“La terapia dell’ipertensione arteriosa nella sindrome metabolica”

 

 

 

  

Dott.ssa Laura Gasbarrone

Direttore U.O.C. Medicina Interna 5 e Direttore del Dipartimento di Medicina Interna

Azienda Ospedaliera San Camillo Forlanini  - Roma

 

 

 

Riassunto

L’ipertensione arteriosa rappresenta uno degli aspetti più comuni nella costellazione dei fattori di rischio correlati nella sindrome metabolica. Già di per sé è una delle patologie più frequenti nella popolazione generale, causa di specifiche complicanze d’organo. Indipendentemente dalle cause, la sindrome metabolica identifica individui con elevato rischio di malattia cardiovascolare aterosclerotica. Studi recenti hanno evidenziato come i farmaci inibenti il sistema renina-angiotensina possono ridurre l’insorgenza del diabete II di nuova diagnosi e che i farmaci bloccanti il recettore di tipo I della angiotensina II stimolano il recettore per l’attivazione del perossisoma γ (PPRA), che costituisce il target della sindrome metabolica, così come fanno i tioglitazonidi.

 

Parole chiave: sindrome metabolica; ipertensione arteriosa; insulino resistenza..

 

 

 

Summary

Hypertension is one of the most frequent component in a costellation of interrelated risk factors of metabolic syndrome. Hypertension is one of the most frequent disease in general population and cause target organ damage. Regardless of cause, the metabolic syndrome identifies individuals at an elevated risk for atherosclerotic cardiovascular disease. Recent clinical trials have suggested that agents that inhibit the renin-angiotensin system may reduce risk for new-onset type 2 diabetes and that agents blocking the angiotensin II type I receptor activates the peroxisome proliferators-activated receptor (PPRA) γ, a target for treatment of metabolic syndrome, such as tioglitazonidi.

           

Key words: metabolic syndrome; hypertension; insulin resistance.

 

 

 

 

Introduzione

            L’ipertensione arteriosa è considerata uno degli aspetti chiave della sindrome metabolica (SM). In tal senso anche le linee guida della European Society of Hypertension e della Società Europea di Cardiologia (ESH/ESC) del 2003 sottolineano l’importanza di identificare i pazienti ipertesi con SM come un gruppo ad alto rischio di sviluppare malattie cardiovascolari (1). Ed è ormai ampiamente dimostrato come gli eventi cardiovascolari negli ipertesi aumentino progressivamente con la presenza di un numero crescente di caratteristiche della SM. Anche dopo aggiustamento dei fattori potenzialmente confondenti, l’associazione permane in modo significativo; la SM è un fattore di rischio indipendente di eventi cardiovascolari maggiori, anche in pazienti che non presentano manifestazioni cliniche di malattia cardiovascolare all’esordio. Ma lo stretto legame tra ipertensione e SM è dimostrato anche dalle caratteristiche dei pazienti con ipertensione, dei quali all’incirca la metà presenta insulino-resistenza, che di per sé può accelerare l’insorgenza di aterosclerosi. D’altra parte i pazienti con SM presentano disfunzione endoteliale e una condizione subclinica di infiammazione cronica, potenziali fattori di rischio per eventi cardio e cerebrovascolari (2).

            SM e ipertensione arteriosa condividono inoltre una alta prevalenza nella popolazione adulta generale. Negli Stati Uniti un maschio su cinque e una donna su quattro è portatore di SM, la cui prevalenza aumenta con l’età ed è presente in circa la metà della popolazione al di sopra dei 60 anni. L’ipertensione è sempre più frequente con l’aumentare dell’età, ma negli anziani con SM è presente anche fino al 100%. Da notare come l’aumento nella prevalenza della SM tra la terza e la quinta decade sia parallelo a quello della prevalenza di soprappeso e di obesità, elementi correlati alla adiposità viscerale, insulino-resistenza, dislipidemia, elevati valori pressori e ridotta tolleranza glucidica. Va comunque ricordato che l’invecchiamento di per sé è associato all’evoluzione dell’insulino-resistenza, all’aumento del tessuto adiposo viscerale, all’aumento dei valori pressori, elementi fondamentali nella patogenesi della SM (3).

