“Patologia iatrogena negli anziani”

 

 

Dott.ssa Laura Gasbarrone

Direttore U.O.C. Medicina Interna 5 e Direttore del Dipartimento di Medicina Interna

Azienda Ospedaliera San Camillo Forlanini  - Roma

  

Riassunto

 

            Reazioni avverse a farmaci e interazioni farmacologiche si verificano spesso in pazienti anziani che assumono più di un farmaco contemporaneamente per più patologie. La patologia iatrogena presenta una alta incidenza negli anziani, e molti di questi eventi possono essere prevedibili: a causa dei diversi cambiamenti fisiologici, gli anziani hanno rischio maggiore di sviluppare ADR e la tossicità dei farmaci può causare effetti potenzialmente pericolosi. Alcune classi di farmaci più frequentemente possono determinare reazioni avverse. Un attenta considerazione sulla prescrizione e una sorveglianza migliore potrebbero contenere gli eventi avversi.

 

Parole chiave: reazioni avverse a farmaci; anziani; farmaci.

 

Summary

 

            Adverse drug reactions (ADR) and drug interactions often occur in older people above all in those with many diseases and receiving more drugs at the same time. Iatrogenic pathology is a illness of high incidence in older patients and many of these events can be preventable: due to various changes that occur, the elderly are at increased risk of ADR and drug toxicity potentially resulting in serious complications. Some medications have a greater potential to cause harm. Attention in prescriptions of therapy and better surveillance can reduce ADR.

 

Key words: adverse drug reactions; elderly; drugs.

 

 

Introduzione

L’Agenzia francese di sicurezza sanitaria dei prodotti della salute (Afssaps) ha prodotto nel 2005 una documentazione sulla patologia da farmaci, problema di salute pubblica ritenuto molto attuale negli anziani.

La definizione di anziano comprende la popolazione oltre i 75 anni oppure oltre i 65 anni in presenza di polipatologia. Queste categorie sono particolarmente esposte al rischio di patologia da farmaci: nel 2001 in Francia le persone di età superiore a 65 anni costituivano il 16% della popolazione e consumavano il 39% dei farmaci prescritti nelle aree urbane (1).

Gli effetti indesiderati dei farmaci (ADR) sono due volte più frequenti in media dopo i 65 anni, e il 10-20% di questi effetti conduce alla ospedalizzazione. Le cifre sono verosimilmente sottostimate a causa della sottosegnalazione e della mancata identificazione di numerose reazioni avverse da farmaci. Inoltre il 30-60% degli effetti indesiderati da farmaci è prevedibile ed evitabile: si tratta spesso della conseguenza di errori terapeutici (indicazione errata, mancato rispetto delle controindicazioni, posologia elevata o durata eccessiva di trattamento), di una non corretta osservazione del trattamento o di una automedicazione inappropriata nei pazienti politrattati, anziani e “fragili”. Una causa farmacologica deve essere sempre sistematicamente sospettata di fronte a qualsiasi alterazione dello stato di salute di un anziano la cui spiegazione non appaia evidente; spesso i segni sono poco specifici e si riassumono in alterazione delle condizioni generali, cadute, perdita di autonomia, tendenza al clinostatismo (2, 3).

Tra le cause di ricovero in ospedale, in genere nel 2-5% dei casi vi è una ADR, fatale nel 2-12% dei casi, più frequentemente negli anziani.

Sempre uno studio francese condotto presso Limoges University Hospital ha evidenziato come nella maggior parte dei casi una prescrizione “inappropriata” sia alla base delle ADR. In genere la media dei farmaci somministrati è circa 7 ± 3 in pazienti con ADR, la cui prevalenza era 20,4% nel gruppo in cui le prescrizioni venivano considerate inappropriate ed era 16,4% nel gruppo in cui le prescrizioni venivano considerate appropriate. I farmaci più frequentemente in causa erano antidepressivi con azione anticolinergica, vasodilatatori cerebrali, benzodiazepine a lunga durata di azione e uso concomitante di due o più farmaci psicotropi della stessa classe (4).

 

La farmacovigilanza

            In Italia la cultura della farmacovigilanza ha trovato sempre difficoltà a svilupparsi ed è sempre stata considerata più un obbligo e un controllo burocratico piuttosto che una disciplina della ricerca medica e della farmacologia, per cui si assiste al fenomeno abituale della “sottosegnalazione” delle reazioni avverse ai farmaci (ADR): il numero degli eventi avversi è sicuramente superiore rispetto a quanto segnalato, e il numero delle segnalazioni, oltre che molto differente da regione a regione, è sicuramente inferiore rispetto a quanto avviene in altre nazioni.

