L’impegno della Caritas nelle aree periferiche della salute a Roma

Salvatore Geraci

Responsabile dell’Area sanitaria - Caritas di Roma

 

 

 

"La solidarietà non è un vago sentimento di compassione

né si fonda su un sentimento di altruismo ingenuo,

 ma nasce dall'analisi della complessità sociale,

dai guasti del sistema sociale disordinato,

dal degrado morale e culturale

provocato dalla legge del più forte,

dalla carenza di etica collettiva"

 

don Luigi Di Liegro

 

 

Premessa

Da oltre 30 anni l’Italia è divenuta terra di immigrazione con una presenza di cittadini non italiani in costante crescita (circa 200.000 nel 1980, 500.000 nel 1990, poco oltre 1.600.000 nel 2000), attestandosi negli ultimi tre anni, nonostante la crisi economica e sociale, intorno a 5 milioni di individui regolarmente presenti (1; 2). Quest’ultimi hanno una incidenza di circa l’8% sulla popolazione nazionale (media europea 6,6%) con una distribuzione disomogenea sul territorio (61,3% nord, 25,4% centro, 13,3% sud). E’ una popolazione giovane, circa la metà è di genere femminile, significativa è la presenza di minori (circa un milione) di cui quasi il 70% nati in Italia ma non per questo avente diritto di diventare cittadino italiano (se non al compimento del 18° anno a condizioni particolarmente restrittive). Provengono da oltre 190 nazioni diverse, il 27,4% sono dell’Unione Europea e il 23,4% sono europei non comunitari. Rappresentano il 10% degli occupati in Italia, prevalentemente impegnati nell’edilizia (uomini) e nei servizi alle persone (donne).

A fronte di questa presenza strutturata e necessaria anche sul piano economico, partecipano per circa il 12% alla produzione del PIL (3), e demografico (il tasso di fertilità delle immigrate è quasi doppio rispetto alle italiane), le politiche di accoglienza e integrazione sono condizionate da approcci spesso ideologici e poco lungimiranti. Anche di fronte a situazioni emergenziali, come ad esempio l’approdo in Italia di profughi con picchi di arrivo in rapporto ad equilibri geopolitici mondiali, si risponde con politiche dure ed aggressive (pensiamo agli effetti del pacchetto sicurezza del periodo 2008-2010 ed al cosiddetto “respingimento in mare”) o con azioni di estrema attenzione alla vita di chi scappa (vedi il progetto “Mare nostrum”) non coniugato con una adeguata organizzazione dell’accoglienza. Nei solo primi quattro mesi del 2014 gli arrivi sono stati 26.200 mentre nello stesso periodo del 2013 il numero era di 2.500. Le domande di protezione presentate in Italia sono state 27.000 nel 2013 mentre nei primi quattro mesi del 2014 sono già 13.000.

In controtendenza a ciò, le norme e le politiche sanitarie sono state costruite con attenzione e con coerenza in una logica di piena tutela di tutti gli individui presenti, con l’inclusione nel sistema sanitario di quanti siano regolarmente presenti e la garanzia di assistenza anche per coloro temporaneamente non in regola con il soggiorno (4).

 

Il profilo di salute dell’immigrato in Italia

La progettualità migratoria si motiva e si orienta verso un ventaglio di diverse possibilità: lavoro, ricongiungimento familiare, studio, asilo politico e umanitario, migrazione ulteriore, etc. Se ancora oggi la principale presenza di immigrati in Italia è a fini di lavoro, progressivamente crescente è stata, a partire dal primo quinquennio degli anni '90, la migrazione per ricongiungimento familiare, tipica di una seconda fase di migrazione, quella in cui il resto della famiglia raggiunge l'immigrato, qualora questi sia riuscito a realizzare una qualche forma di inserimento sociale: oggi, annualmente, è questo il primo motivo di ingresso in Italia. Quali che siano le motivazioni iniziali, appare evidente come il tentativo migratorio sia messo in atto da quei soggetti che, per caratteristiche socio-economiche individuali e per attitudini caratteriali, hanno le massime possibilità di successo prevedibili, all'interno della comunità di riferimento, familiare o allargata. Questo esclude in partenza individui che non godano di apparenti buone condizioni di salute: non è certo casuale che la maggioranza di chi emigra abbia un'età giovane adulta; che appartenga, nel proprio paese, alle classi sociali meno svantaggiate (quelle più povere non potrebbero sostenere neppure le spese di viaggio); che abbia per lo più un medio grado di istruzione. Il fisico sano garantisce possibilità maggiori di inserimento sociale, che spesso, soprattutto nelle prime fasi della permanenza nel paese ospite, è particolarmente difficile e permette la possibilità di rispondere ad un mercato del lavoro che offre opportunità di mansioni per lo più molto faticose ed usuranti sul piano fisico. L'immigrato, in particolare colui che viene per motivi di lavoro, generalmente arriva nel nostro paese con un patrimonio di salute pressoché integro (il rischio di importazione di malattie infettive esotiche paventato da un pregiudizio diffuso, si è mostrato assolutamente non significativo); le complessive condizioni di vita cui l'immigrato dovrà conformarsi, potranno poi essere capaci di erodere e dilapidare, in tempi più o meno brevi, questo patrimonio.

