“STEATOSI EPATICA E IPERTENSIONE ARTERIOSA”
Dott.ssa Laura Gasbarrone
Direttore U.O.C. Medicina Interna 5
Az. Osp. San Camillo Forlanini - Roma
Riassunto
La steatosi epatica non alcolica è condizione presente nel 10-15% della popolazione adulta; l’ipertensione arteriosa è invece molto più diffusa, e la sua prevalenza aumenta con l’aumentare dell’età. Mentre la prima rappresenta forse ancora una patologia per molti aspetti tutta da scoprire, per la seconda sappiamo sicuramente che costituisce un fattore di rischio cardiovascolare importante. La steatosi epatica è strettamente correlata a molti dei fattori di rischio cardiovascolare, dislipidemia, diabete, obesità, iperinsulinemia e insulino resistenza, che caratterizzano anche la sindrome metabolica; in effetti si è osservata a 10 anni incidenza maggiore di eventi cardiovascolari in pazienti con steatosi epatica. Si è altresì dimostrato che in questi pazienti vi è una condizione di infiammazione cronica e una disfunzione endoteliale, determinate dallo sbilanciamento tra fattori di vasocostrizione e vasodilatazione, eventi comuni alle problematiche cardiovascolari connesse anche all’ipertensione arteriosa.
Parole chiave: steatosi epatica; sindrome metabolica; ipertensione arteriosa.
Summary
Non alcoholic fatty liver disease (NAFLD) occours in 10-15% of general adult population; hypertension is much more widespread and his prevalence raise with aging. Knowledge of NAFLD is still lacking, while hypertension is an important cardiovascular risk factor. NAFLD is strongly associated with many of cardiovascular disease such as hyperlipidemia, diabetes, obesity, hyperinsulin, insulin resistance, and these features are present also in the metabolic syndrome; the 10-year probability of cardiovascular events was increased in subjects with NAFLD. It has been found a chronic inflammatory condition and endothelial dysfunction in these patients, derived from impaired release of relaxation and vasoconstrictor factors, also frequent in cardiovascular complications of hypertension.
Key words: fatty liver; metabolic syndrome; hypertension.
Forse può sembrare apparentemente strano parlare di steatosi epatica e di ipertensione arteriosa, la prima essenzialmente una patologia d’organo, la seconda una condizione di rischio cardiovascolare con possibilità di compromissione multi organo. Oltretutto, mentre la prima rappresenta ancora oggi una patologia forse ancora tutta da scoprire, o come da qualcuno è stato affermato una “malattia in cerca di identità”, della seconda sappiamo molto di più, anche se sempre nuovi tasselli vengono aggiunti al mosaico della eziologia multifattoriale dell’ipertensione arteriosa. La steatosi epatica si stima colpisca circa il 10-15 % della popolazione adulta, il 30% negli Stati Uniti; l’ipertensione arteriosa è una condizione molto più diffusa nella popolazione generale, soprattutto se si tiene conto dei cosiddetti limiti di normalità della pressione e del recente concetto di “pre-ipertensione”, secondo il quale l’attesa per la manifestazione clinica di questa condizione nel corso della vita è piuttosto alta. Nell’ambito di questo simposio sugli aspetti clinici della steatosi epatica, ci è sembrato quindi interessante proporre alcuni spunti di riflessione su alcune recenti acquisizioni.
La steatosi epatica è strettamente correlata a molti dei fattori predittivi di malattia cardiovascolare, quali l’ipercolesterolemia, l’ipertrigliceridemia, la resistenza all’insulina, l’obesità di tipo centrale e la sindrome metabolica. Date queste premesse, ci si potrebbe aspettare che i pazienti affetti da steatosi epatica presentino un alto rischio di malattia coronarica (1).
Recentemente è stato riportato che il rischio a 10 anni di eventi coronarici in 52 pazienti con steatosi epatica e con sindrome metabolica, a cui venivano applicati i criteri del Framingham Risk Score, una scala che prende in considerazione età, colesterolemia, pressione arteriosa, diabete e abitudine al fumo, era superiore a quello dei pazienti con sola steatosi. Inoltre nella steatosi si dimostrava una risposta vasodilatatoria ridotta in presenza di ischemia brachiale, espressione di disfunzione endoteliale. I soggetti con aumento dei livelli di ALT avevano anche più elevati valori di colesterolemia totale, più bassi livelli di HDL colesterolo, più elevata pressione sistolica e diastolica ed erano più spesso diabetici rispetto ai soggetti con normali livelli di ALT. In pratica il rischio cardiovascolare stimato a 10 anni in un uomo di 50 anni era 10.8% se ALT era normale e 13.6% se ALT era elevata, mentre in donne di pari età era rispettivamente 5.9% e 12.1%; il rischio era inoltre correlato ai valori di ALT, il cui valore soglia associato all’aumento del rischio cardiovascolare era più alto negli uomini, > 43 IU/L, che nelle donne, > 30 IU/L (1).