            Da queste evidenze discende purtroppo la previsione che la SM possa diventare un fattore di rischio primario per malattia cardiovascolare più importante del fumo di sigaretta, quindi la necessità di uno screening metabolico accurato in tutti i pazienti ipertesi di prima diagnosi e ovviamente di una strategia terapeutica in grado di controllare al meglio il rischio cardiovascolare.

Insulino resistenza e ipertensione arteriosa

            Il legame tra insulino resistenza e malattia cardiovascolare verosimilmente è rappresentato dallo stress ossidativo, responsabile di disfunzione endoteliale e quindi di danno vascolare e promozione della formazione dell’ateroma. Anche l’ipertensione arteriosa nella SM potrebbe avere la stessa genesi: l’iperinsulinemia secondaria a insulino resistenza determinerebbe sia stimolazione del sistema nervoso simpatico e quindi vasocostrizione, sia ritenzione di sodio con aumento dei valori pressori, tale da antagonizzare gli effetti vasodilatatori dell’insulina. L’iperinsulinemia cronica associata a SM potrebbe modulare l’escrezione renale di sodio regolandone il riassorbimento a livello tubulare o aumentando la pompa sodio/idrogeno dei tubuli renali. Inoltre ogni fattore componente della sindrome metabolica è soggetto ad una propria regolazione attraverso fattori genetici o fattori acquisiti, cosicché vi è una enorme variabilità di espressione dei fattori di rischio, e di conseguenza una ancora più ampia variabilità della espressione clinica della SM, la quale non costituisce una entità uniforme. Non tutti sono comunque d’accordo nel ritenere che lo stress ossidativo caratteristico dell’ipertensione arteriosa possa aumentare in presenza di uno o più dei componenti della SM (3, 4, 5).

            L’effetto aterogeno della insulino resistenza è quello di un meccanismo a cascata: inizialmente si ha iperinsulinemia compensatoria, sufficiente a mantenere la tolleranza glucidica e la glicemia post prandiale nella norma; con il progredire della insulino resistenza, la produzione di insulina risulta insufficiente a prevenire l’iperglicemia e compare intolleranza glucidica. Si sviluppa disfunzione endoteliale, che progredisce con il progredire della intolleranza glucidica. Si aggiunge disfunzione piastrinica con tendenza alla aggregazione e quindi lo stato infiammatorio cronico permissivo all’incremento di mortalità cardiovascolare. Nel momento in cui si pone diagnosi di diabete, l’insulino resistenza è presente già da molto tempo, così come le complicanze micro e macrovascolari (6, 7). Si ritiene anche che complessivamente la SM sia presente già da molti anni, anche fino a dieci, al momento della diagnosi, e che il rischio cardiovascolare di essa sia la risultante dell’effetto cumulativo di ciascuno dei singoli fattori presenti (3, 7).

 

L’ipertensione arteriosa nella SM

            La maggior parte degli individui con SM presenta ipertensione arteriosa in I stadio o pre-ipertensione. Nel corso degli anni le società scientifiche che hanno di volta in volta revisionato i criteri per la diagnosi di SM hanno variato in basso la valutazione dei valori di pressione arteriosa di riferimento per la diagnosi. L’ipertensione è d’altra parte considerata uno dei tre fattori di rischio maggiori, insieme a elevate lipoproteine apoB e basso colesterolo HDL (8).

            Da questo punto di vista, il concetto di pre-ipertensione coniato dalle linee guida del JNCVII emanate nel 2003, oggetto allora di severa critica da parte del mondo scientifico, ben si adatta alla SM, nella quale ogni fattore di rischio merita la dovuta attenzione, essendo ciascuno responsabile in modo additivo del rischio cardiovascolare globale del paziente: quindi, se di per sé un soggetto pre-iperteso non va giustamente trattato se non presenta fattori di rischio aggiuntivi, viceversa è mandatorio il concetto di trattamento della pre-ipertensione di fronte ad un rischio cardiovascolare aumentato determinato dalla presenza aggiuntiva di uno qualunque dei componente della SM (8).

