Fabio Liguori
Verrà il giorno in cui l’uomo potrà liberarsi dal dolore? E da quale forma di dolore? E’ sufficiente brevemente riflettere sulla condizione umana per trarre la conclusione che il dolore è parte di essa, evenienza ineludibile da cui si può solo tentare di fuggire. Ma esiste una gerarchia del dolore, in altre parole un dolore che meriti rispetto più di altri? Se è naturale il tentativo di dare una spiegazione al dolore, l’utilità medica di allarme per l’organismo, o la dimensione religiosa di espiazione, purificazione, possono essere di aiuto a comprenderlo. Il dolore è il prezzo da pagare per malattie non superabili, ma in ogni esperienza di vita si può capire il senso del dolore se c’è qualcosa che va di là da esso. Come avviene per l’accettazione del dolore e l’incondizionata attitudine al sacrificio della donna quando diviene madre: dimentica di sé e altruista fino all’eroismo nel più affascinante e difficile “mestiere” del mondo. Ma il dolore non può essere l’ultima parola.
Nelle civiltà occidentali, tradizione e Sacre Scritture avevano per secoli perpetuato una concezione quasi punitiva di una fondamentale vicenda umana: il biblico “partorirai con dolore” (Gen 3, 16). Conseguenza di questa distorsione socio-culturale, il parto era divenuto paradigma di dolore assoluto, vissuto reale che duramente cimentava la partoriente, sebbene in donne di gruppi etno-culturali sparsi nel mondo travaglio e parto fossero pressoché indolori.
I fattori stressanti nello svolgimento del parto consistono essenzialmente nella paura del dolore e paura dell’ignoto. I segnali provenienti dalla muscolatura uterina in contrazione possono pertanto essere interpretati dalla donna come dolorosi anche quando in realtà non lo siano. Durante un travaglio protratto l’ansia e il dolore causano un notevole aumento dei livelli ematici delle catecolamine: l’adrenalina riduce o inibisce la frequenza e l’intensità delle contrazioni uterine, la noradrenalina ne aumenta frequenza e tono di base. Quest’ultimo effetto può alterare la perfusione utero-placentare, cui consegue ipo-ossigenazione e rischio di sofferenza fetale. Un trattamento inadeguato del dolore può quindi nuocere a partoriente e feto condizionando l’espletamento eutocico del parto.
Non è del tutto chiaro come il dolore e l’ansia inducano la secrezione delle catecolamine. E’ invece dimostrato che la sedazione materna è in grado di prevenire o abolire queste risposte. Riducendo l’increzione di catecolamine, l’analgesia o l’anestesia ostetrica (generale o loco-regionale) risultano quindi vantaggiose per il decorso del travaglio e parto, permettendo anche di affrontare con maggiore obiettività l’insorgere di eventuali complicanze ostetriche. Si va così sempre più affermando l’esigenza di espletare il parto non solo con la massima sicurezza possibile per la madre ed il bambino, ma anche con l’attenuazione (o abolizione) del dolore e conseguente maggior fiducia (gestante ed operatori) in una felice conclusione della gravidanza
E’ ancora controverso l’effetto dell’analgesia epidurale su durata del travaglio e modalità del parto; ma farmaci di più recente introduzione non sembrano dimostrare effetto negativo sull’attività contrattile uterina, così come sulle condizioni generali materne e fetali. Nonostante le scarsissime complicanze vi è, tuttavia, ancora una qualche resistenza verso l’analgesia ostetrica: se non per motivi religiosi, per una certa tendenza alla de-medicalizzazione dell’evento “nascita” con un fisiologico ritorno alla sua “naturalità”, quasi l’analgesia possa sminuire il determinismo del dolore nel potenziare il primo forte legame madre-figlio (che invece istintivamente s’instaura fin dall’inizio della gravidanza, per culminare nell’estasi: il più bel bambino dell’ospedale!). Al compimento di una maternità il dolore non è più, dunque, l’ultima parola.
Peraltro è proprio nel combattere una “medicalizzazione” della gravidanza, sempre più spesso “pretesa” da gestanti e familiari (quasi una ecografia al giorno), che dovrebbero indirizzarsi iniziative anche legislative (scuole di ogni ordine e grado) volte a diffondere una moderna cultura ostetrica: l’unica in grado di cambiare l’atteggiamento negativo di settori dell’opinione pubblica, dai mass media condizionati da un’informazione terroristica (tipo cronaca-nera) in tema di parti complicati, ai giuristi che dovrebbero valutare le reali e gravi responsabilità dipendenti da carenze strutturalo-organizzative (sprechi, scandali, truffe) nella sanità pubblica, e non del singolo medico che le conseguenze di quelle carenze quotidianamente deve affrontare e subire.
