Simposio: “La chirurgia oncologica di frontiera”
Moderatore: Dott.Giuseppe Maria ETTORRE
Moderatore: Prof. Eugenio Santoro
LA CHIRURGIA EPATICA
G.M.Ettorre, R. Santoro, G. Vennarecci, P. Lepiane, A. Laurenzi, L. Colace, M. Colasanti, E. Moroni, A. Di Cintio, M. Antonini, M. Burocchi, Em. Santoro,
La chirurgia epatica affonda le sue radici in un passato non molto distante, nel 1952 infatti Lortat-Jacob descrive la prima epatectomia destra per un tumore maligno secondario del fegato. Tale intervento fu realizzato mediante una toracofrenolaparotomia e con il clampaggio vascolare al fine di cercare di ridurre le già importanti perdite ematiche.
L’evoluzione di questa disciplina continuò però a progredire nel corso degli anni; nel 1990 il Professor Manfredi riportò la sua casistica personale di 176 resezioni epatiche realizzate tra il 1960 ed il 1990 con un tasso di mortalità che si ridusse progressivamente nel tempo da un 27,3% all’inizio dell’attività fino a raggiungere l’8,3% nel 19901.
Un’ulteriore spinta alla progressione della chirurgia epatica si deve alla divisione anatomica del fegato, in base a criteri vascolari, proposta da Claude Coinaud nel 1957. Tale divisione ha permesso infatti una migliore conoscenza dell’organo e della sua suddivisione interna, al fine di migliorare le indicazioni e le tipologie di resezioni chirurgiche.
La chirurgia epatica, in ambito oncologico, trova oggi giorno applicazione per l’asportazione di tumori primitivi del fegato come gli epatocarcinomi (HCC) e i colangiocarcinomi o per l’asportazione di tumori secondari del fegato, che vengono a loro volta suddivisi in tumori metastatici di origine colo-rettale e non colo-rettale.
L’approccio ai pazienti affetti da tumori primitivi del fegato, in particolare a quelli affetti da epatocarcinoma con cirrosi epatica sottostante, richiede un approccio multidisciplinare in cui le figure del chirurgo, dell’epatologo, del radiologo e dell’anestesista si confrontano giornalmente al fine di inquadrare da un punto di vista clinico-diagnostico il paziente e la sua malattia. L’attenta valutazione pre-operatoria di un malato affetto da cirrosi epatica è essenziale al fine di valutare l’entità della resezione che questi potrà sopportare e di ridurre i tassi di mortalità e morbidità al minimo.
L’ausilio delle moderne tecniche di radiologia endovascolare, quali ad esempio l’embolizzazione portale, ha inoltre permesso di aumentare il volume del fegato residuo e quindi di poter eseguire resezioni epatiche maggiori anche su fegato cirrotico con un volume epatico residuo del 40%2.
La presenza inoltre di un’invasione vascolare maggiore (vena porta, vene sovraepatiche etc) non rappresenta più oggi giorno una controindicazione chirurgica grazie soprattutto ad un attento management intra-operatorio dato dalla collaborazione tra chirurgo ed anestesista.
La chirurgia resettiva epatica dei tumori secondari del fegato ha invece subito nell’ultimo ventennio un’accelerazione molto importante grazie soprattutto all’introduzione di nuovi farmaci chemioterapici, quali ad esempio gli anticorpi monoclonali, all’utilizzo di metodiche mini-invasive, come la laparoscopia e alle sempre maggiori capacità delle equipe di chirurgia epatica.
Mentre fino a pochi anni fa i pazienti affetti da tumori metastatici del fegato venivano considerati come malati terminali che dovevano essere supportati solo con cure di tipo palliativo, oggi giorno questi pazienti al momento della diagnosi vengono presi in carico da team multidisciplinari in cui l’oncologo ed il chirurgo sono i principali protagonisti.
Il ricorso a diversi regimi di chemioterapia permette di ottenere una maggiore responsività delle lesioni epatiche.
Tale risposta permette all’equipe chirurgica di poter eseguire resezioni minori e maggiori anche con importanti sacrifici del volume epatico.
La capacità d’ipertrofia del fegato residuo permette inoltre di differire in più tempi l’esecuzione degli interventi chirurgici (chirurgia iterativa) ed in caso di recidiva della malattia, di poter ricorrere ad ulteriori resezioni al fine di ottenere sempre la massima radicalità oncologica possibile con un residuo macroscopico di malattia pari a zero.
