ALLA RICERCA DELLA CONCRETEZZA DEL SOGGETTIVO NELLA PRATICA MEDICA QUOTIDIANA.
INTEGRARE IL VERO CON L’ESATTO PER UN APPROCCIO GLOBALE ALLA PERSONA MALATA.
Bruno Domenichelli
Specialista in cardiologia. Direttore della rivista Cardiology Science
Nella pratica quotidiana, il medico è oggi sottoposto alle tentazioni di una cultura condizionata dalla certezza ammaliante dell’Evidence based medicine (EBM). Il rischio è di lasciarsi tentare dalla pigrizia intellettuale, accettando acriticamente i principi dell’EBM e abdicando così ad una sana autonomia del giudizio clinico (1).
L’esattezza dei principi dell’EBM è peraltro spesso solo presunta e non sempre coincide con la certezza. La rigidità nel voler piegare ad essa la mutevole e sfuggente realtà della clinica, rischia di far perdere di vista l’integralità psico-fisica del malato. Una realtà che sfugge ai criteri spesso arbitrari e limitativi imposti dalle regole di arruolamento ai trial, nei non viene mai valutata quella componente soggettiva della malattia che può condizionare la patogenesi e l’evoluzione della malattia, configurando ogni malato come entità irripetibile sul piano biologico e psicologico (1).
Il vissuto soggettivo della malattia
Avventurarsi nella complessità psico-socio-biologica della malattia comporta un approccio rispettoso della “verità” insita nell’individualità della persona malata, spesso sacrificata dalle esigenze massificanti delle grandi ricerche epidemiologiche.
La psicosomatica ha aperto la strada ad una corretta valutazione delle relazioni fra benessere psichico e stato di salute. La psico-neuro-endocrino-immunologia ha chiarito molti dei meccanismi fisiopatologici che sottendono a questi rapporti. Nella pratica clinica il trascurare questi meccanismi preclude una conoscenza globale di molte delle variabili che interferiscono nell’evoluzione della malattia. Un approccio empatico consente al medico di riconoscere la carica patogena dell’incertezza e dell’ansietà del paziente. Avvicinarsi al malato unicamente con gli strumenti del metodo oggettivo che la semeiotica fisica e gli esami strumentali ci mettono a disposizione, ci preclude un’autentica comunicazione con il soggetto ammalato, impedendoci la conoscenza del suo mondo interiore e quindi della realtà dei riflessi psicosomatici.. Per ottenere ciò dovremo “spostare l’ago della nostra bussola… all’aisthesis e all’immaginazione prima che al logos e ai concetti...” (2).
Appare così in tutta la sua evidenza l’artificiosità della dicotomia fra la sfera soggettiva del paziente e la realtà fenomenica della malattia. Ogni cardiologo incontra quotidianamente quadri clinici nei quali fattori psicosomatici assumono un fondamentale ruolo patogenetico. La frequenza con cui osserviamo questi quadri deve persuaderci della concretezza del vissuto soggettivo del cardiopatico e della rilevanza talora vitale assunta da momenti psicologici quali fattori scatenanti di patologia organica.
Karl Jasper aveva peraltro già sottolineato in epoca pre-tecnologica che l’agire del medico “poggia su due pilastri: da un lato la conoscenza scientifica e l’abilità tecnica, dall’altro l’ethos umanitario” (3). E’ opportuno che il medico sia sempre consapevole che: “ciò che il malato pensa delle sua malattia, ciò che si aspetta, teme, augura e spera… sembra essere un fattore che incide nel decorso stesso della malattia (4,5). U. Galimberti sottolinea che nella pratica medica “conoscenza scientifica e abilità tecnica sono insufficienti”(6). Impostare un’anamnesi in senso esclusivamente organicistico e trascurare il vissuto psicologico del paziente rischia di far comprendere al medico solo il “come” (fisiopatologico) di un sintomo, perdendo di vista il suo “perché” (eziopatogenetico) (7). “Finché si limita a raccogliere fatti invece di interrogare i fenomeni, cioè i vissuti soggettivi,… la medicina non potrà che collegare una serie di dati insignificanti”. (8)
La “Medicina narrativa” (Narrative Based Medicine) (9) ripropone con diverse etichette i concetti di Jaspers e l’idea ippocratica che un medico diviene filosofo (“Iatros philosophos isotheos”), nel momento in cui agisce intuendo i limiti della propria conoscenza scientifica e fa esperienza della poliedricità psicofisica della malattia.(10)
L’immaginario del cuore
Dopo l’affermazione in epoca illuministica del positivismo scientista, nell’epoca della reazione romantica sarà recuperata la dimensione storica del vivere umano riportando in primo piano il vissuto esperienziale, e “la legittimità e priorità del vissuto”. (11)
Dal campo filosofico, questi concetti possono essere estesi alla pratica medica.
