico, le problematiche internistiche ed il trattamento psico-farmacologico, valendosi di protocolli scientifici rigorosamente validati e di precisi indicatori di esito, oppure possono privilegiare la psicoterapia, le attività co-gestite con i pazienti, la psichiatria di rete e l’integrazione con i servizi psichiatrici territoriali.
Possono essere attentissimi agli aspetti finanziari del ricovero (ad es. ai DRG), oppure ignorarli, visto che il budget è tuttora una realtà operativa solo per alcuni dei Dipartimenti di Salute Mentale.
Possono prediligere la terapia di gruppo e l’autogestione comunitaria e democratica del reparto, ed in questo spirito possono riunire i pazienti e le loro famiglie, educarli o sostenerli in vario modo, oppure possono scegliere di instaurare un assetto autoritario e privo di partecipazione, come avviene di norma in ogni altra corsia ospedaliera.
Possono imperniare la vita del reparto su capillari attività di monitoraggio e controllo, attraverso continue riunioni di équipe, briefing col personale infermieristico, e quant’altro, oppure possono optare per un’organizzazione delle attività di reparto molto più snella, e talora più sciatta.
Ancora, possono coinvolgere il Tribunale dei Diritti del Malato in caso di trascuratezza da parte di altri specialisti, somministrare ai pazienti ed ai loro familiari questionari di soddisfazione dell’utente, oppure ignorare carenze e proteste, e lasciare i pazienti e le loro famiglie a loro stessi.
Possono puntare sul consenso informato dei pazienti alle terapie, oppure trascurarlo.
Possono infine contenere il paziente a volontà, o viceversa escludere ogni mezzo di contenzione.
Possono addirittura decidere di tenere aperte o chiuse le porte del loro reparto, visto che la legge, con le sue mille ambiguità, lo consente loro!
Nei rapporti interni all’Ospedale, poi, possono dedicarsi con grande passione e dedizione alla psichiatria di consultazione o di “lyaison”, oppure scivolare silenziosamente nella chiusura auto-referenziale in sé stessi.
Però, qualunque di queste cose facciano o non facciano, nel chiuso dei loro reparti, oppure all’esterno, in Ospedale o sul territorio, gli Psichiatri ed i loro pazienti restano comunque un corpo estraneo per l’Istituzione Ospedaliera, e per quella sanitaria nel suo complesso: un corpo per lo più indesiderato, e nei casi migliori, ignorato. E l’Ospedale, in particolare, mette in atto costantemente dei tentativi di incistare e di espellere questo corpo estraneo, con tutti i mezzi.
L’Istituzione Ospedaliera, infatti, oscilla costantemente fra due atteggiamenti, opposti ma equivalenti, perché entrambi espulsivi:
1) guarda gli Psichiatri con grande sospetto e diffidenza, o presunzione di “non scientificità”, quando essi riescono davvero ad essere “diversi” dall’insieme della specialistica ospedaliera, ossia più attenti al rapporto medico-paziente, ed in generale, alla soggettività del paziente.
2) Viceversa, tende ad omologarli al proprio livello operativo e tecnico-professionale più basso, ossia ad utilizzarli per operazioni di “scarico” dei soggetti classificati come “incurabili” (o come non altrimenti collocabili), proprio quando sono meno attenti alla soggettività del malato: ossia, quando tendono essi stessi ad omologarsi alla logica oggettivante dell’Istituzione, ed a trascurare il paziente come persona, come rapporto interpersonale e come “globalità”.
Una delle tendenze incoercibili dell’Istituzione “Ospedale Generale”, ad es., e che consegue ad ambedue questi atteggiamenti apparentemente opposti, è quella di cercare in ogni momento di ricostituire, se non apertamente, almeno sotterraneamente (ed in assoluta violazione di ogni legge e normativa), un’accettazione separata per i pazienti psichiatrici, sottraendo loro le comuni prestazioni di “triage” infermieristico, di diagnosi medica differenziale e di Primo Soccorso, in genere prestate ad ogni altro tipo di paziente.