La chirurgia iterativa del fegato è quindi una delle più recenti acquisizioni della disciplina oncologica moderna, in particolare per i tumori di origine colo-rettale; nell’attuale pratica clinica non si discute più di terapie adiuvanti o neo-adiuvanti ma di terapie farmacologiche e chirurgiche che si intersecano tra loro e volte ad ottenere un miglioramento della prognosi e un aumento della sopravvivenza del paziente oncologico3.
Di indubbia importanza ed ausilio per il chirurgo sono: i nuovi presidi medici, la laparoscopia ed il management anestesiologico.
I nuovi presidi medicali, come ad esempio fili, dissettori ad ultrasuoni ed agenti emostatici topici sono un aiuto estremamente valido per il chirurgo permettendo di ridurre i tempi operatori, le perdite ematiche e le eventuali complicanze post-operatorie.
L’introduzione delle tecniche laparoscopiche in chirurgia epatica fin dalla metà degli anni ’90 ha permesso di eseguire, in un sempre maggior numero di pazienti, delle resezioni oncologicamente sovrapponibili a quelle classiche di tipo laparotomico, ma con il vantaggio di una minore invasività, specialmente nei pazienti cirrotici, di una più rapida ripresa post-operatoria e di un minor numero di aderenze post-operatorie.
Infine nel corso degli anni si è dimostrata sempre più importante la sinergia tra chirurgo ed anestesista che grazie ad un attento management peri-operatorio permette l’esecuzione di interventi sempre più di frontiera con una maggior stabilità del paziente, un ridotto sanguinamento intra-operatorio ed un minor ricorso all’utilizzo di emocomponenti.
La chirurgia epatica che solo cinquant’anni fa sembrava essere una disciplina di frontiera con tassi di mortalità quasi proibitivi è oggi invece una realtà in continua crescita ed evoluzione, soprattutto nei centri ad alto volume e con una forte componente multidisciplinare.
BIBLIOGRAFIA
Tumori retroperitoneali e chirurgia della vena cava
R. Santoro, P. Lepiane, G. Vennarecci, L. Colace, A. Laurenzi, E. Moroni, A. Di Cintio, M. Colasanti,M. Antonini, M. Burocchi, Em. Santoro, G.M.Ettorre
Il coinvolgimento della vena cava è un evento raro e di particolare importanza per le implicazioni cliniche che puo determinare e la delicata definizione della strategia terapeutica.
La vena cava puo essere coinvolta per fenomeni di compressione, infiltrazione o trombosi da parte di patologie neoplastiche di natura benigna o maligna. Le manifestazioni cliniche sono spesso assenti fino a che si determini la completa ostruzione della vena e possono comparire edemi declivi. Altri sintomi possono essere la distensione addominale per l’effetto massa della neoplasia ma anche embolie polmonari o disturbi gastrointestinali o urinari. In alcuni casi il riscontro è occasionale in corso di esami di screening.
Le patologie neoplastiche benigne sono generalmente di origine neuronale, paravertebrali e generalmente determinano una compressione e dislocazione della vena cava. L’ infiltrazione diretta da parte del tumore è rara è può verificarsi nei tumori cefalo pancreatici od epatici localmente avanzati. La trombosi neoplastica della vena cava è un evento tipico delle forme avanzate dei tumori renali, surrenalici e primitivi epatici. In tali casi il tumore cresce all’ interno di un vaso tributario della vena cava per estendersi più o meno all’interno del lume della stessa verso l’ atrio destro.
I sarcomi retro peritoneali sono neoplasie rare caratterizzate dalla presenza di localizzazioni multiple, spesso nel contesto di una lipomatosi diffusa retroperitoneale. In alcuni casi possono anchessi coinvolgere la vena cava in maniera particolarmente estensiva rendendo impossibile il trattamento radicale .