            Le cause di sottosegnalazione sono molteplici, ma è ormai divenuta classica la definizione dei “sette peccati mortali” del medico in tema di farmacovigilanza identificati già nel 1986 da William Inman, fondatore del sistema inglese si segnalazione spontanea, come motivazioni personali del medico implicate nella decisione di non segnalare una ADR:

COMPLACENCY     erronea convinzione che vengono commercializzati soltanto farmaci sicuri

FEAR                         timore di essere coinvolti in cause legali

GUILT                         senso di colpa per aver causato danni al paziente a causa del trattamento prescritto

AMBITION                 desiderio di raccogliere e pubblicare una casistica personale

IGNORANCE            ignoranza delle procedure per la segnalazione e incapacità di riconoscere le reazioni avverse

DIFFIDENCE            timore di segnalare fenomeni già noti o solo sospettati

LETHARGY               insieme di tendenza a procrastinare la segnalazione, pigrizia, disinteresse, mancanza di tempo, indisponibilità del modulo di segnalazione, ecc.

Nel nostro paese le cause più importanti e gravi sono tuttavia correlate a carenze “culturali”: infatti né la formazione del medico né quella del farmacista prevedono l’insegnamento dei principi e delle problematiche connesse alla farmacovigilanza, il cui principio dovrebbe basarsi sul riconoscimento della patologia iatrogena, la quale richiede da parte del clinico una diagnosi differenziale e quindi un approccio fisiopatologico e clinico (5, 6).

 

Definizione di reazione avversa da farmaco (ADR)

            Viene definita dalla Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO) come ADR “qualsiasi reazione nociva non intenzionale determinata da un farmaco assunto alle dosi normalmente utilizzate per la profilassi, la diagnosi e la terapia, indipendentemente dal mancato raggiungimento dell’effetto farmacologico” (7, 8).

            Pertanto, in base alla definizione, devono essere esclusi:

-          i casi di sovradosaggio intenzionale (tentativi di suicidio) o accidentale (errori nella assunzione o nella somministrazione);

-          i casi di abuso

Vengono viceversa inclusi i casi di dipendenza.

 

Classificazione delle ADR

Le ADR dovute a somministrazione di farmaci si distinguono in due categorie:

-          tipo A: ADR qualitativamente normali, ma quantitativamente esagerate. In genere estensione della azione farmacologia della sostanza, quindi generalmente prevedibili e dose-dipendenti. Migliorano con la sospensione o la diminuzione della dose e peggiorano con l’aumento; rappresentano circa il 70% di tutte le reazioni avverse, ma sono raramente gravi o mortali;

-          tipo B: ADR di tipo “bizzarro”, qualitativamente anomale e non presentano ancora correlazione nota con l’azione farmacologia della sostanza sospettata, quindi praticamente imprevedibili; relativamente rare, ma spesso gravi o fatali; non sono dose dipendente, quindi scatenate anche da dosi bassissime di farmaco e richiedono sempre la sospensione della somministrazione (7).

E’ fondamentale tener presente che ogni evento nuovo che si verifica nella storia clinica del paziente potrebbe essere dovuto a una reazione avversa al farmaco, soprattutto nel paziente anziano, nel quale è caratteristica la presentazione atipica di qualunque forma morbosa e quindi anche della patologia iatrogena (8).

Le cause più comuni di ADR sono:

-          tossicità intrinseca del farmaco

-          dosaggio troppo alto, troppo frequente o eccessivamente prolungato

-          somministrazione contemporanea di più farmaci e interazione tra farmaci

-          difficoltà generiche di metabolizzazione

-          malnutrizione

-          erronea valutazione della sicurezza

-          pazienti anziani con alterazioni della farmacocinetica (assorbimento, distribuzione, metabolismo, eliminazione) e della farmacodinamica (alterazioni del numero e della sensibilità recettoriale).

Quando più di sei differenti farmaci vengono prescritti in un paziente ospedalizzato, la probabilità di una ADR è circa il 5%, ma se si somministrano più di 15 farmaci la probabilità è superiore al 20% (9).