            Conseguentemente l’intervento terapeutico teso a ridurre i valori pressori entro i limiti normali di 130/80 mmHg o meglio ottimali è particolarmente raccomandato nei pazienti con SM. L’intervento deve includere ovviamente le misure non farmacologiche quali la correzione dello stile di vita con la riduzione dell’apporto calorico, con l’aumento della attività fisica e con la riduzione dell’apporto di sodio. Anche se vi è una grossa variabilità individuale, tuttavia non si può escludere un effetto diretto antipertensivo della riduzione del peso corporeo. In tutti i casi in cui vi siano valori di PA > 140/90 mmHg, vi sia diabete anche se con PA alta/normale, vi sia microalbuminuria indipendentemente dai valori di PA, vi è indicazione anche al trattamento farmacologico (9).

Esempio paradigmatico della influenza reciproca dei singoli componenti della SM è rappresentato dalla maggiore prevalenza di diabete nella popolazione di ipertesi rispetto ai non ipertesi; se poi tra gli ipertesi consideriamo quelli con valori di PA ai limiti superiori della norma, si riscontra una prevalenza di diabete doppia rispetto a soggetti con valori pressori inferiori, a suggerire un chiaro effetto di trascinamento dell’ipertensione nei confronti dei fattori di rischio diabetico.

Un recentissimo studio di Mancia e coll. ha messo in evidenza alcune caratteristiche dell’ipertensione nella SM: la componente più comune è l’aumento della PA misurata in ambulatorio, sia entro i valori normali alti sia nel range dell’ipertensione, e l’aumento si accompagna parallelamente ad aumento dei valori domiciliari e di quelli del monitoraggio ambulatoriale, sempre entro i valori alti normali o nel range dell’ipertensione. Inoltre i soggetti che dimostravano aumento dei valori in tutte e tre le situazioni di misurazione avevano maggiore rischio cardiovascolare e/o maggiore rischio di morte cardiovascolare. Nella SM l’aumento dei valori rilevati al monitoraggio ambulatoriale inaspettatamente non era accompagnato da una alterazione delle caratteristiche circadiane, poiché la caduta notturna non era alterata se confrontata con quella dei soggetti senza SM. Inoltre i soggetti con SM presentavano un aumento non elevato ma significativo della frequenza cardiaca con tutte e tre le metodiche di misurazione della PA rispetto a soggetti senza SM: si ipotizza un aumento della attività simpatica. Inoltre si dimostrava che solo l’ipertensione e l’alterazione della glicemia erano correlati ad aumento della mortalità per cause cardiovascolari, ma non le altre componenti della SM (10, 11).

            Molti studi clinici hanno evidenziato l’importanza della riduzione “intensiva” dei valori di PA nei diabetici: nello studio SHEP la riduzione di 9,9 mmHg della PAS era associata a 34% di riduzione del rischio cardiovascolare; nel HDFP c’era una identica riduzione del rischio relativo nel gruppo di pazienti trattati intensamente; nel trial Syst-Eur la riduzione di 8,6 mmHg nella PAS media determinava 70% di riduzione della mortalità cardiovascolare e dello stroke; nello studio HOT i diabetici con riduzione della PAD da 80-85 mmHg presentavano ridotta morbilità e mortalità cardiovascolare, ma questo non era evidente nei non diabetici; lo studio ABCD con randomizzazione verso un controllo rigido o meno rigido della PA, con target rispettivamente 132/78 e 138/86 mmHg, ha dimostrato stabilizzazione della funzione renale e mortalità pressoché dimezzata nel primo gruppo. In base a queste evidenze, vi è quindi un consenso unanime nello stabilire i limiti dell’intervento terapeutico su valori di 130/85 o 130/80 mmHg, considerando come target valori di 130/80 mmHg o inferiori; in presenza di proteinuria va considerata una PAS di 125 o anche preferibilmente 115 mmHg, anche se questo non è provato nei trias clinici (12).