Tali considerazioni valgono anche per la salute psichica: patologie ricadenti in questo ambito clinico possono infatti ritrovarsi generalmente a distanza di tempo dall’arrivo in Italia spesso correlate al fallimento di specifici progetti migratori.

Sfuggono ovviamente a questo schema interpretativo, che si può ritenere ancora valido seppur con un progressivo indebolimento, le situazioni in cui il migrante sia portatore di patologie che, in quanto ancora asintomatiche, o per scarso livello sanitario del paese di origine, o perché culturalmente non considerate come tali, non lo scoraggiano a partire. Sono da escludersi dall’effetto migrante sano anche coloro che “fuggono” dal loro paese per rischio di persecuzioni, tortura e morte; si potrebbe ipotizzare che la selezione avvenga in senso opposto (scappano per primi i più fragili); in realtà i dati finora raccolti, se da una parte evidenziano nei richiedenti asilo e nei rifugiati una maggior incidenza di esiti di tortura, d’altra parte, all’atto dell’arrivo in Italia, non sono rilevabili particolari malattie se non quelle legate alle condizioni del viaggio/fuga, spesso rischiosissime. Dal 2005 un monitoraggio sulla salute dei migranti viene realizzato annualmente nell’ambito dell’Osservatorio Nazionale sulla Salute nelle Regioni Italiane (5); nato per iniziativa dell'Istituto di Igiene dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, l’Osservatorio vede la collaborazione di diversi enti ed istituzioni scientifiche e per la parte relativa ai cittadini immigrati si a avvale del coordinamento di esperti della Società Italiana di Medicina delle Migrazioni.

Nell’ambito del diritto all’assistenza sanitaria, l’Italia si differenzia da molti altri paesi occidentali, per aver scelto di garantire a tutti i cittadini stranieri presenti, anche in condizione di irregolarità giuridica, la tutela della salute sia con interventi curativi che preventivi. Questo approccio è di grande importanza e certamente lungimirante poiché se in una prima fase l'immigrato può essere particolarmente vulnerabile per le condizioni di degrado e disagio in cui è costretto a vivere, col tempo, superata l'emergenza, prevale la possibilità/capacità di interagire con l'organizzazione e l'offerta dei servizi, migliora la capacità di lettura e di espressione dei propri bisogni di salute e, dall’altra parte, si sviluppa una maggior capacità del sistema sanitario del paese di adattarsi a questa nuova utenza trasformandosi.

Riassumendo, a fronte di fattori protettivi quali la struttura anagrafica della popolazione immigrata e l’autoselezione alla partenza, si può riconoscere il rischio di una fragilità sociale di questa popolazione che, pur nella sua eterogeneità, mostra condizioni di sofferenza sanitaria in gran parte imputabili a incerte politiche di accoglienza ed integrazione sociale soprattutto in ambito locale, a difficoltà di accesso ai servizi, a problematiche relazionali-comunicative.

 

L’esperienza romana

Nello scenario nazionale appena accennato, si inserisce l’esperienza romana che dall’inizio degli anni ’80 ha visto come punto di riferimento un ambulatorio per immigrati senza diritti voluto da mons. Luigi Di Liegro, primo direttore della Caritas Capitolina. Don Luigi è certamente stato uno dei protagonisti assoluti nella storia sociale di Roma tra il 1980 e la fine degli anni ’90: persona carismatica, cittadino impegnato, prete attento ai bisogni della gente e all’emergere di nuove problematiche, ha saputo leggere i fenomeni sociali che hanno attraversato Roma e l’intero paese, stimolando, prima ancora che risposte concrete di cui è stato maestro, l’attenzione culturale e politica ai temi della marginalità e della giustizia sociale. Un’intera generazione di cittadini sensibili, indipendentemente dell’appartenenza confessionale, culturale o politica, è maturata con quello stile che, partendo dai fatti, andava alle radici dei “mali di Roma” e ne tracciava soluzioni non delegandole ad altri ma che partivano dall’impegno di ognuno e si traducevano in input politici puntuali e concreti (6). Non deve sorprendere quindi come un piccolo Centro medico della periferia romana, nato per una risposta immediata a dei bisogni senza risposta, sia evoluto nell’attuale Area sanitaria, complessa ed efficace rete di servizi e progetti, laboratorio transculturale per una sanità centrata sulla persona. Persona a cui si riconosce la massima dignità e quindi ogni gesto assistenziale non può che accompagnarsi ad un’azione diretta o indiretta che ne preveda un percorso d’autonomia e di diritti.