Nel riferire delle proprie esperienze interiori, il paziente parla per simboli e metafore. E’ su questa lunghezza d’onda espressiva che il cardiologo deve sintonizzare la sua attenzione, per aprirsi la strada alla conoscenza delle radici psicosomatiche della malattia.
Il cardiopatico esprime il suo mondo interiore al cardiologo attraverso il filtro di un immaginario del cuore individuale e spesso personalissimo, che il medico deve conoscere se vuole avere accesso anamnestico al suo vissuto di malattia. Nel racconto di un “volo impazzito di farfalle nel petto” da parte di un’immaginifica paziente, potrà essere così più facile individuare un episodio di fibrillazione atriale parossistica. (12) “Ciascun paziente ha un proprio modo di esprimere i suoi disturbi. Noi, come medici, dobbiamo lasciare ai nostri pazienti libera scelta di parole e, quando le hanno scelte, dovremmo utilizzare le stesse per comunicare con loro.” (13)
Diagnosticare… per metafore può rientrare quindi nell’ambito di quello che veniva empiricamente definito occhio clinico, ma richiede da parte del medico specifica cultura psicologica, immaginazione e disponibilità empatica all’ascolto.
Farà quindi parte del bagaglio necessario alla ricerca anamnestica del medico la consapevolezza del “valore cognitivo del simbolo, dell’affidabilità del suo contenuto, della sua possibilità o meno di apportare nuova conoscenza… La valenza conoscitiva del simbolo è quella di un potente strumento… utile per far emergere immediatamente collegamenti non facilmente ottenibili altrimenti…, ma che devono essere interpretati e integrati mediante la facoltà critica, in una collaborazione che escluda il prevaricare di una funzione sull’altra. (14)
“L’intelligenza è una moltitudine di forme... Accanto all’intelligenza logico-matematica va infatti considerata un’intelligenza psicologica “ (15). Il rischio di un ricorso esclusivo alle regole dell’EBM da parte del medico, è quello di trascurare potenzialità diagnostico-decisionali correlate alla comprensione del vissuto di malattia del malato. Ci fornisce illuminanti analogie a questo proposito considerare le caratteristiche dei computer. In certi casi, riusciamo infatti ad essere più veloci di un computer, perché evitiamo le concatenazioni logiche e abbiamo uno sguardo d’insieme con un colpo d’occhio…, mettendo in atto scorciatoie che ci permettono di andare molto più in fretta di una macchina.” (16)
Anche in ambito di metodologia clinica, un approccio analogico ai problemi consente di rilevare connessioni illuminanti e nessi imprevedibili fra campi apparentemente non comunicanti e di ricombinare in modo nuovo le idee. (17)
Il dominio nella nostra epoca del linguaggio scientifico “non è una ragione sufficiente a proporlo come linguaggio unico in grado di espellere come illegittimi altri tipi di linguaggio che possono non essere esatti, ma dei quali la mancanza di esattezza non mette in questione la verità. (18)
Impariamo quindi ad ascoltare con pazienza questa verità, superando le riserve culturali legate alla sua natura soggettiva; una verità forse scientificamente non esatta, ma che il malato cerca di trasmetterci con parole talora velate da metafore nascoste, talora con tonalità drammaticamente aperte. Così come dovremmo imparare a valutare nella sua clinica concretezza anche le profondità insondabili del vissuto di malattia, nella sua valenza di classico segno di semeiotica fisica, e a dare al malato risposte chiare e amorevoli, nelle quali sia sempre possibile intravedere una possibile speranza, anche quando la scienza umana sembrerebbe escluderla. Useremo allora parole capaci di penetrare nell’intimo della struttura psichica dell’ammalato, dove creare positive risonanze. O gesti di un linguaggio non verbale, che possono talora calmare il singhiozzo. Parole che si caricano allora di laica sacralità, capaci di unire, in un rapporto di umana affinità, due persone altrimenti destinate alla reciproca indifferenza. Parole delicate, in grado di sondare la sofferenza umana e di sollevare impalpabili veli sul mistero della vita. E quindi parole sacre. (7)
La componente soggettiva nella configurazione dello stress.