 

Il trattamento dell’ipertensione nella SM

            Le cinque classi di farmaci antiipertensivi hanno tutti azione protettiva contro le complicanze dell’ipertensione, ma l’effetto principale di ciascuna classe si esplica proprio sui valori pressori. Nessuno dei cinque gruppi di farmaci può essere raccomandato o scartato in modo particolare a priori: la riduzione dei valori pressori rimane comunque il meccanismo di protezione più importante delle cinque categorie. Non è chiara la relazione tra l’uso di differenti classi di farmaci antiipertensivi e il rischio di incidenza di diabete II. Studi condotti separatamente su popolazioni di donne anziane, di donne giovani e di uomini con storia di ipertensione arteriosa hanno dimostrato come l’uso di diuretici tiazidici era indipendentemente associato ad aumento della incidenza di diabete. Lo stesso avveniva per l’uso di β-bloccanti nelle donne anziane e negli uomini; questi farmaci possono inoltre determinare aumento di peso. L’effetto dei diuretici tiazidici è verosimilmente dovuto alla capacità di ridurre la sensibilità all’insulina. I diuretici e i β-bloccanti sono farmaci diabetogeni in modo quasi dose-dipendente. Ovviamente β-bloccanti del tipo carvedilolo e nebivololo, con azione vasodilatrice, devono essere usati in pazienti con malattia coronaria. In particolare il carvedilolo avrebbe effetto antiossidante. Non si dimostrava la stessa correlazione con l’uso di calcio antagonisti o altri farmaci antipertensivi quali ACE inibitori. (12, 13, 14, 15).

Spesso la tendenza a sviluppare diabete è slatentizzata dal trattamento antipertensivo: ad esempio i calcio antagonisti sono da questo punto di vista farmaci metabolicamente neutri; un potenziale svantaggio dei diidropiridinici è l’attivazione riflessa del sistema nervoso simpatico; l’effetto è minore con lacidipina, lercanidipina e barnidipina (13). Gli ACE inibitori e i sartanici sono invece capaci di annullare l’effetto diabetogenico osservato con β-bloccanti e diuretici tiazidici e addirittura ridurrebbero del 25% il rischio di sviluppare diabete. In particolare lo studio VALUE, condotto su 15.000 pazienti, ha dimostrato la superiore efficacia di valsartan rispetto ad amlodipina nel ridurre in maniera statisticamente significativa del 23% l’incidenza di diabete di nuova insorgenza. Gli ACE inibitori riducono la resistenza all’insulina con un meccanismo indiretto. Tra i meccanismi ipotizzati per giustificare la superiore efficacia dei sartanici in genere nel prevenire il diabete va considerata la documentata interferenza che l’angiotensina II esercita sugli step coinvolti nell’uptake del glucosio mediato dall’insulina (attivazione e fosforilazione di recettori e substrati, attivazione di mediatori di trasduzione  con formazione di complessi coinvolti nella sintesi di proteine deputate al trasporto di glucosio); l’azione della angiotensina II verrebbe resa possibile dalla capacità di produrre specie reattive dell’ossigeno (ROS), in particolare anioni superossido. La produzione di ROS indotta dalla angiotensina II è bloccata dalla inibizione selettiva del recettore AT1 ad opera dei sartani, con conseguente ripristino del pathway insulinico; inoltre i sartani sono in grado di ripristinare la produzione di ossido nitrico (NO) attraverso la NO sintetasi (16, 17). Un ulteriore effetto antidiabetogeno è documentato dalla possibile interferenza con i recettori-γ che attivano la proliferazione dei perossisomi (PPAR-γ), principale bersaglio terapeutico dei tiazolidinedioni (glitazoni), farmaci di recente introduzione nella terapia del diabete. Questi recettori sono coinvolti nei meccanismi di regolazione omeostatica della captazione di glucosio: la loro attivazione determina aumento della trascrizione di alcune proteine regolatrici il cui ultimo effetto è quello di aumentare la captazione del glucosio da parte del tessuto muscolare senza aumentare la secrezione endogena di insulina. Il PPAR-γ  controlla l’espressione di enzimi chiave del metabolismo lipidico, la produzione da parte dell’adipocita di proteine secretorie come leptina e TNF-α che possono influenzare la sensibilità insulinica a livello muscolare, ha importante effetto sulla regolazione extra-cellulare del metabolismo dei lipidi, in particolare le LDL, e sulla mediazione dei processi infiammatori. Valsartan blocca il recettore AT1, antagonizzando lo sviluppo di insulino resistenza innescato dal legame di angiotensina II con il recettore, mentre attiva parzialmente il recettore PPAR-γ e la sensibilità insulinica migliora. Inoltre il blocco del sistema renina-angiotensina sarebbe in grado di prevenire il diabete attraverso la promozione della differenziazione degli adipociti, processo che si contrappone alla deposizione impropria in altri tessuti quali muscoli, fegato, pancreas e alla diminuzione della insulino-sensibilità (17, 18, 19).