            Dal punto di vista sintomatologico si possono distinguere:

  1. Manifestazioni cutanee farmaco-indotte, quali alopecia, eritema multiforme, eruzioni esantematiche, dermatite esfoliativa, eruzioni cutanee fisse, fotosensibilità, epidermolisi tossica;
  2. Manifestazioni ematologiche farmaco-indotte, quali anemia megaloblastica, anemia emolitica, anemia aplastica;
  3. Neutropenie farmaco-indotte, da analgesici, anticonvulsivanti, tireostatici, fenotiazine, antiaritmici;
  4. Trombocitopenie farmaco-indotte
  5. Effetti indesiderati della terapia trasfusionale, complicanti il 2% delle trasfusioni, per reazioni immunologiche e non immunologiche
  6. Patologia gastrointestinale farmaco-indotta, tipo lichen piano, lesioni LES like; danno epatico
  7. Patologia respiratoria farmaco-indotta, broncospasmo, tosse, congestione nasale, edema polmonare, ipertensione polmonare, infiltrati polmonari, patologia pleurica, embolia polmonare
  8. Patologia cardiaca farmaco-indotta
  9. Patologia renale farmaco-indotta
  10. Patologia neurologica farmaco-indotta
  11. Patologia psichiatrica farmaco-indotta
  12. Patologia muscolo-scheletrica farmaco-indotta
  13. ADR dovute a brusca sospensione di terapia
  14. Patologia neoplastica; interazione con fattori nutritivi; febbre; ADR dopo immunizzazione
  15. Patologia oculistica farmaco-indotta
  16. Effetti collaterali di radioterapia

 

Fattori di rischio di ADR nell’anziano

I principali fattori di rischio sono legati all’età, al contesto socio-ambientale, ad una non corretta utilizzazione dei farmaci o ai farmaci stessi.

1. Fattori di rischio legati all’età

            Conseguenze dell’invecchiamento sulla azione dei farmaci. Durante l’invecchiamento l’organismo subisce modifiche che possono avere ripercussioni sulla azione dei farmaci e sulla loro somministrazione. Considerando la farmacocinetica è quindi necessario considerare:

-          la riduzione della funzione renale (la più importante)

-          l’ipoprotidemia e l’emoconcentrazione nei pazienti malnutriti determinano un potenziale sovradosaggio dei farmaci legati alle proteine plasmatiche

-          la perdita osteomuscolare e l’incremento di tessuto adiposo con diversa distribuzione di massa grassa/massa magra e quindi modifica dei volumi di distribuzione; i farmaci lipofili hanno tendenza ad essere depositati e poi rilasciati

-          la modifica della barriera ematoencefalica può portare a maggiore sensibilità ai farmaci che agiscono sul SNC.

Considerando invece la farmacodinamica dei medicinali, l’invecchiamento potrebbe avere ripercussioni sulla loro attività, per cui si deve considerare:

-          l’invecchiamento cardiaco, specie la perdita del contingente di cellule nodali, può portare a una maggiore sensibilità ad alcuni farmaci (disturbi del ritmo, blocco di conduzione);

-          la fragilità ossea richiede di sorvegliare in particolare il rischio di ipotensione ortostatica da farmaci (cadute, fratture).

Le modificazioni fisiologiche sono inoltre aggravate da eventi acuti intercorrenti quali disidratazione, scompenso cardiaco e conseguente insufficienza renale, per cui anche farmaci assunti cronicamente possono essere all’origine di ADR acuta.

Conseguenze dell’invecchiamento sulla somministrazione dei farmaci. Tra i fattori in causa:

-          riduzione delle capacità fisiche;

-          difficoltà di comunicazione;

-          disturbi di deglutizione (rischio di ristagno di farmaci in bocca e in esofago);

-          riduzione della acuità visiva e acustica.

Vanno ricordati i disturbi cognitivi (memoria, comprensione).

2. Fattori di rischio sociali e ambientali.

      - Isolamento sociale o geografico

      - dipendenza

      - cambiamento dello stile di vita (trasloco, istituzionalizzazione)

      - condizioni climatiche estreme

3. Fattori di rischio dovuti ad uso scorretto dei farmaci

- prescrizione inadatta: obiettivi terapeutici inadatti al paziente, prescrizione non pertinente riguardo all’indicazione/scelta della classe farmacologia/della dose e/o della durata, interazioni farmacologiche, associazione di farmaci con effetti avversi simili, sorveglianza inadeguata, rivalutazione insufficiente del trattamento, farmaci inutili;

- informazione insufficiente del paziente e del suo entourage;

- automedicazione inappropriata;

- non corretta osservanza del trattamento.