I principali fattori responsabili dell’aumento di rischio cardiovascolare nella steatosi sembrano essere la colesterolemia, la pressione diastolica, il diabete, il basso valore di HDL colesterolo. Sarebbe interessante speculare se gli stessi fattori ritenuti causa di steatosi, insulino resistenza, obesità, distribuzione del grasso di tipo centrale, siano i responsabili dell’aumento del rischio cardiovascolare. E’ da notare che i soggetti con epatite virale o epatopatia etanolica non obesi non presentano aumento del rischio, per cui è verosimile che negli altri pazienti un aumento di ALT non correlato a malattia virale o ad alcool non possa essere attribuito a necrosi epatica infiammatoria. Si è sempre saputo d’altra parte che nelle epatopatie virali o etanoliche l’aumento della ALT era associato a ridotto rischio cardiovascolare, e infatti l’aterosclerosi è patologia rara nelle malattie epatiche avanzate e la mortalità diabete correlata è bassa (Ioannou). Viceversa nei pazienti con steatosi epatica non alcolica si riscontra aterosclerosi carotidea precoce, correlata ad anomala distribuzione del grasso corporeo e al dismetabolismo lipidico (2).
Anche altri studi hanno valutato i fattori di rischio cardiovascolare in soggetti con steatosi epatica non alcoolica, dimostrando la presenza di disfunzione endoteliale nella maggior parte di soggetti con steatosi, che tale disfunzione era simile a quella riscontrata in soggetti con sindrome metabolica e che la probabilità di eventi cardiovascolari a 10 anni era incrementata. La disfunzione endoteliale è stata studiata mediante la vasodilatazione in risposta al flusso vascolare, metodologia standardizzata per evidenziare l’aterosclerosi precoce. E’ noto come la vasodilatazione arteriosa endotelio dipendente sia alterata in molte condizioni patologiche quali l’ipercolesterolemia, l’aterosclerosi e l’ipertensione. Studi in vitro ed in vivo hanno dimostrato l’associazione tra disfunzione endoteliale e ridotto rilascio da parte dell’endotelio di sostanze come il fattore di rilasciamento endoteliale (EDRF) e la prostaciclina, che hanno proprietà anti aterogene e che sono responsabili della regolazione del tono vascolare, e un altro non ancora ben identificato fattore iperpolarizzante (EDHF), che rappresenterebbe un meccanismo vasodilatante di compenso alla ridotta disponibilità di NO. La vasodilatazione endotelio dipendente di norma si verifica in risposta ad aumento dello stress di parete, lo “shear stress”, che stimola l’endotelio a rilasciare EDRF con conseguente dilatazione arteriosa. L’ossido nitrico è in genere rilasciato in conseguenza di un aumento dello shear stress endoteliale, si diffonde attraverso lo spazio extracellulare nelle cellule muscolari lisce e attraverso altri mediatori (chinasi c-GMP ciclico dipendente) riduce l’attivazione del calcio disponibile per la contrazione. Quindi l’ossido nitrico rilascia la muscolatura liscia che così modula le resistenze vascolari sistemiche, la pressione arteriosa e il tono vascolare basale nelle coronarie, nei polmoni e nella circolazione periferica, bilanciando l’equilibrio con i fattori vasocostrittori prodotti ugualmente dall’endotelio, endotelina 1 e angiotensina II (3).
Viceversa la vasodilatazione endotelio indipendente è costituita dalla risposta diretta della muscolatura allo stimolo vasodilatatore; quest’ultimo meccanismo nella steatosi epatica non risulta essere alterato.
