LA CELEBRE STELE DEL CODICE DI HAMMURABI (ASSIRIA), GIA’ NEL 1750 a.C. TRATTAVA DI PENE PER ERRORI MEDICI …
Fabio LIGUORI *
Nella storia dell’Umanità la parola scritta ha rappresentato il fondamentale traguardo di ogni civiltà, punto d’arrivo di quanto di straordinario nei millenni ha preceduto questa basilare forma di comunicazione: scritture che costituiscono anche la principale fonte storica di documentazione delle antiche vicende dei popoli che le idearono.
Premessa indispensabile per la comprensione della lingua di popolazioni del passato è la quantità d’iscrizioni e reperti archeologici disponibili, cui concorrono genialità di studiosi e talvolta la casualità: com’è accaduto per il geroglifico dell’Antico Egitto (3100-332 a.C.) che, senza il fortunoso ritrovamento della stele di Rosetta (grosso frammento di lastra di basalto, dal nome della località alla foce del Nilo in cui fu rinvenuto nel 1799), probabilmente non sarebbe ancora intellegibile. Sono molte, infatti, le diverse scritture mai decifrate di remote civiltà (Fenicia, Cretese, Pre-colombiane, Isola di Pasqua), inclusa quella di un popolo che, imponendosi alle popolazioni limitrofe, fu tra i primi ad insediarsi (VIII sec. a.C.) nell’Italia centrale: gli Etruschi, misteriosa grande civiltà fiera di proprie tradizioni già nell’età del ferro e del bronzo.
Non derivata dal ceppo indo-europeo, della lingua etrusca si conosce l’alfabeto somigliante al greco antico. Ma di là da straordinarie testimonianze del culto dei morti e dell’eccezionale abilità nella lavorazione dei metalli (insuperata, l’arte della granulazione e filigrana dell’oro), dell’Etruria non rimangono esempi di edifici pubblici, costruiti in prevalenza in legno rivestito di terracotta. Le iscrizioni (da destra a sinistra) pervenute sono pertanto scarse e quasi tutte funerarie, quindi brevi; ed il corrispondente senso delle parole (leggere una parola non vuol dire capirne il significato) è ancora oggi oscuro.
A differenza dell’Etruria, molteplici scritte adornavano i monumentali siti archeologici egiziani, ed egualmente numerosi erano i manoscritti papiracei giunti pressoché intatti fino a noi. Oltre quello delle piramidi, l’affascinante civiltà egizia sembrava gelosamente custodire il mistero del fantasioso geroglifico (termine greco che significa ”incisione sacra”), scrittura impenetrabile alla comprensione per la mescolanza di pittoriche forme ideografiche con elementi sillabici ed alfabetici. La stele di Rosetta riportava inciso un ugual testo in tre differenti lingue (come accade in atti di governo di nazioni plurietniche, quale la Svizzera): geroglifico, la forma popolare semplificata detta demotico antico, e greco antico. La facile traduzione di quest’ultimo testo rese possibile, per comparazione, la conoscenza della complessa scrittura e trimillenaria storia delle trenta dinastie di Faraoni.
La più antica forma di scrittura decifrata è la cuneiforme, della primigenia civiltà Sumèra che si sviluppò (4000 a.C.) nel fertile bacino dei “due fiumi” della Mesopotamia. E’ così detta perché lo scrivere, avveniva con uno stilo di canna a sezione triangolare che imprimeva su tavolette plasmabili d’argilla combinazioni diverse di segni tutti all’apparenza di piccoli cunei. La disposizione variabile delle fitte incisioni (orizzontale, verticale, obliqua), ed il fatto che alcune impronte subissero deformazioni al solidificarsi dell’argilla, rendeva difficile interpretare questi astratti simboli.
Fu un ventisettenne insegnante tedesco, il primo a distinguere alcune parole della scrittura cuneiforme. Partendo dalla considerazione che per lo più doveva trattarsi d’iscrizioni celebrative, quindi recanti all’inizio il consueto nome e titolo del re committente accompagnato dal sigillo, Georg Grotefend (1775-1853) individuò in alcune epigrafi (1802) segni ricorrenti che associò alle parole “re dei re”. Conoscendosi la cronologia delle dinastie persiane (Erodoto padre della Storia, 484-425 a.C.), l’insegnante identificò i nomi di Dario I (re di Persia dal 522 al 486 a.C.), del figlio Serse e del padre Istape: trascorreranno ancora vent’anni prima di giungere ad una migliore comprensione di questo singolare tipo di scrittura. Un’imponente documentazione ci è pervenuta da circa 30.000 tavolette ritrovate nella biblioteca del Re assiro Assurbanipal (668-626 a.C.) nel corso degli scavi di Ninive (1841), antica capitale del regno d’Assiria.