4. Fattori di rischio legati ai farmaci

            Gli effetti indesiderati sono favoriti dalla polifarmacoterapia spesso in uso negli anziani. Al momento della commercializzazione di un farmaco, la valutazione del profilo di sicurezza negli anziani di solito riguarda solo gli effetti relativamente ridotti (7, 8, 10).

 

Effetti iatrogeni più frequenti

            In uno studio di Gandhi e collaboratori si è evidenziato come, nella pratica ambulatoriale, le ADR più frequenti erano nell’ordine rappresentate da:

-          inibitori del reuptake della serotonina;

-          beta-bloccanti;

-          ace-inibitori;

-          antinfiammatori non steroidei;

-          calcio-antagonisti;

-          penicillina;

-          corticosteroidi per uso orale;

-          analgesici non narcotici.

In particolare, mentre antidepressivi e antiipertensivi erano soprattutto implicati nella pratica clinica ambulatoriale, analgesici, antibiotici e sedativi lo erano nei pazienti ospedalizzati (11).

 

Farmaci anti-parkinson e valvulopatie

            Circa l’1% della popolazione con età superiore a 60 anni è affetta da malattia di Parkinson. Gli agenti dopaminergici sono farmaci di prima scelta in questa patologia. L’uso di pergolide o di cabergolina per la malattia di Parkinson o per la “rest less syndrome” è risultato associato ad un aumento significativo del rischio di insufficienza valvolare di nuova diagnosi rispetto a pazienti di pari età che non assumevano questi farmaci. Il rischio è particolarmente elevato nei pazienti che hanno assunto una dose quotidiana superiore a 3 mg e aumentava solo in quelli che avevano assunto l’uno o l’altro farmaco per più di sei mesi. Il rischio non aumentava per i pazienti in trattamento con altri derivati dopaminergici o comunque con preparati non derivati dall’ergotamina. I pazienti studiati con ecocardiografia dimostravano clinicamente insufficienza valvolare significativa in 6/13 casi (46%) dei pazienti in terapia con cabergolina e in 9/29 casi (31%) se in terapia con pergolide, ma solo in 6/49 (12%) dei soggetti di controllo comparabili per età non affetti da malattia di Parkinson. In questo studio nessun paziente trattato nei dodici mesi precedenti con bromocriptina o lisuride, dopaminergici di derivazione dall’ergotamina, o con ropinirolo o pramipexolo, dopaminergici non di derivazione dall’ergotamina, aveva presentato insufficienza valvolare di nuova diagnosi, ed inoltre la prevalenza di esposizione a questi farmaci e a carbergolina e pergolide era esattamente la stessa.

            La differente azione dei due gruppi di farmaci è spiegabile con la diversa azione sui recettori del sottotipo 2B della 5-idrossitriptamina espressi sulle valvole cardiache: pergolide e cabergolina sono potenti agonisti, mentre bromocriptina e lisuride sono antagonisti, e pramipexolo e ropinirolo hanno scarsa affinità per i recettori umani di 5-idrossitriptamina. L’attivazione di questi recettori induce comunque un effetto mitogeno prolungato sui miofibroblasti cardiaci che può causare fibrosi valvolare.

            Lo stesso studio non è capace di spiegare l’aumentato rischio di insufficienza valvolare nei pazienti in terapia con amantadina, sostanza che non attiva i recettori della 5-idrossitriptamina (12, 13).

            Le stesse osservazioni derivano da uno studio italiano pubblicato anch’esso sullo stesso recente numero del New England Journal of Medicine, in cui importante insufficienza valvolare si dimostrava nel 23,4% dei pazienti in terapia con pergolide e nel 28,6% di quelli in terapia con cabergolina, rispetto al 5,6% nei controlli e alla assenza di insufficienza valvolare in pazienti con altra terapia. Le anomalie valvolari erano simili a quelle osservate in pazienti in terapia con alcaloidi della ergotamina per cefalea (ergotamina e metisergide) o con sostanze anoressizzanti quali fenfluramina e dexfenfluramina. Lo studio conclude sulla necessità di valutare attentamente il rapporto costo/beneficio del trattamento con derivati dell’ergotamina (14).