E’ esperienza comune di ogni psichiatra ospedaliero, nella delicata fase dell’accettazione, il ritrovarsi da solo, senza l’assistenza di alcun infermiere e senza quella del collega, alla presenza di un paziente psichiatrico appena depositato dall’ambulanza in una stanza del Pronto Soccorso, e non ancora visitato dall’internista; ed inoltre, di avere molte a difficoltà nell’ottenere che gli sia prestata, anche dopo, una certa attenzione diagnostica, terapeutica e laboratoristica.
Oppure, al contrario, gli può addirittura capitare di vederselo “recapitare” direttamente in reparto, senza neppure un foglio di ammissione del Pronto Soccorso; e magari, in casi eccezionali, con evidenti segni di auto-lesione o ferite sanguinanti ma non suturate, e perciò accompagnato da parenti giustamente indignati.
O ancora, è frequente che egli debba occuparsi da solo (malgrado il suo ruolo tecnico di consulente del medico di Pronto Soccorso), dell’eventuale reperimento del posto letto presso un altro Ospedale, e delle relative procedure burocratiche di trasferimento; o di essere costretto alla fine, per mancanza di collaborazione in proposito, ad “arrendersi” e ad appoggiarlo in soprannumero in reparto.
Insomma, siamo di fronte ad un evidente paradosso: per il paziente comune, anche non grave, la arciscientifica, ultraspecialistica ed anticomunitaria medicina ospedaliera prevede spesso, nella fase dell’accettazione, momenti molto raffinati di diagnosi differenziale, l’apporto di specialisti altamente qualificati, l’uso di numerose consulenze ed un complesso lavoro multidisciplinare, che coinvolge talora l’intero ospedale, con copioso impiego di mezzi diagnostici e terapeutici.
Per il paziente psichiatrico invece, spesso, tutto ciò non esiste: egli, per il solo fatto di essere un paziente psichiatrico, entra spesso automaticamente sin dall’inizio (sin dal suo arrivo in Ospedale), a far parte di un circuito, si potrebbe dire di una “Comunità”, che è del tutto separata dal resto dell’Ospedale: il circuito e la Comunità dei malati di mente, dei loro medici e dei loro infermieri.
I principi “arcaici” e “superati” della solidarietà comunitaria, del volontarismo, e della prevalenza del rapporto medico-paziente sugli aspetti specialistici più altamente qualificati, nonché quello dell’attenzione prioritaria alla soggettività ed alla globalità del paziente (principi in genere completamente trascurati dalla medicina ospedaliera, in ragione del carattere altamente parcellizzante, strumentale ed oggettivante di quest’ultima), vengono immediatamente riscoperti da parte dei medici non psichiatri quando si tratta di condividere con gli Psichiatri una prassi ed una conoscenza multidisciplinari: in tal caso, infatti, l’Istituzione si affretta ad invocare il principio della responsabilità unica del medico (nella fattispecie, naturalmente, dello psichiatra) nei confronti del paziente nella sua globalità, della sua persona; ma nell’invocare, inaspettatamente, tale principio “olistico”, essa delega allo psichiatra ogni compito, sottraendosi così, al contempo, ai propri.
Però quella vera e propria Comunità autonoma dei malati di mente e dei loro curanti che spesso diviene, in tali casi, il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura ospedaliero, è tale solo perché costrettavi dalla fortissima emarginazione cui la Psichiatria viene confinata dal resto dell’Ospedale: una emarginazione che rende possibile, in queste situazioni, solo scarsi momenti di comunicazione e di interscambio dello psichiatra con il resto degli specialisti ospedalieri.
Nella Medicina Ospedaliera poi, rispetto alla Psichiatria, si rileva spesso uno strano fenomeno: è frequente che nei medici ospedalieri l’ignoranza tecnica di una patologia non di propria competenza, nella fattispecie psichiatrica (ignoranza che costituirebbe in tutti gli altri casi, un motivo di imbarazzo, se non di vergogna), divenga spesso, paradossalmente, un motivo di vanto, o comunque elemento da esibire e da enfatizzare, come se costituisse una sorta di immunità dalla malattia mentale, e dall’onere di avere a che fare, in qualche modo, con essa.