I principi generali di trattamento chirurgico sono il raggiungimento di una chirurgia radicale con exeresi completa della patologia neoplastica ed al tempo stesso la conservazione della vena cava. Per affrontare queste situazioni complesse è necessario uno studio oltre che della patologia di base, anche delle strutture vascolari coinvolte con tecniche di imaging sofisticate che ne permettano le ricostruzioni tridimensionali. Queste valutazioni sono indispensabili per la pianificazione della strategia chirurgica che deve essere concordata anche con quella anestesiologica. Infatti in alcuni casi può rendersi necessario il clampaggio vascolare con esclusione del ritorno cavale che può determinare una grave instabilità emodinamica. Tale situazione non può essere improvvisata al tavolo operatorio e la possibilità di clampaggio ed esclusione vascolare deve essere programmata nella fase preoperatoria. Inoltre la tolleranza intraoperatoria del paziente al clampaggio vascolare deve essere testata prima di procedere all’ exeresi della malattia in modo tale che gli anestesisti possano gestire al meglio l’ emodinamica durante la procedura. In casi particolari può presentarsi la necessità di dover ricorrere alla sostituzione protesica della vena e questa possibilità deve essere sempre valutata nello studio preoperatorio per dotarsi dei graft protesici o autologhi più adatti.
Dal punto di vista tecnico la preparazione delle strutture vascolari a monte ed a valle della sede coinvolta nonché delle eventuali collateralità presenti è il requisito fondamentale per il buon esito dell’intervento.
Nelle patologie che determinano la compressione è generalmente possibile scollare la massa dall’ avventizia della vena cava consentendo l’ exeresi con conservazione della struttura vascolare.
Nelle infiltrazioni dirette invece si rende necessaria la resezione della porzione di parete cavale coinvolta. In relazione all’estensione della resezione si renderà necessario la sostituzione parziale o totale della vena cava. La sostituzione protesica della vena cava è necessaria solo in casi eccezionali, sia perché è possibile anche utilizzare tratti di vena safena o giugulare prelevate dal paziente stesso, sia perché è un fattore di rischio aggiuntivo per infezioni.
Nelle trombosi neoplastiche invece è generalmente possibile estrarre il trombo” en-bloc ” con la neoplasia dalla quale origina. Il controllo vascolare ed il clampaggio temporaneo a monte ed a valle del trombo permette l’ esecuzione di una cavotomia longitudinale e trombectomia con perdite ematiche contenute ed ottimizzazione dell’ emodinamica intraoperatoria. La mancata osservazione di questi principi tecnici rende la procedura particolarmente pericolosa per le ingenti perdite ematiche che si vengono improvvisamente a determinare con grave instabilità emodinamica e shock emorragico. Inoltre esiste il rischio di distacco del trombo durante le manovre con conseguente embolia polmonare massiva.
In conclusione, il buon esito del trattamento delle neoplasie retroperitoneali con coinvolgimento della vena cava passa attraverso una accurata valutazione preoperatoria e pianificazione chirurgica ed anestesiologica dell’ intervento in centri dedicati.
Bibliografia
1. Anaya-Ayala JE, Cheema ZF, et all. Concomitant Reconstruction of Infrarenal Aorta and Inferior Vena
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2. Fiore M, Colombo C, Locati P, et all. Surgical Technique, Morbidity, and Outcome of Primary Retroperitoneal Sarcoma Involving Inferior Vena Cava. Ann Surg Oncol 2011
La chirurgia del trapianto di fegato con la tecnica del piggyback.
G. Vennarecci, R. Santoro, P. Lepiane, L. Colace, E. Moroni, A. Di Cintio, A. Laurenzi, M. Colasanti, M. Antonini, M. Burocchi, Em. Santoro, G.M.Ettorre
Tradizionalmente il trapianto di fegato, le cui prime applicazioni cliniche risalgono al 1963 con Thomas Starzl, veniva eseguito ortotopicamente con la tecnica convenzionale. Questa tecnica prevedeva durante la fase della epatectomia la asportazione completa della vena cava retro epatica associando necessariamente il bypass veno-venoso.
La tecnica convenzionale, largamente adottata da tutti i centri trapianti del mondo, presenta alcune problematiche intra/peri operatorie: uso del bypass veno-venoso, riduzione del flusso ematico renale, instabilità emodinamica dovuta al clampaggio totale della vena cava, sanguinamento dal retro peritoneo, tempo di reimpianto del fegato più lungo, alterazioni metaboliche
Per ovviare a queste problematiche, maggiormente dovute al clampaggio totale della vena cava, all’ uso della circolazione extra corporea ed al sanguinamento peritoneale, una nuova tecnica di trapianto “ piggyback technique ” fu utilizzata per la prima volta da Calne RY nel 1968, poi affermata e diffusa nel 1989 con A. Tzakis. Tale tecnica prevede durante l’ epatectomia la preservazione della vena cava nativa retro epatica, questo permette di mantenere il ritorno venoso al cuore, di prevenire le alterazioni emodinamiche e di non utilizzare il bypass veno-venoso.