La psicosomatica ci insegna che esiste uno stress “buono” e uno stress “cattivo”. Eustress e distress. Si è visto che una certa quantità e qualità di “stimoli” è necessaria per il buon funzionamento della psiche. (19) Lo stress positivo stimola la creatività dell’artista e il buon umore dell’ottimista. Opposto è il ruolo della percezione soggettiva negativa degli eventi stressanti, che può far pendere in senso patogeno la bilancia psicosomatica ed innescare la catena delle reazioni psico-neuro-endocrino-immunologiche che caratterizzano lo stress. Sono quindi le modalità di percezione soggettiva degli eventi stressanti a costituire lo spartiacque fra eustress e distress.
Verità ed esattezza in medicina
Il confronto fra approccio soggettivo ed oggettivo al malato, introduce il tema della differenza fra “vero” ed “esatto”, che può sfuggire ad una superficiale analisi da parte di un medico impegnato a rispondere ai pressanti quesiti quotidiani, ma che, se chiarita, apre orizzonti suggestivi nell’impostazione del rapporto medico-malato.
L’esigenza di un approccio integrale alla realtà clinica, comporta per il medico l’attenta considerazione del vissuto interiore di malattia del paziente, come “vero”, anche se sfuggente, momento patogenetico della malattia. Sussiste una potenziale simmetria concettuale fra le polarità vero-esatto ed oggettivo-soggettivo. Nello studio delle scienze naturali, Herbert Pietschmann (22) individua infatti due strade, entrambe potenzialmente cognitive: una che conduce alla conoscenza di ciò che è “esatto”, l’altra che porta alla conoscenza di ciò che è “vero”. Esatto è ciò che può essere dimostrato, nel caso limite la matematica, ma in cui il rapporto con la realtà si perde. “Vera” è invece… una situazione concretamente vissuta, la quale, per la sua unicità, non potrà mai essere “provata” . Come potremmo ad esempio dubitare della “verità” dell’esperienza riferita da quella paziente che descrive il “delirium cordis” della sua fibrillazione atriale parossistica come “volo impazzito di farfalle nel cuore”? L’ ECG documenterà obiettivamente l’aritmia, ma non saprà descriverci l’angoscia della paziente, capace di innescare una tempesta catecolaminica, e di trasformare una banale aritmia atriale in una fatale fibrillazione ventricolare.