 

L’ipotensione ortostatica e la sincope

            Il 30% degli episodi sincopali nell’anziano è causato da ipotensione ortostatica iatrogena. Spesso in questi casi è rilevabile la prescrizione di ipotensivi alfa-bloccanti come prima scelta di terapia anti-ipertensiva. Negli anziani, anche se non diabetici, ma soprattutto in questi ultimi per effetto della disautonomia, c’è una disregolazione dei recettori adrenergici che non rispondono alle variazioni posturali, per cui il blocco dei recettori alfa risulta in una mancata regolazione tensiva nelle variazioni posturali. Oltretutto questo è spesso causa di errore nella prescrizione terapeutica perché, se non si procede di routine alla misurazione della pressione arteriosa in clino e in ortostatismo, non si evidenzia il fenomeno e si prescrive erroneamente la terapia solo sulla base dei valori in clinostatismo e non su quelli in ortostatismo, che andrebbero considerati invece determinanti.

            Analogo problema con i betabloccanti, sia per l’eventuale induzione di ipotensione ortostatica sia per l’induzione di bradicardia eccessiva (15).

            In uno studio francese su pazienti ricoverati in ospedale per episodi sincopali o presincopali, l’età media era 78 anni, con una prevalenza di soggetti di sesso femminile (69%). Inoltre il 96% dei pazienti aveva già avuto precedenti cardiovascolari, il 50% precedenti episodi sincopali o presincopali. Nel 79% dei casi la ADR consisteva in un episodio di ipotensione, clinicamente evidente nella maggior parte dei casi e in altri rilevata da un tilt-test; altre ADR erano aritmie e disturbi metabolici. I farmaci coinvolti erano nel 66% dei casi di tipo cardiovascolare, tra cui ACE inibitori e diuretici in associazione nel 59%, poi alfa1-litici uro-selettivi nel 12%, sostanze psicotrope nel 22% (16).

 

Gli antiipertensivi

            La disfunzione renale che si accompagna alla terapia antipertensiva è spesso il risultato della riduzione della pressione ed è indipendente dal farmaco usato. Tuttavia ACE-inibitori e inibitori dei recettori dell’angiotensina sono più comunemente associati a queste complicanze se al declino della pressione intraglomerulare come effetto della riduzione della pressione arteriosa si somma l’effetto vasodilatatore del lato efferente della circolazione glomerulare; la riduzione della pressione intraglomerulare e la riduzione della proteinuria sono i meccanismi che rendono conto delle proprietà protettive di questi farmaci. Le condizioni in cui si ha severa riduzione delle funzione renale con l’uso di ACE-inibitori sono la stenosi della arteria renale, la malattia renale policistica, la riduzione assoluta del volume arterioso effettivo, l’uso contemporaneo di tacrolimus e di ciclosporina, la sepsi. Nei pazienti anziani soprattutto la riduzione assoluta del volume intravascolare per effetto di perdite gastroenteriche, terapie diuretiche aggressive o riduzione dell’introito di liquidi, oppure la riduzione effettiva del volume dovuta a scompenso cardiaco congestizio costituiscono causa di disfunzione renale. La somministrazione contemporanea di FANS, ciclosporina o la presenza di sepsi determina vasocostrizione: la vasodilatazione determinata dagli ACE-inibitori sulla arteriola efferente in presenza di ridotta pressione di perfusione rende contro del declino della funzione renale in queste situazioni. Nella pratica clinica molte di queste situazioni sono presenti contemporaneamente; ad esempio una donna anziana con funzione renale di base normale, pressione arteriosa ben controllata che assume ACE-inibitori e FANS contemporaneamente per dolori articolari e introduce pochi liquidi, presenta una polmonite acquisita in comunità e un rialzo della creatinina: l’atteggiamento terapeutico giusto è la sospensione della terapia ipotensiva e dei FANS, la reintegrazione dei liquidi extracellulari, la ripresa della terapia solo dopo risoluzione delle complicanze.

            Gli inibitori dei recettori della angiotensina causano disfunzione renale con lo stesso meccanismo degli ACE, ma meno frequentemente. Causano vasodilatazione per blocco dei recettori tipo I della angiotensina 2, localizzati sulla arteria efferente; il blocco è associato a più alti livelli di angiotensina II che determina stimolo dei recettori della angiotensina II localizzati soprattutto sul lato afferente del circolo glomerulare. Lo stimolo dei recettori AT2 causa vasodilatazione.