Sesto Re della dinastia babilonese (antecedente quella assira), Hammurabi regnò dal 1792 al 1750 a.C. facendo di Babilonia la capitale del regno. Il celebre Codice che porta il suo nome, rinvenuto in tre frammenti da una spedizione francese a Susa (Iran 1901), è un corpus di leggi inciso su una stele di diorite nera (roccia della famiglia del granito) che, verso la fine del suo regno, il re volle collocare nel tempio di Sippar perché fosse pubblicamente consultabile. Ricompattato al Louvre, il maestoso reperto misura m 2,30 di altezza per 1 m di base.
All’apice della stele è raffigurato il sovrano in piedi che presenta le sue leggi al dio Sole seduto in trono che, in cambio, gli porge verga ed anello simboli della regalità. La scena serviva a legittimare la presa del potere da parte di Hammurabi; inoltre, a quel tempo l’uso della scrittura era privilegio di pochi. Nell’immaginario collettivo, la stele avrebbe quindi assunto il magico valore di verità: ”Chiamato dagli dei a distruggere il male ed affinché il potente non opprima il debole …” così infatti, nel prologo, il sovrano esalta se stesso.
Il Codice di Hammurabi è la più antica (1750 a.C.) raccolta organica di leggi civili e penali (circa 282) che riguardano tutti gli aspetti socio-economici del tempo, dalla famiglia (posizione della donna e dei figli) all’edilizia, dal diritto di proprietà agli scambi commerciali, compreso una specie di “assegno bancario”: una tavoletta su cui veniva inciso il prezzo (in peso di rame o argento) della merce venduta, e che sarebbe servita per altri acquisti. In tal modo codificato, per la prima volta si dà importanza e valore alla persona, si disciplina il processo, e si stabiliscono compensi e pene (per errori commessi) che tuttavia differiscono secondo lo stato sociale del soggetto cui si riferiscono (schiavo o libero che fosse).
Per i Suméri, il concetto di malattia era un “castigo” inflitto da una moltitudine di dèmoni (circa 6000, uno per ogni malanno) a chi avesse violato particolari tabù. Tuttavia il Codice tratta specificamente di atti medici le cui tecniche dovevano quindi essere molto sviluppate, per l’epoca. Sono così riportati diversi casi: “… se un medico salva l’occhio di un paziente, se questi è un libero pagherà cinque sicli d’oro, se schiavo il padrone pagherà due sicli” (primo “tariffario” professionale). Ed applicando la “legge del taglione”, tra gli eventi citati il testo letteralmente stabilisce: “… se un paziente libero muore per un intervento, al medico siano tagliate le mani; se schiavo, basta rimpiazzarlo con altro schiavo idoneo …” (primo concetto di responsabilità medica).
Millenni sono trascorsi e, nonostante straordinari progressi, errori medici sono umanamente sempre possibili. Tra le cause remote si distinguono: carico di lavoro eccessivo, carenza di personale o di dotazioni strumentali, tecnologie obsolete, inadeguata supervisione e mancata comunicazione, competenze non all’altezza. Tra quelle prossime, le classiche: negligenza, imprudenza e imperizia in caso “di manifesti e non equivoci sintomi fondamentali” (esistono sempre?) “nell’ambito di malattie note alla scienza medica” (in tutte le sue componenti? Ed anche in assenza di certezza della diagnosi?). (Da Guida all’esercizio professionale, Ediz. medico-scientifiche).
Ad un confronto, se il magistrato giustifica il tempo che dedica alle udienze (una due a settimana) con il fatto di dover negli altri giorni “studiare” il processo “poiché dispone della libertà del cittadino”, quanto tempo dovrebbe consacrare il medico allo studio dei molteplici organi e relative funzioni vacillanti in un malato, e quanti interventi a settimana (uno due?) effettuare un chirurgo disponendo essi della “vita” del cittadino? L’errore per negligenza, imprudenza o imperizia se dimostrato, va giustamente punito. Corre però l’obbligo di escludere altre cause prima di puntare il dito su responsabilità d’ordine medico, quasi che sbagliare sia la norma per operatori sanitari!