Indagare sulla “verità” soggettiva che accompagna l’obiettività strumentale potrà così consentirci di mettere in atto psicoterapie ed interventi farmacologici capaci forse di salvare una vita. Vero ed esatto sono in medicina realtà complementari. In medicina, più che in altre discipline scientifiche, vale l’affermazione di K. Lorenz secondo il quale: “anche funzioni conoscitive di natura sicuramente non razionale sono fonti legittime di conoscenza scientifica…” (23)
L’esperienza interiore è indubitabile, anche come fonte di conoscenza. (23) “Il vero è invisibile agli occhi, si vede solo col cuore” (Saint-Exupery)
“Ad ogni fenomeno, sia che provenga dalla percezione della realtà esterna, sia che provenga dalle emozioni e dai sentimenti, corrisponde qualcosa di reale… La facoltà di amare e di sentire amicizia, con tutti i sentimenti che l’accompagnano, nasce nel corso della filogenesi della specie umana esattamente come la facoltà di misurare e di contare. Entrambe le specie di fenomeni si riferiscono alla stessa realtà e… fanno parte allo stesso titolo delle cose numerabili e misurabili.” (24)
Vero ed esatto sono quindi le due strade maestre che conducono l’Homo sapiens alla conoscenza. Per l’uomo di scienza, trascurare una di queste polarità costituisce un errore di metodologia conoscitiva. Per il medico, sottovalutare la “verità” nascosta nel vissuto soggettivo della persona sofferente è anche imperdonabile sacrilegio laico. “Abbiamo bisogno di uomini… (il cui) intelletto possa parlare all’intelletto degli altri, (il cui) cuore possa aprire il cuore degli altri”. (25)
L’esattezza della scienza può spiegarci “come sono le cose e come sono state generate, ma non può dirci niente del loro significato o del loro scopo…”.(26)
Albert Einstein descrive come “l’emozione più bella quella che nasce quando si contempla ciò che deve esistere oltre la nostra percezione sensoriale immediata (26, 27). “Sapere che ciò che per noi è impenetrabile esiste veramente… è al centro della vera religiosità “. (28)
L’analisi della soggettività accomuna Arte e Medicina
Pur essendo regno del soggettivo, l’Arte può essere fonte legittima di conoscenza. Molti filosofi del Novecento hanno considerato l’arte come possibile esperienza di verità (29), pur nel variare delle diverse forme espressive nel corso del tempo.
Stendhal affermò, ad esempio, che la scuola di David, aveva fatto della pittura “una scienza esatta, della stessa natura dell’aritmetica e della geometria… Ma per dipingere le passioni bisogna averle viste, aver sentito le loro fiamme divoranti… La scuola di David non può dipingere che i corpi, è assolutamente incapace di dipingere le anime. Ma l’arte pittorica si spinge oltre all’affermazione dell’esatto, poiché diventa capace di raffigurare la realtà dell’anima”. (30)
Decenni dopo, gli Impressionisti filtrano la realtà delle immagini esterne attraverso una visione soggettiva. Ma il loro procedimento di elaborazione della realtà esteriore si propone di dare della realtà rappresentazioni altrettanto “vere”, anche se non più oggettivamente “esatte”. Anche se filtrata dalla soggettività, la realtà viene infatti guardata con un occhio che voleva essere il più possibile obiettivo (31). Così la capacità visionaria di Van Gogh riesce a dare concreta visibilità alle forme invisibili di energia che pervadono l’universo.
Anche nell’arte, come in medicina, vero ed esatto hanno limiti sfumati e compenetrati.
Successivamente, i pittori espressionisti sono spinti dall’esigenza interiore di rendere visibili i sentimenti che animano l’uomo. Non è più l’oggetto reale che si vuole rappresentare, ma la percezione soggettiva che ne ha in sé l’artista, filtrata attraverso la propria sensibilità. Si realizza così l’incontro magico fra due soggettività, un dialogo inconsapevole fra l’artista e il fruitore dell’opera, che configura l’essenza stessa del processo artistico. E ’lo stesso reciproco incontrarsi di due soggettività che si realizza nella pienezza di un autentico rapporto terapeutico fra medico e paziente.