Tuttavia la Piggyback technique trova il suo tallone di Achille nella ostruzione dell’ efflusso sanguigno a livello della anastomosi venosa cavale-epatica. Per tale motivo diversi chirurghi hanno cercato modificazioni tecniche della procedura originale per ovviare a questa problematica.
Nel 1992 J. Belghiti ha modificato la tecnica del Piggyback (preservazione del flusso cavale attraverso un clampaggio parziale ortogonale della vena cava inferiore durante la fase epatica). Per minimizzare il problema dell’ ostruzione dell’ anastomosi cavale, ha eseguito una anastomosi cavo-cavale latero-laterale sulla faccia anteriore della vena cava del ricevente.
Ulteriore progresso della tecnica si è avuto quando si è riuscito a comprendere che per minimizzare il problema dell’ ostruzione dell’ efflusso ematico a livello dell’anastomosi cavale questa dovesse essere confezionata su un’ ostio il più ampio possibile, costruito mettendo insieme le tre vene sovraepatiche. Questa tecnica appare ora la più fisiologica per minimizzare il problema dell’ ostruzione all’ efflusso venoso e delle complicanze associate ad esso (ascite). Lo stesso J. Belghiti ha apportato alla tecnica del Piggyback un ulteriore importante modifica: lo shunt porto cavale temporaneo per preservare il flusso portale, riduce fenomeni di congestione intestinale durante la fase anepatica.
In questi ultimi anni si è potuto verificare con diversi studi retrospettivi, quali sono i numerosi vantaggi associati all‘utilizzo della Piggyback technique nel trapianto di fegato.
Sebbene tra le due tecniche non vi siano differenze significative riguardo la sopravvivenza dei pazienti, la tecnica del Piggyback si è dimostrata superiore rispetto a quella convenzionale riguardo: un minore uso di trasfusioni ematiche, ridotto tempo operatorio, ridotto tempo di ischemia calda, minori complicanze post operatorie, migliore funzione renale post-operatoria ed infine la possibilità di non utilizzare il bypass veno-venoso.
Bisogna comunque sottolineare il fatto che la tecnica del Piggyback non sia la scelta più indicata in casi selezionati : presenza di tumori vicino alla V.C.I., epatite acuta fulminante, presenza di TIPS, trapianto di fegato domino, presenza di aderenze post chirurgiche periepatiche oppure di natura infiammatoria tra fegato e vena cava inferiore ed in fine nel caso di fegati cirrotici troppo grandi e lobo caudato voluminoso.
Il centro trapianti del S. Camillo che ha iniziato la sua attività ne Dicembre 2001 ha eseguito fin ora 244 trapianti di fegato consecutivi con la tecnica del Piggyback . La maggior parte dei nostri trapianti sono stati eseguiti per cirrosi post virale con associato HCC in 85 casi.
Ø MELD medio al trapianto era 15 minuti
Ø la durata media del tempo chirurgico era 390 minuti
Ø tempo di ischemia fredda era 400 minuti
Ø trasfusioni ematiche medie erano 1 per trapianto
Ø circa il 46% dei pazienti non hanno ricevuto trasfusioni
La Morbilità post operatoria era del 25 %, la mortalità operatoria del 4,4 %, la sopravvivenza dei pazienti ad un anno del 91 %, a tre anni dell’ 88% a cinque anni dell’ 82 %. La Piggyback technique è stata possibile nel 100% dei casi, l’ anastomosi cavo cavale è stata eseguita sulle 3 vene sovraepatiche nel 95% dei casi. Il bypass veno-venoso è stato utilizzato in un solo caso, lo shunt porto cava è stato eseguito in 2 casi. L’ostruzione dell’anastomosi cavale è stata documentata in 6 casi ( 2,4%). In 1 caso il paziente è stato ritrapiantato in urgenza. L’ascite persistente post operatoria è stata osservata in 12 casi (5.2%).