Naturalmente, questo atteggiamento di”scarico” viene assunto, da parte del medico non psichiatra per sottrarsi ad uno scambio di prassi e di conoscenze tecniche con lo psichiatra che potrebbe portare, se le cose prendono una piega tecnica che lo necessiti, non solo ad una richiesta formale di consulenza rivolta dallo psichiatra agli altri specialisti, ma ad una richiesta di presa in carico, ove la patologia prevalente si riveli essere non psichiatrica (ad es. nei casi di psicosi su base organica acuta); ed è proprio per questi motivi che la consulenza non psichiatrica al paziente psichiatrico è molto spesso sentita, dagli altri specialisti, non solo sgradevole, ma addirittura pericolosa!
E’ però nostra opinione che questa tendenziale, ossessiva espulsione della Psichiatria da parte della Medicina Ospedaliera avvenga così pervicacemente non per una qualche misteriosa “colpa” dei medici ospedalieri (o tanto meno degli Psichiatri), bensì, semplicemente, per la particolare natura della malattia mentale: questa implica, per le sue caratteristiche intrinseche (che sono, lo ripetiamo, persecutorie ed invasive), una richiesta, al medico, di rapporto e di aiuto “globale: richiesta che richiede da parte di quest’ultimo una risposta altrettanto globale. In altre parole, il malato di mente richiede perentoriamente un’attenzione esclusiva, “olistica”, che va molto al di là dei limiti imposti, alla medicina moderna, dal suo statuto oggettivante, specialistico e parcellizzato.
In sintesi, il malato di mente manda in frantumi gli schemi più comuni dell’operare medico moderno: egli non è quasi mai un “malato” gestibile nella forma tradizionale della professionalità ospedaliera, bensì un soggetto onni-richiedente ed onni-pervasivo, che richiede una ricomposizione del rapporto medico-paziente in senso unitario ed antispecialistico: ossia un soggetto che spinge (lo si voglia o no!) verso un rapporto col medico assai più personalizzato e coinvolgente di quanto ordinariamente non sia possibile, in medicina. E questo rapporto medico-paziente, in Psichiatria, non è affatto un’opzione, bensì una vera e propria imprescindibile necessità tecnica, come ben sa chiunque abbia mai avuto una sia pur minima pratica di questa disciplina.
Concludendo, la Psichiatria, in ragione dell’assoluta specificità del proprio oggetto, e del continuo conflitto con altre branche della medicina che tale specificità genera, sembra dover portare sulle proprie spalle un ruolo assai ingrato: quello di ricordare, continuamente, alla Medicina Ospedaliera le proprie origini rimosse; in particolare:
la dove la Medicina Ospedaliera ha dimenticato che le proprie origini storiche sono di tipo comunitario, la Psichiatria è costretta perennemente a riproporgliele; ed insieme ad esse, a riproporle il principio solidaristico (di tipo prettamente “olistico”), rappresentato dalla responsabilità globale ed individuale che ogni medico contrae, in virtù del suo stesso ruolo, nei confronti del proprio paziente. In definitiva, la Psichiatria, per sua natura, è costretta a ricordare alla Medicina Ospedaliera la priorità assoluta che il rapporto medico-paziente deve possedere, almeno ad un certo livello, su ogni altro aspetto tecnico.
Là dove la Medicina Ospedaliera ha paura del paziente, della morte di cui egli è latore, e della “peste”, ossia del vero e proprio contagio psichico che tale morte rappresenta comunque, per chi ha il compito della cura, la Psichiatria, presentandole un paziente sommamente inquietante, contagioso, persecutorio, “pericoloso” (vera e propria incarnazione di antichi incubi), è costretta a ricordarle che il pericolo è insito nella malattia stessa, in ogni malattia, e che la collaborazione ed il rapporto umano col paziente sono i migliori presidi per difendersi da tale pericolo.
Là dove la medicina ospedaliera nega i propri limiti, e dimentica di non essere onnipotente, la Psichiatria deve ricordarle l’obbligo ippocrateo di curare anche chi non è guaribile, e di riscoprire in questo obbligo un’antica e dimenticata dimensione comunitaria e solidale.
Volfango Lusetti, Direttore della Struttura Operativa Complessa SPDC di Tivoli (ASL RM G).