Nell’aterosclerosi ci sono alterazioni sia strutturali sia funzionali. C’è ipertrofia della media vascolare, aumento di spessore dell’intima e deposito di esteri del colesterolo; queste alterazioni anatomico-strutturali rendono ragione delle alterazioni funzionali, cioè della disfunzione endoteliale presente; in particolare vi è un impedimento anatomico alla diffusione di sostanze gassose, come l’ossido nitrico, nel raggiungere la media e determinarne il rilasciamento. Inoltre vi è anche riduzione di produzione, rilascio e attività dell’ossido nitrico, la cui emivita sembra essere altresì ridotta. La disfunzione endoteliale è precoce ed è sistemica (3).
La steatosi epatica non alcoolica è quindi associata a molti aspetti della sindrome metabolica. Quest’ultima viene definita da aumento del grasso addominale, dislipidemia, iperglicemia, ipertensione e alterazioni metaboliche comprendenti aumento delle citochine pro infiammatorie e delle molecole di adesione. Queste ultime caratteristiche sono molto importanti nello sviluppo della disfunzione endoteliale e dell’ateroma. Pertanto il riscontro di alterazione dei meccanismi di vasodilatazione nella steatosi non sorprende; inoltre il riscontro dell’aumentata probabilità a 10 anni di eventi cardiovascolari che possono precedere il peso della insufficienza epatica, fa ritenere che la steatosi dovrebbe essere trattata a più livelli: non dovrebbe essere preso in considerazione solo il trattamento della malattia epatica, ma anche il trattamento aggressivo dei fattori di rischio aterosclerotico, poiché molti dei pazienti con steatosi presentano nel corso della storia naturale della malattia eventi cardiovascolari maggiori e morte prima della comparsa della insufficienza epatica terminale (4, 5).
In questi pazienti soprattutto due aspetti metabolici andrebbero presi in considerazione in modo aggressivo: in primo luogo il controllo della glicemia, importante quanto il controllo della dislipidemia se non superiore nel migliorare la funzione vasomotoria endoteliale in pazienti obesi e con sindrome metabolica; in secondo luogo il controllo della colesterolemia, la cui quota LDL dovrebbe essere inferiore a 70 mg/dl. Quest’ultimo aspetto è sicuramente problematico poiché implicherebbe una terapia ipolipidica aggressiva, il cui potenziale effetto aggravante nei confronti della malattia epatica va comunque tenuto in considerazione, anche se meno grave rispetto a quanto ritenuto in passato (6).
Recentemente si è dato rilievo agli aspetti infiammatori della steatosi epatica. In realtà il 15-20% della popolazione generale presenta steatosi non alcoolica, ma il 15-20% di questi, quindi il 3-4% della popolazione generale, presenta steaotoepatite non alcolica. In presenza di altri fattori di rischio questa incidenza è più alta, tanto che quasi il 70% degli obesi ha una qualche forma di danno epatico legato alla steatosi. L’aspetto che si è cercato di indagare è quello della infiammazione e della evoluzione verso la fibrosi e della funzione endocrina del tessuto adiposo. In questo senso l’obesità viscerale (centrale) mediante il rilascio di mediatori ormonali nella circolazione portale prima che nella circolazione sistemica, svolge un ruolo importante nello sviluppo della steatosi. Le adipochine, molecole espresse prevalentemente a livello degli adipociti, quali leptina, resistita, adiponectina, sono di particolare interesse nella patogenesi della stetaosi epatica: i loro livelli sono alterati nei pazienti con sindrome metabolica. La leptina è aumentata nel tentativo di compensare l’aumento della massa adiposa, l’adiponectina aumenta la sensibilità all’insulina, la resistina, considerata antagonista dell’adiponectina, aumentata anch’essa. In particolare la leptina avrebbe un effetto pro-infiammatorio attraverso l’induzione di altre citochine pro-infiammatorie e faciliterebbe il processo fibrogenetico per induzione del vascular endothelial growth factor e dell’angiopoeitin-1. Gli Autori concludono affermando che la steatosi epatica non alcolica è l’espressione epatica della sindrome metabolica (7, 8).