In conclusione, anche la nostra piccola esperienza conferma la validità del trapianto di fegato eseguito con la tecnica del Piggyback. I risultati del nostro centro sono in linea con quelli riportati da altri centri nel mondo. Si conferma che questa tecnica è associata ad una migliore emodinamica intraoperatoria, ad un minore consumo di trasfusioni ematiche, minore tempo chirurgico , minore incidenza di complicanze post-operatorie, minore tempo trascorso in terapia intensiva, minore ospedalizzazione. Tutto ciò si traduce in un minore costo generale del trapianto che grava sulla struttura sanitaria.
Probabilmente questi risultati associati con la tecnica del Piggy-back sono da mettere in relazione al mancato utilizzo della circolazione extra corporea con il bypass veno venoso, e di tutte le complicanze associate al suo utilizzo
1. Navarro F, Le Moine MC, Belghiti J, et all. Specific Vascular complications of orthotopic liver transplantation with preservation of the retrohepatic vena cava: review of 1361 cases. Transplantation 1999 Sep 15;68(5): 646-50
LA CHIRURGIA COLORETTALE ESTREMA
P. Lepiane, G. Vennarecci, R. Santoro, E. Moroni, A. Di Cintio, A. Laurenzi, L. Colace, M. Colasanti, M. Antonini, M. Burocchi, Em. Santoro, G.M.Ettorre
La chirurgia colo-rettale è definita estrema o “di frontiera” quando diventa difficile per la sede o l’estensione della malattia o quando lo stato del paziente determina un’alta condizione di rischio. Non infrequenti, infatti, sono le situazioni in cui la radicalità chirurgica si può ottenere soltanto con resezioni estese multi viscerali, coinvolgenti organi viciniori alla sede primitiva della malattia o addirittura organi a distanza; un esempio è rappresentato dalla chirurgia delle metastasi epatiche da cancro colo-rettale che rappresenta la frontiera per questo tipo di patologia primitiva. Inoltre a tutto questo si deve aggiungere che sempre più spesso questa chirurgia estrema viene eseguita su pazienti ad alto rischio per età (ottuagenari) o per patologie concomitanti (coagulopatie, scompensi cardiaci di varia eziologia, epatopatie croniche, BPCO, diabete mellito). Un ulteriore passo in avanti è stato fatto anche nell’ambito della diagnostica, divenuta sempre più fine e precisa negli ultimi anni, delle terapie complementari, sia pre- (con sorprendenti “downstaging” di malattia) sia post-operatorie con sopravvivenze a distanza di gran lunga migliori rispetto al passato. L’approccio multidisciplinare è ad oggi l’unico in grado di offrire una vera probabilità di guarigione a pazienti con malattia avanzata ( III e IV stadio sec. TNM 2009 ). La figura del chirurgo si integra con quella dell’oncologo e del radioterapista in un team che deve essere in grado non solo di fornire i trattamenti più adeguati in relazione al singolo paziente, ma anche di individuarne il corretto timing e i non pochi effetti collaterali che possono derivarne. In quest’ottica è diventato sempre meno infrequente rendere operabili, con l’aspirazione di arrivare a interventi classificabili come R0, pazienti fino a pochi anni fa classificati a prognosi infausta quoad vitam. Infine la continua evoluzione della tecnologia e dello strumentario a disposizione dei chirurghi, hanno reso la procedura chirurgica più sicura e oncologicamente radicale, permettendo così di spingersi oltre quel confine definito “inutile”. L’avvento della laparoscopia ha oggettivamente cambiato lo scenario nel quale ci si muove, presupponendo un minor tempo di ripresa, morbidità e mortalità post operatorie nettamente inferiori alla chirurgia tradizionale. Anche se non c’è ancora accordo definitivo su quale sia il miglior approccio (laparoscopico versus open ) al paziente con malattia avanzata, sempre di più si tenta di praticare il primo per gli indiscussi vantaggi sopraelencati che si possono apprezzare soprattutto in caso della necessità di un re-intervento a breve distanza dal primo ( chirurgia delle metastasi epatiche da carcinoma colo-rettale ) In conclusione il paziente oncologico avanzato, che sembrava rappresentare un ostacolo invalicabile alla capacità di gestione medico-chirurgica, è piuttosto la prova di come l’integrazione e il processo di ricerca delle singole discipline sia il vero “ holy plane “ da seguire.
BIBLIOGRAFIA
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3. Buunen M, Veldkamp R, Hop WC, Kuhry E, Jeekel J, Haglind E, Påhlman L, Cuesta MA, Msika S, Morino M, Lacy A, Bonjer HJ Survival after laparoscopic surgery versus open surgery for colon cancer: long-term outcome of a randomised clinical trial. Lancet Oncol. 2009 Jan;10(1):44-52.
