LE SINDROMI MIELOPROLIFERATIVE CRONICHE

 

R. Latagliata

 

Le Sindromi Mieloproliferative Croniche - o Neoplasie Mieloproliferative Croniche (NMC) secondo la nuova classificazione WHO – sono un gruppo di malattie identificato negli anni’50 da Dameschek che comprende la Leucemia Mieloide Cronica (LMC), la Mielofibrosi Idiopatica (MI), la Policitemia Vera (PV) e la Trombocitemia Essenziale (TE). Le caratteristiche comuni di queste patologie sono essenzialmente quattro:

·                    L’aumentata proliferazione delle linee maturative midollari mieloidi, con un conseguente eccesso di produzione ed incremento numerico a livello periferico di globuli bianchi, globuli rossi e piastrine variamente presente nelle diverse NMC

·                    La normale differenziazione di tali elementi, che si presentano morfologicamente indistinguibili dalle cellule normali e spesso conservano una normale funzionalità

·                    L’andamento cronico con una fase di latenza spesso misconosciuta ed una sopravvivenza anche in assenza di cure specifiche che si misura nell’ordine di anni

·                    La tendenza (anch’essa variabile nelle diverse NMC) ad evolvere in una fase terminale di leucemia acuta, definita crisi blastica (CB)

Il meccanismo ezio-patogenetico comune è l’attivazione costitutiva di una tirosin-chinasi (TK) da mutazione puntiforme (JAK-2), traslocazione cromosomica (bcr/abl) o mutazione di un attivatore (CALR) nella cellula staminale totipotente: in questo senso, le NMC possono essere considerate delle “tirosin-chinasipatie”. Le TK sono molecole proteiche dotate della caratteristica comune di fosforilare i residui di tirosina delle proteine-bersaglio attivandole: per essere attive in condizioni normali, le TK devono dimerizzare e possono essere situate sulla membrana (funzione recettoriale del segnale) o nel citoplasma (funzione di trasduzione del segnale). Attivano sempre un grande numero di substrati e vie di trasmissione a valle (amplificazione del segnale) In condizioni normali sono

 costitutivamente inattive e, una volta attivate, possiedono siti di regolazione che ne interrompono l’attività

 

MIELOFIBROSI IDIOPATICA

 

La MI è una NMC Ph neg caratterizzata da fibrosi midollare, splenomegalia (dovuta alla emopoiesi extramidollare)  ed anemia. E’ tra le NMC Ph neg. quella dal quadro clinico più rilevante ed anche quella a prognosi più sfavorevole. Si tratta di una patologia rara dell’età adulta, la cui incidenza è compresa tra 0,5-1,5 casi ogni 100.000 abitanti/anno,  con un’età mediana all’esordio di 60-65 anni.

La MI deriva dalla trasformazione in senso neoplastico di una cellula staminale emopoietica totipotente. La proliferazione fibroblastica presente nel midollo di questi soggetti non è interessata dal processo di espansione clonale dell’emopoiesi ma è un fenomeno secondario. Questi fibroblasti sono però responsabili della eccessiva produzione di fibre collagene a livello midollare, fenomeno che è controllato da citochine rilasciate dalle cellule emopoietiche clonali proliferanti.

Diagnosi

Attualmente la diagnosi di MI si basa sui criteri stabiliti nel 2008 dalla World Health Organization (WHO), che tengono conto di aspetti istopatologici, morfologici, clinici e molecolari (Tabella 1).

Criteri maggiori:

 

                  1) Incremento della fibrosi midollare reticolinica/collagena e/o iperplasia

                      megacariocitaria con atipie e iperplasia granuloblastica

 

                  2) Assenza di segni diagnostici per LMC, PV, MI, SMD

 

                  3) Positività della mutazione V617F di JAK-2 o di altri marker clonali o assenza di   cause conosciute di mielofibrosi

                 secondaria                                                                                                                        

Criteri minori:

 

                  1) Splenomegalia palpabile

 

                  2) Leucoeritroblastosi

 

                  3) Anemia

 

                  4) Aumento dei livelli sierici di LDH 

Si pone diagnosi di MI in presenza di tutti i criteri maggiori  + 2 criteri minori
 

 

L’istopatologia è cruciale nella diagnosi di MI.  Il midollo varia da un quadro molto cellulare con scarsa fibrosi reticolinica a quadri in cui è assente l’emopoiesi normale per la presenza di  marcata infiltrazione fibrotica con osteomielosclerosi.