Un altro anello aggiunto di recente alla steatosi epatica è costituito dalla iperinsulinemia e dalla insulino resistenza. Indipendentemente da indice di massa corporea, da distribuzione del grasso e da tolleranza glucidica queste due caratteristiche sono spesso associate alla steatosi, tanto da far ritenere la steatosi un altro aspetto della sindrome metabolica, essendo la ridotta sensibilità all’insulina il fattore comune. In pazienti con steatosi epatica lo studio della prevalenza di ipertensione e diabete, del profilo glucosio/insulina, del profilo lipidico e della leptina serica ha dimostrato correlazione tra insulina e leptina, entrambe le quali correlavano con BMI, la massa grassa e la percentuale di grasso corporeo, per cui si concludeva per una stretta associazione tra steatosi e aspetti della sindrome metabolica, suggerendo una simultanea insulino resistenza e diminuzione di sensibilità alla leptina. L’insulina, indipendentemente dai suoi effetti sulla pressione e sui lipidi plasmatici, è notoriamente aterogena, aumentando il trasporto di colesterolo nelle cellule muscolari lisce vasali e aumentando la sintesi endogena dei lipidi da parte di queste cellule. L’insulina inoltre stimola la proliferazione delle cellule muscolari lisce delle arterie, aumenta la sintesi di collagene nelle parete vasale, aumenta la formazione della placca lipidica e ne riduce la regressione, stimola la produzione di numerosi fattori di crescita. L’insulino resistenza è quindi condizione che presenta stretta associazione con disordini metabolici quali il diabete non insulino dipendente, l’obesità, l’ipertensione, la dislipidemia e la malattia cardiovascolare aterosclerotica. Questa stretta correlazione tra steatosi epatica e gli aspetti della sindrome metabolica e l’associazione con l’insulino resistenza dovrebbero suggerire che pazienti con steatosi epatica possano presentare rischio aumentato di malattia cardiovascolare aterosclerotica. In conclusione la steatosi potrebbe essere considerata una delle componenti della sindrome metabolica, indipendente dall’obesità. Inoltre, poiché la sindrome metabolica e l’insulino resistenza sono notoriamente associate alla malattia coronaria e a morbilità e mortalità cardiovascolari, se la steatosi costituisce un marker indipendente per la sindrome metabolica, questi pazienti sono a rischio non solo di sviluppare cirrosi e malattia epatica terminale o carcinoma epatocellulare ma hanno anche morbilità e mortalità cardiovascolari aumentate (9,10).
La sindrome metabolica è stata recentemente definita anche come una condizione di infiammazione cardiovascolare cronica. Il processo aterosclerotico è regolato dai meccanismi dell’infiammazione, coinvolti nella modulazione della insulino-resistenza, che ha un ruolo chiave nella patogenesi della sindrome metabolica. L’interazione tra i componenti del fenotipo clinico della sindrome metabolica e il fenotipo biologico, quali insulino resistenza, dislipidemia, etc, contribuiscono alla sviluppo di uno stato pro-infiammatorio caratterizzato da aumento dello stress ossidativo, ovvero di lipoproteine ossidate, e da infiammazione vascolare subclinica, documentata da un aumento della PCR in questi pazienti. Lo stato di infiammazione subclinico è peculiare della sindrome metabolica e modula il processo aterosclerotico in differenti stadi determinando disfunzione endoteliale con aumento di espressione delle molecole di adesione, aumento del reclutamento dei monociti nelle pareti delle arterie in una fase iniziale del processo aterosclerotico e poi formazione di una placca aterosclerotica instabile, ricca di cellule infiammatorie, e che rappresenta la lesione fondamentale nella maggior parte degli eventi coronarici e cerebrovascolari osservati in pazienti con sindrome metabolica (11).
D’altra parte che il diabete costituisca un fattore di rischio cardiovascolare è noto; la prevalenza di eventi cardiovascolari sembra aumentare nei pazienti che presentano anche steatosi epatica non alcolica, i quali presentano anche una maggiore prevalenza di sindrome metabolica rispetto a pazienti senza steatosi (12).
In contrasto con l’associazione tra steatosi epatica e sindrome metabolica, con tutte le implicazioni descritte, sembra che il riscontro di steatosi negli ottuagenari sia una condizione abbastanza comune, con prevalenza superiore a quella della popolazione generale, del tutto benigna, non associata a sindrome metabolica né verosimilmente ad aumento del rischio di eventi cardiovascolari, la cui insorgenza è presumibilmente correlabile solo all’età (13).