Il Telmisartan ha la caratteristica di agire come agonista parziale di PPARγ, quindi avrebbe una azione insulino sensibilizzante simile a quella esercitata dai tiazolidinedioni. Anzi, in contrasto con i tiazolidinedioni, telmisartan non determina una completa stimolazione dei PPARγ e interagisce con il recettore in maniera caratteristica di altri agonisti parziali; ciò può rendere conto del migliore profilo di sicurezza del telmisartan in confronto ad agonisti completi come i tiazolidinedioni che possono provocare anche ritenzione idrica, edema ed aumento di peso. L’effetto sul PPRAγ può essere spiegato da una relazione strutturale certa tra la molecola di telmisartan e del pioglitazone. Il Telmisartan, come tutti gli AT1 bloccanti disponibili, è selettivo per il recettore AT1; l’antagonismo nei confronti del recettore AT1 è alla base di tutte le azioni emodinamiche degli ARBs: vasodilatazione, riduzione della PA e regressione dell’ipertrofia ventricolare sinistra. L’attivazione del recettore PPRAγ sembra essere un effetto di classe degli AT1 bloccanti; tuttavia all’interno del gruppo il telmisartan appare decisamente più attivo degli altri, anche alle dosi solitamente utilizzate per la terapia dell’ipertensione (18, 20).

Anche gli alfa-bloccanti presentano effetti metabolici favorevoli, quali ridotta resistenza all’insulina, migliore tolleranza al glucosio e lieve influenza sul profilo lipidico plasmatici; erano stati inclusi dalle linee guida del WHO/ISH nel 1999 come farmaci di prima linea, successivamente eliminati a causa degli effetti cardiovascolari sfavorevoli. I farmaci antiipertensivi ad azione centrale, clonidina o α-metil-DOPA, sono farmaci utili nei pazienti con SM perché inducono inibizione simpatica periferica e quindi potrebbero avere un ruolo nel controllare l’iperattività del sistema nervoso simpatico ed essere potenzialmente benefici rispetto ai disordini metabolici.

Nel 60-70% dei pazienti è necessario impiegare più di due farmaci per raggiungere il target pressorio. Vi sono evidenze che dimostrano come il numero medio dei farmaci impiegati possa essere superiore nei pazienti ipertesi che sono anche diabetici, e probabilmente questa dovrebbe essere la regola del trattamento e non l’eccezione. I vantaggi della terapia di associazione sono l’aumento dell’effetto antiipertensivo e la riduzione degli effetti collaterali grazie alla riduzione del dosaggio dei singoli farmaci, e l’aumento della compliance da parte del paziente (8, 21).