            I diuretici tiazidici a bassa dose in associazione ad ACE-inibitori usualmente non determinano cambiamenti della funzione renale. I diuretici dell’ansa viceversa in combinazione con ACE-inibitori  possono causare iperazotemia se il grado di diuresi eccede la mobilizzazione degli edemi e la volemia diminuisce. Si dovrebbe minimizzare questa complicazione adattando la dose di diuretico in modo da non avere un calo ponderale superiore a 1 kg al giorno. Nell’anziano è ovviamente d’obbligo maggiore cautela.

            I calcio-antagonisti hanno effetto vasodilatatore sulla arteriosa afferente, per cui meno frequentemente riducono la filtrazione glomerulare quando la pressione arteriosa si riduce. Anche se è utile il mantenimento della filtrazione glomerulare, la vasodilatazione sui vasi afferenti in un rene con minori capacità di autoregolazione può permettere alla pressione sistemica di trasmettere più facilmente nella circolazione glomerulare e accelerare a lungo termine la perdita di funzione renale. Anche se tutti i calcio-antagonisti possono avere effetto vasodilatatore sui vasi afferenti, l’effetto sulla autoregolazione è minore con i calcio-antagonisti non diidropiridinici, i quali anzi possono avere un effetto benefico sulla funzione renale, specie in associazione ad ACE-inibitori.

            Un effetto secondario dell’uso di ACE-inibitori o inibitori dei recettori dell’angiotensina in pazienti con insufficienza renale è l’iperpotassiemia. Questo non dovrebbe limitare l’uso di questi farmaci nell’insufficienza renale, perché anzi sono più utili proprio nella insufficienza renale di grado avanzato per ridurne l’ulteriore progressione. E’ necessario un attento monitoraggio, è possibile ridurre i dosaggi o sospendere temporaneamente farmaci che interferiscono con la secrezione del potassio, prescrivere una dieta a basso contenuto di potassio, usare diuretici, sodio bicarbonato in caso di acidosi metabolica, ridurre il dosaggio degli ipotensivi (17, 18).

 

L’iponatremia e i disordini neurologici

            E’ il disturbo elettrolitico più frequente negli anziani, spesso in conseguenza di terapie diuretiche protratte, condotte senza controllo dei valori plasmatici, spesso molto subdola, perché i disturbi cognitivi, lo stato confusionale fino alla letargia spesso vengono attribuiti a problematiche vascolari cerebrali. E’ molto frequente nel post-operatorio, soprattutto quando si somministrano soluzioni isotoniche di destrosio, con il risultato di danno cerebrale fino alla morte. Il trattamento è oltretutto incerto, poiché la rapida correzione può indurre mielinolisi, mentre la correzione troppo lenta può far precipitare l’edema cerebrale. L’iponatremia acuta, non presente 48 h prima, è considerata una emergenza medica che deve essere trattata rapidamente per riportare la sodiemia a valori di 130 mmol/lt; nelle situazioni croniche, presenti da più di 48 h e in cui non c’è edema cerebrale, la correzione deve essere effettuata con cautela. Il trattamento è costituito da soluzioni saline iso o ipertoniche, uso di diuretici dell’ansa o restrizione della introduzione dei liquidi a seconda della causa e della severità (19).

            Disordini neurologici iatrogeni negli anziani sono spesso dovuti ad assunzione di flunarizina e cinnarizina, farmaci usati come antivertiginosi, che inducono parkinsonismo secondario, così come la metoclopramide, la sulpiride. Spesso inoltre questi farmaci possono indurre disturbi della memoria (20, 21).

 