In una popolazione di soggetti ipertesi non obesi e non diabetici e con normali valori di transaminasi si è potuta dimostrare una maggiore prevalenza di steatosi, 30,9%, rispetto alla popolazione di controllo, 12,7%; i livelli di insulinemia e l’insulino resistenza erano significativamente superiori, così come la colesterolemia dimostrava un trend verso i valori più alti. Inoltre nella stessa popolazione di ipertesi si dimostravano molti degli aspetti della sindrome metabolica, quali iperinsulinemia, iperglicemia e insulino resistenza e ipercolesterolemia. L’associazione tra ipertensione arteriosa e steatosi epatica è mediata dall’insulino resistenza, e probabilmente l’insulino resistenza è responsabile non solo dell’accumulo di lipidi nel fegato ma anche della infiammazione e della necrosi epatocellulari, così come accade nella patogenesi della steatoepatite non alcolica.
Potrebbe essere possibile che soggetti con steatosi epatica ed enzimi epatici ai limiti superiori della norma possano essere affetti da una condizione di steatoepatite di media entità. Alla luce di queste osservazioni si potrebbe ipotizzare che soggetti apparentemente sani con riscontro occasionale di steatosi epatica debbano essere controllati e monitorizzati poiché predisposti allo sviluppo di ipertensione arteriosa (14,15).
Un ultimo aspetto non va trascurato, dopo la raccomandazione di contenere il rischio cardiovascolare globale, controllare la sindrome metabolica e gli aspetti della steatosi epatica non alcolica. L’ipertensione arteriosa, che come abbiamo visto si associa a tutte queste condizioni, deve essere trattata per evitare le complicanze d’organo e sistemiche, ma non va dimenticato che, a complicare la situazione, molti farmaci possono essere responsabili di danno epatico a diversa eziologia in soggetti con suscettibilità genetica, determinando comunque a volte solo aumento transitorio e asintomatico delle transaminasi. Tra questi proprio alcuni farmaci ipotensivi, quali lisinopril, losartan, captopril, enalapril, verapamil, irbesartan (16).
Ancora, nei pazienti ipertesi che presentano disglicemia, quindi circa il 15-20% di tutti gli ipertesi, beta bloccanti e diuretici tiazidici sembrano aggravare l’iperglicemia in modo più consistente rispetto alle categorie di farmaci anti ipertensivi più recenti, alcune delle quali, come gli ACE inibitori e gli antagonisti dei recettori dell’angiotensina II, avrebbero invece addirittura un effetto protettivo a causa dei loro effetti anti infiammatori. In sostanza il necessario controllo dell’ipertensione potrebbe non essere scevro dall’aggiunta di ulteriori fattori di rischio cardiovascolare; quindi corre l’obbligo di scegliere con accuratezza la terapia ipotensiva più appropriata. Ulteriori recenti osservazioni indicherebbero come il farmaco ottimale nei pazienti ipertesi con sindrome metabolica tra gli inibitori dei recettori per l’angiotensina II il telmisartan, il quale attiverebbe il peroxisome proliferator-activated receptor (PPAR)-g, che ha un ruolo chiave nel controllo delle alterazioni della glicemia e dei lipidi nella sindrome metabolica. L’attivazione di PPAR-g ad opera di telmisartan causa attivazione della espressione dei geni che regolano il metabolismo glucidico e lipidico, al pari di pioglitazone e rosiglitazone ma senza ritenzione idrica e edemi da questi ultimi causati (17, 18).
In conclusione, quale può essere l’evento patogenetico iniziale? La disfunzione del fegato può stimolare lo sviluppo della sindrome metabolica e della dislipidemia, oppure la dislipidemia e la sindrome metabolica sono i precursori che iniziano e promuovono la disfunzione epatica? Chi viene prima e chi viene dopo tra l’alterato metabolismo lipidico, l’alterato metabolismo glucidico, l’alterata funzione epatica? E, cosa ancora più importante, qual è il fattore terminale? In ogni caso al momento è necessario trattare aggressivamente tutte e tre queste componenti (6).
La risposta più verosimile è che non vi sia un unico meccanismo iniziale, ma che questo possa essere molteplice e rappresentato da uno o più delle caratteristiche della sindrome metabolica, purché passi attraverso un evento comune rappresentato dall’infiammazione e dalla disfunzione endoteliale, quest’ultimo vero artefice del danno sistemico e d’organo.
In conclusione il concetto di “continuum” cardiovascolare può essere a pieno diritto applicato alla sindrome metabolica e alla steatosi epatica, intendendo che ogni componente aggiuntiva del rischio cardiovascolare ne aumenta in modo più o meno lineare l’entità.
BIBLIOGRAFIA