Valore ancor più spinto di ricerca sulla realtà interiore, assumono le arti figurative nei decenni successivi. Nell’astrattismo, l’arte si configura come “capacità di vedere l’invisibile” (32). Kandinskij definisce le proprie Improvvisazioni come: “Espressioni principalmente inconsapevoli, per lo più sorte in modo improvviso, di eventi di carattere interiore. (33). L’arte si fa allora scandaglio per la scoperta e la trasmissione di una realtà interiore, fatta di archetipi, alla quale viene data leggibile forma in lucidi istanti di chiarezza. (34)
Pur avendo origine nel soggettivo, l’arte può aiutarci a fare esperienza di verità “in quanto ci aiuta a conoscere il reale… in un’empatia simbolica… che spesso parla da sé, con la forza stessa dell’immagine e della sua indicibile verità” (35)
Sulle potenzialità cognitive e sulla concretezza del mondo soggettivo si esprimono anche i fisiologi. K. Lorenz afferma ad esempio che l’arte può essere considerata “fonte di conoscenza fenomenologica. Il poeta può rappresentare l’esperienza interiore per mezzo di metafore” (23)
Conclusioni
Anche il medico, nel colloquio con il suo paziente, potrebbe trovare in processi analoghi a quelli della creatività artistica, spunti per realizzare i propri obiettivi di comunicazione e conoscenza. Anche il medico, come abbiamo visto, fa infatti uso di metafore e di parole significanti per avere accesso alla “verità” contenuta nel mondo interiore del suo paziente e confrontarla poi con quanto di “esatto” la scienza gli propone. L’Arte diviene così anche per il medico maestra di Scienza. (37)
Nell’arte, attraverso i simboli, si realizza “una modalità di riconoscimento e di espressione che è complementare a quella del pensiero logico” nel ”far emergere immediatamente collegamenti non facilmente ottenibili altrimenti.” (14) Il pensiero analogico costituisce uno degli strumenti cognitivi complementari a quello logico; ricorrendo ad entrambi sarà possibile anche per il medico avvicinarsi nella sua pratica quotidiana alla “verità” clinica, senza trascurare l’esatto”. (17)
Così come nell’arte, in cui i simboli sono strumenti privilegiati per “accedere al senso delle cose” (35), anche nella comunicazione fra medico e paziente il simbolo e le metafore possono costituire mezzi potenzialmente utili per favorire l’accesso al mondo interiore del malato. Pur avendo origine nel soggettivo, l’arte è quindi espressione di verità, in quanto ci aiuta a conoscere il reale, in un’empatia simbolica che spesso parla da sé, con la forza stessa dell’immagine. Come per l’arte, in cui agisce una forma di empatia che consente di far entrare in reciproca sintonia i mondi soggettivi dell’artista e del fruitore dell’opera artistica, così nella pratica medica, il vissuto soggettivo di malattia può essere meglio indagato attraverso un approccio di tipo empatico.
Fare arte è anzitutto modo di essere dell’animo, di vivere, di sentire. Di guardare le cose e di sapervi leggere dentro (34). Per il medico, che ha quotidiana esperienza della vulnerabilità dell’uomo, una visione “creativa” dei rapporti intersoggettivi col paziente può essere strumento privilegiato di comunicazione, poiché consente la realizzazione di un magico incontro fra due soggettività altrimenti estranee.
Ancor prima di configurarsi come impegno deontologico, volto ad attenuare la sofferenza esistenziale del malato, (38) la disposizione ad un rapporto creativamente empatico assume per il medico valenza di virtù professionale, poiché nel dialogo con il paziente consente di trovare le parole giuste per suscitare nella sua mente risonanze interiori che possano stemperare l’ansia di solitudini spesso devastanti. Anche i vissuti di morte potranno assumere allora forme meno ossessive, aprendo la porta alla difficile impresa di convivere più serenamente con la fine della propria vita. (39-40)
Mediante una cultura che fin dagli anni dell’Università prepara il medico alla percezione della concretezza del soggettivo sarà più facile per il medico indagare sulla sofferenza psicologica del malato. La pratica medica si fa allora ars curandi, saggezza capace di coniugare verità ed esattezza, nella prospettiva di aprire esili spiragli sulle dimensioni esistenziali di un infarto, sul mistero patogenetico soggettivo di un’aritmia ricorrente o sulle cause sfuggenti di una crisi ipertensiva.
BIBLIOGRAFIA
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4 - ibid. p. 6
5 - ibid. p. 9
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10 - voce 8 p. XXVII
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