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Chirurgia oncologica di frontiera.
La chirurgia laparoscopica
Em Santoro, P. Lepiane, G. Vennarecci, R. Santoro, E. Moroni, A. Di Cintio, A. Laurenzi, L. Colace, M. Colasanti, M. Antonini, M. Burocchi, G.M.Ettorre
La chirurgia oncologica è diventata nell’ultimo decennio una specializzazione della chirurgia generale; sicuramente le indicazioni e il concetto di radicalità oncologica sono variati negli ultimi anni. Molte neoplasie, che un tempo erano considerate a prognosi infausta e che si pensava non valesse la pena trattare,oggi, sono associate, grazie ai progressi nel campo radio e chemioterapico ad una prognosi migliore.
In particolare, la conoscenza di neoplasie come i GIST che costituiscono una categoria a se stante rispetto ai sarcomi, ha consentito di ottenere la guarigione in molti pazienti che prima venivano lasciati al proprio destino; ciò si è reso possibile anche grazie all’utilizzo di farmaci come il GLIVEC.
Anche nel caso di sarcomi è stato possibile attraverso una chirurgia a più riprese allungare la sopravvivenza.
Per non parlare poi delle metastasi epatiche; un tempo questi pazienti avevano come unica chance quella della chemioterapia; oggi, in centri dedicati come il nostro, è possibile praticare una chirurgia in più tempi fino ad ottenere resezioni R0 senza incorrere in problemi di insufficienza epatica.(1).
Trova un ruolo fondamentale, nella chirurgia oncologica di frontiera la laparoscopia; ad oggi essa risulta l’accesso obbligato per molti interventi chirurgici come la colecistectomia e l’appendicectomia, resezioni coliche (2-3).
Infatti , lo stress chirurgico che deve subire il paziente , nel caso di grossi tumori, oppure tumori posizionati in sedi difficili come paracavali o paraaortiche viene sicuramente ridotto dall’approccio mininvasivo.
Nel nostro centro abbiamo praticato nei primi 6 mesi del 2011 161 interventi di chirurgia laparoscopica tra resezioni coliche, resezione epatiche, nefrectomie e splenectomie. Se ormai quasi la totalità delle resezioni coliche vengono praticate in laparoscopia (82%), abbiamo cominciato a introdurre l’approccio laparoscopico anche nella chirurgia epatica. Essa infatti, soprattutto nella chirurgia del paziente cirrotico, sicuramente chirurgia di frontiera, trova la massima espressione. Infatti nel caso di resezioni per epatocarcinoma , si riduce di molto il rischio di scompenso epatico, in particolare la comparsa di ascite post operatoria, legata al grado di ipertensione portale preoperatoria. Le possibili spiegazioni sono la conservazione della circolazione collaterale parietale, la minor mobilizzazione intraoperatoria del fegato, un rispetto delle derivazioni linfatiche e un riempimento operatorio meno importante. In particolare nel caso della lobectomia sinistra la laparoscopia può essere considerata il gold standard.(4). Sempre nel 2011 fino a luglio sono state praticate 30 resezioni epatiche laparoscopiche , ossia il 30% di tutte le resezioni epatiche. Le indicazioni all’epatectomia riguardano soprattutto il fegato di sinistra (segmenti 2,3 e 4), e i segmenti 5 e 6 del fegato destro.
Ormai di routine pratichiamo nefrectomie e splenectomie laparoscopiche per tumori renali e linfomi splenici.
Abbiamo praticato, inoltre asportazione di neurogangliomi paracavali, di grosse dimensioni consentendo al paziente la dimissione in 3 giornata grazie all’approccio mininvasivo.
Grazie ai progressi dei device chirurgici, della chemioterapia, in particolare l’avvento dei chemioterapici biologici, la possibilità di praticare radioterapia più mirate, più efficaci, intraoperatorie, con interventi chirurgici , soltanto 10 anni fa considerati impossibili, siamo arrivati a poter trattare a scopo curativo una percentuale maggiore di pazienti; presupposto fondamentale di questo ragionamento è praticare questa chirurgia e medicina di frontiera in centri ad alto volume ed alta specializzazione come il nostro.
Bibliografia
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