Nell’odierno lessico mediatico, la terminologia ha un significato tecnico specifico che solo parzialmente collima con la realtà. Così il cieco si definisce non vedente, il sordo non udente, ma chiunque può non vedere o non udire una qualunque cosa senza per questo essere privo di vista o di udito. L’handicappato è passato, prima a disabile ed ora a diversamente-abile, e nell’ambito delle attività lavorative l’antico spazzino (o netturbino, termine tutto sommato elogiativo!) è approdato ad operatore ecologico, mentre la domestica (o donna di servizio di una volta) si è ormai stabilizzata in colf! Tutto, nel lodevole intento di non urtare dignità e sensibilità della persona, e men che mai offendere la “qualità” del lavoro svolto. Al punto, però, che nell’esercizio del più antico mestiere del mondo, la “donna di malaffare” di un tempo (che quasi sempre si prostituiva per necessità, “una di quelle” che per questo andava compresa ed aiutata), da “puttana” si è auto-promossa ad escort, mezzo di “avanzamento” (automobile Ford Escort) tanto redditizio quanto ambito per le opportunità di share televisivo che offre! Infine, in tema di omosessualità il “diverso” di una volta (pienamente rispettabile sul piano umano) è oggi un gay che, equivocando sull’inglesismo, proclama una (comunque si voglia considerare) pacchiana giornata dell’orgoglio (quasi che diversi fossero gli altri)!
In questo variegato glossario d’uso comune, una locuzione è strettamente connessa a quanti, giorno e notte, feriali e festivi operano per alleviare la sofferenza e rimediare ad accidenti e malanni altrui. La definizione in oggetto, generalizzante ed offensiva, è malasanità, e più precisamente: “ennesimo episodio di malasanità”! Domanda: a sottintendere … abituale agire degli operatori sanitari a danno della salute del cittadino? Perché, per analogia ed assonanza, il termine in questione ne evoca solo un altro, malavita: cioè, deliberata attività contro ogni legge e morale volta al male dell’individuo e della società, attraverso delitti abominevoli!
Nel concetto di malasanità, la responsabilità dell’informazione (scritta e parlata) è pertanto enorme quando, in un crescendo di superficialità e scorrettezze, sempre più frequenti notizie d’esclusivo interesse cronachistico, anziché riguardare reali episodi di errori medici, si tramutano in titoli ad effetto di nove colonne o di apertura dei TG (“si può ancora morire per una semplice influenza, una banale appendicite?”), vale a dire: terrorismo informativo di facile presa emotiva! Nella stragrande maggioranza dei casi, infatti, si tratta di eventi naturali non prevedibili, non diagnosticabili, quindi chiaramente non curabili. Il giornalista che li tratta, non ha la preparazione tecnico-culturale specifica, essendo abituale redattore di cronaca “nera”; ed il lettore di solito si ferma al titolo, non essendo in grado di compiere una valutazione critica del fatto. Poco importa se poi il contenuto dell’articolo o del servizio TV non corrisponda a quanto annunciato dal titolo!
Pazienti, familiari e legali di pochi scrupoli sono così indotti a cercare, a livello conscio o inconscio, moventi o responsabilità cui attribuire l’imprevisto, con enormi e gravi malintesi nell’aspettativa di compensi finanziari astronomici che superano le reali esigenze. Si finisce in tal modo per minare alla base l’insostituibile fattore che da sempre ha permeato il rapporto medico-paziente: la fiducia. E l’impatto psicologico della campagna denigrativa, più che nell’interesse della salute del cittadino è in realtà volto a distrarre l’opinione pubblica da pesanti responsabilità dei governanti la salute pubblica, tra carenze, scandali, truffe e sprechi infiniti!
E’ora quindi di battersi (Federazione degli Ordini dei Medici, Facoltà, Associazioni mediche e infermieristiche) perché cessi questa diuturna disinformazione e sia abolito un termine improprio ed ingiusto. La Storia della Medicina, che all’apparenza dovrebbe celebrare il trionfo del razionale, ha comportato nei secoli infiniti errori e perdite di vite umane per giungere agli straordinari livelli attuali. Ma è anche la storia del coraggio in una diuturna ricerca di quanto e “perché” colpisca l’uomo, storia di una missione finalizzata a dare un volto umano alla sofferenza, storia di un lungo credito che l’uomo ha fatto a se stesso.
Quanto all’informazione sembrano calzanti, in proposito, i seguenti ammonimenti: “il giornalista professionista è un uomo che, cosciente o no, deforma la realtà dei fatti” (F. Mauriac); “vero giornalista è colui che scrive molto bene di quello che non sa” (L. Longanesi); “il giornalista professionista è spesso il solo in grado di distinguere le notizie vere da quelle false, ma pubblica le false” (G. Prezzolini). E non si tratta di mettere in discussione l’insostituibile ruolo dell’informazione nella moderna civiltà della comunicazione. Ma è noto che gli aforismi non corrispondono mai ad una verità: o sono mezze verità, o ...una verità e mezza (Karl Kraus).
· Prof. Fabio Liguori ginecologo, Accademico dell’Accademia Lancisiana