Accanto alla fibrosi midollare gli aspetti istologici più caratteristici della MI, così da porre diagnosi anche senza fibrosi midollare  (MI “prefibrotica”), riguardano i megacariociti. Le principali alterazioni dei megacariociti in corso di MI, che permettono una diagnosi differenziale con la TE, sono  l’iperplasia megacariocitaria con atipie morfologiche  e la formazione di aggregati (cluster) “stretti”, a differenza dei cluster “lassi”presenti nella TE. Da ultimo, va ricordata l’iperplasia granuloblastica che si associa al quadro sopra descritto nella MI, mentre è generalmente assente o lieve nella TE.

Un altro criterio fondamentale per la diagnosi è rappresentato dalla presenza della mutazione V617F del gene JAK-2, da mutazioni della calreticulina (CALR) o dalla mutazione W515L/K del gene MPL, presenti rispettivamente nel 60%, nel 20-25% e nel 5-10% circa dei pazienti. Da segnalare  la presenza nella MI anche di alterazioni molecolari comuni ad altre emopatie (per esempio dei geni CBL, ASXL1, TET2 e EZH2), che sembrano avere un importante significato prognostico.

Sintomatologia

Si può dividere l’evoluzione della MI in 2 fasi successive: una fase “cellulare”, con fibrosi midollare reticolinica, splenomegalia lieve/moderata e leuco-piastrinosi con anemia assente o lieve, ed una fase “fibrotica”, con fibrosi midollare collagena/osteomielosclerosi, splenomegalia ingravescente e  progressiva pancitopenia periferica con anemia.

Nei pazienti in fase cellulare, il 60 – 70% sono asintomatici e la diagnosi è occasionale in corso di analisi di routine o per il riscontro di una splenomegalia all’esame obiettivo. Raramente, si osservano disturbi addominali, disturbi del microcircolo per la leuco-piastrinosi e presenza di sintomi sistemici. Nei pazienti in fase fibrotica, più dell’80% presentano sintomi: i più comuni sono disturbi addominali (dolori da compressione, dispepsia e malassorbimento, infarti splenici, ipertensione portale) per la splenomegalia, sintomi sistemici (febbre, perdita di peso, sudorazione notturna, dolori ossei, prurito) e sintomi legati alle citopenie periferiche.  Nella fase cellulare, possono comparire fenomeni trombotici legati alla leucopiastrinosi: nella fase fibrotica, compaiono talvolta fenomeni emorragici ed infezioni recidivanti secondarie alla piastrinopenia ed alla leucopenia.

Dati di laboratorio

Per l’ inquadramento di un paziente con MI, oltre agli esami diagnostici (biopsia ossea e ricerca delle mutazioni di JAK-2/CALR/MPL), sono indispensabili i seguenti esami: l’esame emocromocitometrico che permette di evidenziare l’anemia, la leuco-piastrinosi della fase cellulare e le citopenie della fase fibrotica, lo striscio periferico che permette di valutare la presenza di eritroblasti e degli eritrociti “a lacrima” (dacriociti) caratteristici della MI, LDH che è quasi sempre aumentato a conferma della diagnosi e l’ecografia addominale che permette una corretta valutazione della splenomegalia e dell’epatomegalia all’esordio e nel corso della malattia. L’esame citogenetico e la conta degli elementi CD34+ nel periferico sono utili esami complementari, il cui significato prognostico è stato di recente evidenziato. 

Decorso

Il decorso della MI è in genere cronico protratto, con una sopravvivenza mediana di circa 5 anni: tuttavia, il decorso della MI è molto eterogeneo, comprendendo pazienti a sopravvivenza  lunga (> 8 – 10 anni) accanto a pazienti con sopravvivenza assai ridotta (< 2 – 3 anni). A distanza variabile dalla diagnosi, si osserva un’evoluzione in CB nel 20 - 25% dei pazienti. Le principali cause di morte nei pazienti con MI sono l’evoluzione in CB (30%), l’evoluzione in fase “accelerata” senza trasformazione leucemica (20%), le trombosi (15%) e le infezioni (10%).

Valutazione prognostica

Avendo la MI un decorso così eterogeneo, è importante attribuire ad ogni paziente un diverso rischio prognostico per consentire un’adatta terapia. A tale scopo, sono stati elaborati dei sistemi a “score”. Il più usato è l’International Prognostic Scoring System (IPSS), basato su 5 diversi fattori: età >65 anni, Hb <10 g/dl, globuli bianchi >25.000/mmc, blasti circolanti >1% e presenza di sintomi sistemici. L’IPSS permette di identificare 4 gruppi di rischio con diversa sopravvivenza.