Un caso clinico

            Donna di 87 anni, parzialmente autosufficiente, con deficit cognitivo di grado moderato-severo, precedenti cerebrovascolari incerti, affetta da fibrillazione atriale cronica da molti anni, per cui assume digossina 0,125 mg per 5 gg a settimana, furosemide 25 mg, perindopril 2 mg, spironolattone 25 mg, warfarin secondo piano terapeutico; inoltre presenta ipertiroidismo in terapia con tiamazolo 5 mg. I familiari garantiscono buona compliance nella assunzione della terapia. Nell’ultimo periodo astenia, inappetenza, ipoalimentazione. Accede in PS per ematemesi e melena. In PS viene riferita una caduta circa 15 gg prima: in assenza di presenti al fatto, la paziente viene trovata in terra con alcune lievi contusioni. Obiettivamente ipotesa (PA 90/70 mmHg), bradicardia (ritmo da FA 50 m’), subittero; alla EGDS duplice ulcera gastrica sovracardiale e duodenite erosiva. Dagli esami di laboratorio si evidenzia anemia ipocromica normocitica, INR 4,58, elevata digossinemia e iperkaliemia, deficit della funzione renale, ipoalbuminemia. Viene trasfusa e trattata con vit. K, ranitidina, antibiotici (piperacillina/tazobactam), idratata con 1200 ml/dì, frammenti anticorpali specifici per digossina: il quadro migliora con normalizzazione degli elettroliti, della funzione renale e della frequenza cardiaca. Persiste melena, compare macroematuria, per cui viene ulteriormente trasfusa. Al quinto giorno compare delirium, in assenza di somministrazione di farmaci attivi sul SNC. Per il subittero e per CA 125 elevato si esegue ecografia addome e pelvi con riscontro di epatomegalia, dilatazione delle vene sovraepatiche da stasi, pelvi indenne. Il quadro sembra migliorare, viene proposto un controllo di EGDS rifiutato dai familiari; una TAC encefalo documenta encefalopatia multinfartuale. Aumenta il D-dimero in assenza di segni di trombosi venosa periferica, viene iniziata terapia con eparina a basso peso molecolare a dosaggio profilattico (4.000 UI/die), il D-dimero scende. Le condizioni migliorano progressivamente e dopo 19 giorni di degenza la paziente rientra al domicilio con prescrizione di furosemide 25 mg tre volte al dì, eparina a basso peso molecolare 4.000 UI al dì, tiamazolo 5 mg, lansoprazolo 30 mg.

            Epicrisi: il warfarin ha una emivita intorno alle 40 h, si lega per il 98% alle proteine circolanti, per cui la frazione libera è normalmente molto bassa: la paziente ha una ipoalbuminemia e un fegato da stasi e si complica con insufficienza renale, per cui la metabolizzazione del warfarin è ridotta e l’effetto potenziato dal tiamazolo (22, 23).

 

Conclusioni

            Purtroppo il ricorso ai farmaci, già assai diffuso nelle diverse età della vita, diventa critico in vecchiaia; ad una certa età ci si ammala di più, ma dietro questo bisogno della cura a tutti i costi non c’è solo la mancata elaborazione di un processo morboso, esiste la convinzione che non ci siano limiti per la medicina moderna, affetta com’è da trionfalismo e che pertanto sia praticamente impossibile non trovare la terapia “giusta” in ogni situazione. Questo fenomeno ha sottoposto a diverse pressioni il SSN e la distribuzione gratuita di molti farmaci, ma ha reso solo più complicata la situazione, avendo garantito una più facile accessibilità al farmaco. Probabilmente la maggior parte degli anziani non è così avida di farmaci quanto lo sono i figli e i conoscenti dei pazienti, che li vogliono “sani a tutti i costi”, non economici si intende!

            Né va dimenticato che una attenta sorveglianza andrebbe effettuata anche sulla aderenza del paziente alla terapia, già normalmente difficile, spesso ridotta nell’anziano per disattenzione, dimenticanza ma anche per la tendenza alla automedicazione o alla autosospensione della terapia, senza interpellare il parere del medico (24, 25).

            Il medico dal canto suo a volte prescrive anche con l’idea di aver fatto qualcosa di utile al paziente, anestetizzando talvolta un’ansia che è più sua che del malato: “questo farmaco a chi serve veramente, a me medico, per tacitare la coscienza, o al malato?”

            Già negli anni ’80 Hollister sosteneva: “L’uso più o meno ampio di medicine nell’età avanzata dipende da quanto il medico è consapevole delle differenze che caratterizzano l’azione dei farmaci nell’anziano rispetto al giovane. E’ difficile commettere errori se i farmaci sono prescritti con cautela, se i pazienti e chiunque somministri loro i farmaci comprendono bene il loro uso e se il numero di sostanze prescritte viene tenuto in ogni momento il più basso possibile” (10). E comunque va sempre ricordato che il singolo individuo può rispondere in modo assolutamente diverso rispetto ad una normalità semplicemente statistica: le caratteristiche genetiche di ciascuno rispondono di una variabilità che va dal 20 al 95% degli effetti del farmaco. Le differenze interindividuali nella risposta ai farmaci sono dovute a varianti genetiche delle sequenze che codificano gli enzimi che metabolizzano, trasportano e legano i farmaci (26).

            In sintesi, come affermava Ippocrate, “Primum non nocere”!                      


 

Bibliografia

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