 

Lo stato pro-infiammatorio

            Principale responsabile di questa condizione nella SM sembra essere il tessuto adiposo; ritenuto in passato un semplice deposito, oggi è considerato un vero e proprio organo, capace di produrre sostanze ormonali e mediatori dell’infiammazione: tra le prime ricordiamo la leptina, l’adiponectina e la resistita, tra i secondi ricordiamo il TNFα, le interleuchine e il fibrinogeno. Il tessuto adiposo “disfunzionale”, tipicamente rappresentato dal grasso viscerale, si caratterizza per una alterata produzione di ormoni e mediatori dell’infiammazione che inducono insulino-resistenza e aumentato rischio cardiovascolare.

            La concentrazione di adiponectina è ridotta negli obesi, nei diabetici di tipo II, negli ipertesi e nei coronaropatici e correla con la sensibilità all’insulina; basse concentrazioni di adiponectina associate ad obesità si associano a condizioni di infiammazione sub-clinica. L’adiponectina è un marker di disfunzione endoteliale ed ha un ruolo diretto nelle complicanze cardiovascolari associate all’ipertensione.

            Alterazioni funzionali del tessuto adiposo, piuttosto che accumulo di tessuto adiposo di per sé, possono essere responsabili degli aspetti della SM. Il tessuto adiposo secerne adiponectina, metabolicamente attiva, alcune delle quali promuovono l’infiammazione (22)

            I tiazolidinedioni, tra cui pioglitazone e rosiglitazone, rappresentano una svolta nella insulino resistenza, poiché agiscono sugli specifici recettori PPARγ, inducendo la trasformazione da pre-adipociti in adipociti maturi, determinando redistribuzione del tessuto adiposo con riduzione di quello viscerale, stimolano la produzione di adiponectina e migliorano la sensibilità insulinica. Farmaci antipertensivi come ACE inibitori e soprattutto inibitori del recettore della angiotensina II possono migliorare la sensibilità insulinica e aumentare i livelli di adiponectina.

 

Conclusioni

            I pazienti con ipertensione arteriosa, con o senza SM, sono vittime di un processo morboso che richiede continui interventi terapeutici che non solo mirano ad un cambiamento dello stile di vita, ma che spesso richiedono l’impiego di terapia antiipertensiva e a volte un approccio terapeutico globale aggressivo, specie di fronte ai multiformi aspetti della SM. L’evento patologico comune che caratterizza i singoli fattori della SM è costituito dall’infiammazione e dalla disfunzione endoteliale. I farmaci impiegati nella SM dovrebbero di conseguenza rispondere ad alcune caratteristiche più ampie, tese non solo al controllo dei valori pressori ma al controllo del rischio cardiovascolare globale. E’ ovvio quindi che il trattamento dell’ipertensione in particolare nella SM deve mirare a contrastare più aspetti patologici, per cui non esisterà un farmaco ideale ma più probabilmente una associazione consigliabile di più farmaci che agiscono su più fronti preferibilmente in modo sinergico (15). Nella SM, sia essa considerata Idra o Chimera, non cambia il concetto di aggregazione di segni e sintomi che costituiscono insieme il quadro della malattia; è verosimile che il comune denominatore dei segni e sintomi sia costituito dalla infiammazione cronica e dalla conseguente disfunzione endoteliale; la combinazione dei singoli fattori conferisce il rischio globale (23). Poiché il rischio, nonostante la terapia, non torna quello correlato solo all’età, è verosimilmente più appropriato iniziare il trattamento in epoca molto precoce, soprattutto per quegli aspetti, come l’ipertensione, di facile diagnosi: perché perdere l’opportunità di prevenire l’evoluzione della malattia piuttosto che curare le conseguenze. In questo le linee guida non ci forniscono aiuto, perché focalizzano l’attenzione esclusivamente sul trattamento di pazienti già con danno d’organo (24).

 

 

 

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