Nel tempo si sono definiti quattro ambiti d’impegno che sono i pilastri su cui si fondano le politiche della Caritas in questo settore:

•        il primo ambito è comunque quello assistenziale: rispondere concretamente ad un bisogno di salute, non sostituendosi a ciò che è garantito dallo Stato ma integrando le riposte ed intercettando i bisogni di chi si trova al margine del sistema; ad oggi sono state quasi 100.000 le persone assistite presso le strutture sanitarie della Caritas.

•        Il secondo pilastro è quello della conoscenza: non è possibile fornire risposte se non si conosce il fenomeno, se non si riflette su ciò che si fa. Attraverso ricerche, approfondimenti e studi si è cercato di analizzare ciò che sottende a disuguaglianze ed ingiustizie, sperimentando anche percorsi teorici-pratici di inclusione sanitaria.

•        Il terzo ambito d’azione è quello formativo: conoscere e condividere le scoperte, le informazioni e le riflessioni è forse il modo più efficace per promuovere una cultura d’accoglienza: è l’occasione per fare di un’esperienza assistenziale, un percorso di crescita continua, per affinare le strategie relazionali e cliniche, per rimotivarsi all’incontro con le persone e non con le singole malattie, per capire i punti critici del sistema ed avviare interventi migliorativi.

•        Ultimo pilastro è quello dell’impegno per i diritti di tutti ed in particolare dei soggetti più deboli: i tre ambiti precedenti si sintetizzano in denunce d’inadempienze, di diritti negati o nascosti, ma anche in proposte di politiche e di scelte percorribili sul piano organizzativo, in modelli che siano permeabili alle domande più flebili, spesso nascoste.

Proprio sul piano dell’emersione sui diritti, la Caritas di Roma ha potuto esprimersi al meglio grazie al suo impegno quotidiano di assistenza tra le persone più deboli che ha alimentato competenze e motivazioni ma soprattutto alla capacità di costruire rete, mettere insieme operatori socio-sanitari del pubblico e del privato sociale laico e confessionale, che porterà alla definizione del Gruppo Immigrazione e Salute (GrIS).

 

Fare rete: aprire spazi e costruire traiettorie

Già dalla metà degli anni ’80, in varie parti d’Italia, in modo spontaneo ed allora certamente non coordinato, vari gruppi di matrice confessionale o laica (per citarne alcuni oltre alla Caritas a Roma, il Naga a Milano, la Croce Rossa a Genova, il Biavati a Bologna, i salesiani di Santa Chiara e l’Università a Palermo) si sono organizzati per garantire il diritto all’assistenza sanitaria agli stranieri che ne erano esclusi. Ambulatori di primo livello che tra mille difficoltà, con l’entusiasmo di chi sa di percorrere strade impervie ma anticipatorie, con la curiosità del volontario, con la passione di chi crede ad un diritto alla salute senza esclusioni, hanno visto protagonisti centinaia di medici, infermieri ed operatori sociali e sanitari, con competenze ed appartenenze diverse ma con comune impegno (7; 8).

E quando, a giugno del 1990, l’allora vicepresidente del Consiglio dei Ministri on. Claudio Martelli, relatore dell’omonima legge sull’immigrazione promulgata nel febbraio di quell’anno, riunisce a Roma in un’affollata assemblea quanti in Italia si occupavano di immigrati, i rappresentanti di questi gruppi per la prima volta si incontrano. Dal confronto emerge la scoperta che quelle esperienze più o meno isolate possono confluire in una riflessione comune, si può passare dall’impegno personale ad una coscienza collettiva di una nuova realtà; dalla necessità di affrontare una emergenza per assenza di preparazione ed organizzazione pubblica, all’esigenza di capire, studiare, sperimentarsi nell’incontro con questi “nuovi cittadini”; da un diritto di fatto negato e/o nascosto alla volontà di affermare, anche sul piano giuridico, che la salute è un bene di tutti e per tutti. Da allora si comincia a parlare in Italia di medicina delle migrazioni (9), e con decisione quei medici ed operatori “pionieri” del campo ne sottolineano i contenuti non in termini di malattie o di rischio, ma come occasione per riconsiderare la persona nel suo insieme (corpo, psiche ma anche cultura, aspettative, desideri…) ed in un contesto (inserimento o fragilità sociale, effetti delle politiche d’accoglienza e d’integrazione, pregiudizi e discriminazioni…), in un'ottica che oggi definiremmo di salute globale. Nasce con la partecipazione della Caritas, la Società Italiana di Medicina delle Migrazioni (SIMM), ancora oggi la sola società scientifica con unico interesse il tema delle migrazioni.