Terapia

L’attuale algoritmo terapeutico per i pazienti con MI è descritto nella Figura 1.

Nel caso di pazienti con MI a basso rischio secondo l’IPSS generalmente non viene utilizzato alcun trattamento; i pazienti sintomatici o con rischio alto secondo l’IPSS ricevono trattamenti il cui scopo principale è quello di migliorare l’anemia, ridurre la splenomegalia, eliminare i sintomi sistemici, ridurre la trombocitosi e la leucocitosi.

Gli approcci a nostra disposizione per l’anemia oltre la terapia di supporto trasfusionale sono gli androgeni che permettono di ottenere una risposta nel 20-30% dei casi, i corticosteroidi, che permettono di controllare l’anemia nel 30% dei casi e l’eritropietina che in numerosi studi si è dimostrata efficace nel ridurre il fabbisogno trasfusionale.

Il farmaco di scelta per il controllo della splenomegalia sintomatica resta l’idrossiurea (HU) alla dose di 500-1500 mg/die. Le risposte si osservano di regola non prima di 8-10 settimane in circa un 40% dei casi trattati. Nei pazienti di età < 45 anni può essere utilizzato anche l’α-interferone  che si è dimostrato utile come agente mielosoppressivo, anche se meno ben tollerato dell’HU e molto più costoso.

La splenectomia deve essere riservata solo a quei pazienti non rispondenti agli agenti citotossici che presentano una notevole splenomegalia con ingombro addominale, associata ad una grave anemia e/o piastrinopenia con ipertensione portale grave. Un’alternativa alla splenectomia, per quei pazienti con controindicazioni di tipo chirurgico e con un’adeguata conta piastrinica (> 50000/mmc), può essere la radioterapia splenica, che tuttavia consente risposte di durata limitata nel tempo.

L’efficacia della terapia convenzionale nel controllo dei sintomi sistemici è limitata: talvolta i pazienti rispondono al trattamento corticosteroideo. Di recente, l’impiego di farmaci ad azione inibitoria su JAK-2 ha mostrato una buona efficacia proprio nel contenimento/risoluzione dei sintomi sistemici.

Il trapianto di cellule staminali ha un potenziale effetto curativo nei pazienti giovani (< 65 anni) affetti da MI, documentato da un attecchimento midollare stabile e dalla scomparsa della fibrosi midollare in circa il 40 – 50% dei casi. Data la tossicità di questa procedura (la mortalità correlata al trapianto varia dal 15% al 48%), l’European Leukemia Net ha stabilito che il trapianto debba essere preso in considerazione per quei pazienti nei quali la prognosi è inferiore ai 5 anni di sopravvivenza, cioè coloro appartenenti alla categoria di rischio alto o intermedio-2 dell’IPSS.

Terapia della crisi blastica

La prognosi della CB è infausta, con sopravvivenze raramente superiori ai 12 mesi, spesso inferiori ai 6 mesi indipendentemente dal trattamento impiegato: di recente, l’impiego dell’azacitidina (75 mg/mq per sette giorni ogni 4 settimane) in NMC evolute in CB  ha consentito di ottenere una percentuale di risposta del 38% ed una sopravvivenza mediana di 8 mesi. Può pertanto essere considerata sia una valida alternativa alla terapia di supporto che un trattamento di preparazione al trapianto allogenico di cellule staminali.

Terapie innovative

Diversi nuovi agenti terapeutici sono in fase di  valutazione, da soli o in combinazione fra di loro. Fra questi, i più promettenti per il futuro sono gli inibitori di JAK 2, che hanno mostrato risultati incoraggianti nel controllo di due aspetti clinici di difficile gestione nel decorso della MI, quali il controllo della splenomegalia e la risoluzione dei sintomi sistemici. Allo stato attuale, diverse molecole sono in corso di sviluppo clinico e tutte sembrano dare un beneficio in termini di qualità di vita e riduzione della splenomegalia: in particolare il ruxolitinib ha mostrato anche un vantaggio in termini di sopravvivenza quando posto a confronto in 2 studi randomizzati al placebo o al miglior trattamento disponibile.

 

 U. RECINE, Direttore U.O.C. Medicina Interna, Ospedale Santo Spirito in Sassia, Roma

 

Roberto Latagliata: Dipartimento di Biotecnologie Cellulari ed Ematologia, “Sapienza” Università di Roma