Quanto al dolore embrio-fetale, il fisiologo Albert Liley dell’Università di Auckland (Nuova Zelanda) aveva già comprovato che: 1) a 4 settimane di vita dell’embrione è presente il nervo trigemino con le sue tre branche; 2) a 7 settimane sono sviluppati recettori cutanei della sensibilità, con l’embrione in grado di presentare una reazione labiale al tatto e capace di allontanare la testa da stimoli; 3) a 9-10 settimane è documentabile, nel talamo, la prima attività cerebrale in risposta al dolore; 4) ad 11 settimane il viso e le estremità sono tutte sensibili al tatto; 5) infine, a 13 settimane è presente ad ogni livello la risposta del sistema nervoso dell’embrione.
Accadde così che il ginecologo americano Bernard Nathanson, ebreo (non praticante) padre della legge che nel 1973 introdusse l’aborto negli USA ed autore dichiarato di 75.000 aborti, filmasse (1984) un’interruzione di gravidanza in immagini ecografiche in tempo reale 3/D. Pur avvezzo ad interventi del genere, il filmato sconvolse il ginecologo che intitolò questo famoso documentario The Silent Screm: il feto non aveva voce, ma con assoluta certezza era un essere umano vivente e sofferente, il più indifeso e il più innocente!
Il film scatenò le ire degli abortisti che si ritennero “offesi”, essendo (per loro) assolutamente “normale” procurare un aborto; e che insorsero accusando il ginecologo di terroristico sciacallaggio informativo! Su base rigorosamente scientifica la fetoscopia, l’elettrocardiogramma e l’encefalogramma fetale confermeranno in seguito la responsività dell’embrione al suono, al calore, al tatto e al dolore. Crollava definitivamente la teoria “riduzionista” d’ispirazione laica (i cosiddetti utilitaristi), che riduceva l’embrione ad una condizione di pre-embrione in quanto non in possesso di sensitività.
Il termine “pre-embrione” di origine anglosassone aveva avuto notevole successo: ciò nonostante era un brutto, artificioso neo-logismo mancante di ogni fondamento scientifico, tanto da essere accettato dai ricercatori ma non dagli embriologi! Infatti, in biologia non ha alcun senso parlare di una struttura che è “quasi” embrione, ma tale ancora non è. E sul piano filosofico, si tratta di un voluto equivoco di fondo il cui fine è quello di “posticipare” l’inizio della vita personale, che quindi non coinciderebbe più con l’inizio biologico della vita umana. In altri termini, il riduzionismo riconosce biologicamente l’embrione come essere umano fin dal suo concepimento, ma non lo riconosce ancora come persona.
Quello di persona sarebbe un concetto astratto definito da un insieme di proprietà e capacità che si possono esercitare in quantità variabili ed in tempi diversi, senza un principio unificatore. L’embrione diverrebbe così persona solo successivamente all’apparire di determinati organi, o strutture neuro-fisiologiche o psichiche, o della capacità di possedere determinate funzioni (autonomia, razionalità, autocoscienza: caratteri questi ancora più alti che non sono presenti nell’embrione, ma nemmeno nel feto, nel bambino alla nascita e nell’infante).
Se per i riduzionisti si diventa “persona” solo al manifestarsi di determinati caratteri o funzioni, si può allora cessare di esserlo al venir meno nell’individuo anche di una sola delle caratteristiche già possedute? Gli esseri umani sarebbero dunque discriminati non sulla base di ciò che sono, ma di ciò che hanno o possono fare?
Quando il concetto di persona viene separato dal concetto di essere umano, si può assistere ad una restrizione: non tutti gli esseri umani sono persone (ad esempio gli embrioni), Ma per assurdo, anche ad un’espansione del concetto stesso: alcuni esseri (o enti) non umani sono persone (animali, opere d’arte, prodotti tecnologici, paesaggi)! Con la conseguenza paradossale che sarebbero più degne di rispetto e più tutelate giuridicamente entità varie che non l’embrione umano.
Nathanson si convertirà al cattolicesimo nel 1996, divenendo uno dei più convinti sostenitori del Movimento per la Vita. Anche per l’embrione, il dolore non deve essere l’ultima parola …