Questa riflessione comune, alimentata dalle esperienze locali, trova naturale espressione piena proprio nei territori dove si riesce a concretizzare la necessità di collegarsi in rete per aumentare la capacità assistenziale ma soprattutto amplificare l’azione di advocacy.

Gli operatori si incontrano dapprima pressati da problematiche di assistenza sanitaria che inizialmente trovavano risposte solo attraverso il privato sociale e l’associazionismo ma che già interrogavano i servizi pubblici. Progressivamente, insieme, operatori del pubblico e del privato sociale, quello che cominciava a definirsi come terzo settore e che oggi è il più vasto ambito del non profit cooperativistico, cercano risposte, si informano, si confrontano, analizzano, partendo dell’esperienza quotidiana, i bisogni, costruiscono percorsi e proposte. Ci si è trovati a vivere una Rete, senza sapere cosa fosse, si è entrati in un paradigma della complessità, senza conoscerne le definizioni, inconsapevolmente è stata creata un policy network particolarmente efficace (10). Man mano che l’esperienza è stata conosciuta, è diventata oggetto di tesi ed approfondimenti scientifici, tra l’indifferenza o la meraviglia degli inconsapevoli protagonisti, consci però di vivere, anche con alcune difficoltà in parte acuite da un sistema sanitario sempre più coartato su se stesso e una sofferenza sociale diffusa ed escludente, una esperienza unica e assolutamente necessaria. Necessaria per gli operatori che vi partecipano, poiché è occasione di costante aggiornamento partendo dall’esperienza di ciascuno, con lo stile della Comunità di pratica cioè di quei gruppi che si formano per trovare risposte comuni a problemi inerenti l’esercizio del proprio lavoro attraverso la condivisione delle informazioni e del proprio know-how. Necessaria anche perché è un’esperienza motivante nelle scelte professionali e di impegno verso quella parte della popolazione spesso oggetto di pregiudizi ed atteggiamenti discriminanti: si condivide una tacita scelta di campo, una sorta di etica collettiva, che spesso è alle radici, più o meno nascoste, dei percorsi professionali di chi ha scelto di lavorare nell’ambito socio assistenziale. Come abbiamo avuto già modo di scrivere in passato, riteniamo che chiunque abbia avuto, almeno in ambito professionale, degli incontri con un immigrato, o meglio con più cittadini immigrati, si sia fatto delle domande, abbia avuto curiosità, si sia scontrato con l’evidenza di una burocrazia che tende a escludere l’alterità, in alcuni casi si sia sentito impotente sul piano relazionale o clinico, a volte indignato dalle reazioni ed atteggiamenti. Nulla di nuovo per chi ha scelto di lavorare in relazioni d’aiuto. Ma di nuovo c’è che nella relazione con lo straniero, spesso regno condiviso di pregiudizi più o meno consapevoli, abbiamo misurato e misuriamo con mano la nostra impotenza: quella comunicativa linguistica, relazionale, politico-organizzativa, culturale terapeutica. Di nuovo c’è la consapevolezza che per superare questa impotenza dobbiamo attraversare il diaframma che ci separa gli uni dagli altri e condividere informazioni, impressioni, scoperte, strategie.

Questa è l’esperienza vissuta nel GrIS a cui oggi hanno aderito circa 60 organizzazioni dell’associazionismo e del settore pubblico ed in cui l’Area sanitaria della Caritas di Roma ha fortemente creduto tanto che attualmente, con il proprio responsabile, coordina il collegamento tra le attività di altri 13 GrIS, sorti sull’esempio dell’esperienza romana e laziale, in varie parti d’Italia. E se ogni GrIS ha una sua storia e una propria traiettoria, alcuni aspetti li accomunano tutti: sono luoghi partecipati dove ogni persona o ogni gruppo ha il coraggio di fare un passo indietro per condividere un progetto comune, costruito in base alle proprie possibilità e capacità. In una società sempre più individualista e quasi con l’obbligo dell’apparire, si profila un ambito organizzativo ma non strutturalmente organizzato, dove il singolo è valorizzato dal gruppo e l’apparire è un vuoto di senso di fronte alla concretezza delle risposte che si riesce a mettere in atto; con tempi e modi sempre diversi, ma egualmente efficaci. Attori diversi (pubblico, privato sociale, volontariato, associazionismo italiano e straniero, istituzioni) si confrontano, si scontrano anche ma in un’ottica costruttiva della valorizzazione delle diversità. Questa impostazione, a livello nazionale e locale, è la condizione ideale per un ulteriore passaggio che si vuole fare all’interno della rete di partecipazione costruita negli anni: attivare percorsi ed organizzazione perchè i cittadini immigrati non siano più oggetto di advocacy ma soggetti attivi di empowerment.

Il GrIS è di fatto anche laboratorio sociale ricco di scoperte e di sfide, con dinamiche sempre nuove e porte sempre aperte, dove italiani e stranieri, diverse professionalità e competenze, variegate appartenenze cercano di condividere un’esperienza di impegno e, più o meno consapevolmente, riscoprono e testimoniano un’etica della partecipazione e della responsabilità: percorsi coerenti con il mandato della Caritas e di quella specifica parte della dottrina sociale della Chiesa dove l’impegno di prossimità diventa una pedagogia dei fatti che unisce, e, se possibile, trasforma.

 

Conclusione: una medaglia di tutti

Da quanto riportato e dall’attenzione costante che la Caritas in questo specifico settore ha posto nel rapporto con le istituzioni pubbliche anche in termini di stimolo politico, proposte per la programmazione, consulenza tecnica (11), studio e ricerca, non deve sorprendere che il Presidente della Repubblica nel 2013 abbia insignito l’Area sanitaria Caritas della medaglia d’oro al merito della sanità pubblica. Se un valore importante dell’impegno dei volontari della Caritas è certamente la gratuità e per questo non si ama ricevere premi e onorificenze, questo riconoscimento ha invece suscitato grande commozione e soddisfazione proprio perché inserito all’interno di un percorso di sanità pubblica, di lavoro per il bene comune dove giustizia e solidarietà si fondono per un sistema che deve essere equo e attento alle diversità e alle fragilità.

Un importante riconoscimento per quanto fatto, per l’impegno in questi trenta anni di migliaia di volontari (attualmente sono attivi circa 350 tra medici, infermieri, farmacisti, odontoiatri, psicologi, mediatori, operatori socio culturali dell’accoglienza), ma certamente uno stimolo per continuare affinchè l’esperienza di alcuni possa diventare una competenza di molti e un dovere di tutti.

 

Bibliografia

1)       http://www.dossierimmigrazione.it/docnews/file/2012_Dossier_Scheda.pdf

2)       http://www.istat.it/it/archivio/67648

3)       http://www.fondazioneleonemoressa.org/

4)       Marceca M., Geraci S., Baglio G.: Immigrants’ health protection: political, institutional and social perspectives at international and Italian level. IJPH - 2012, Volume 9, Number 3; e7498-1:11

5)       http://www.osservasalute.it/ . E’ possibile scaricare le parti relative al capitolo sugli immigrati da: http://www.simmweb.it/index.php?id=324&no_cache=1

6)                Badaracchi L.: Luigi Di Liegro. Profeta di carità e giustizia. Milano. Paoline editoriale libri, 2007

7)       Geraci S.: Esclusione, fragilità sociale e reciprocità: un percorso da compiere. In Atti VIII Consensus Conference sull’immigrazione. VI Congresso nazionale SIMM. Lampedusa (Ag), 2004 – 6:9

8)       Geraci S., Marceca M.: Immigrati ed assistenza sanitaria: il ruolo del volontariato. Monitor. Elementi di analisi e osservazione del sistema salute. Agenzia per i servizi sanitari regionali, n. 18, Roma, 2006; 26:45

9)       Geraci S.: Migrazione e salute: le tappe di una storia che ci trasforma. Atti della Accademia Lancisiana. Anno Accademico 2005-2006: 291° dalla fondazione. Volume L (nuova serie), n. 2, II semestre 2006, Roma; 79:83

10)     Geraci S., Gnolfo F.: In rete per la salute degli immigrati. Note a margine di un’inaspettata esperienza. Pendragon, Bologna, 2012 (due edizioni)

11)     Geraci S., Bonciani M., Martinelli B.: La tutela della salute degli immigrati nelle politiche locali. Inprinting srl, Roma, 2010