PROCESSO A SOLITUDINE

 

Bruno Domenichelli*

 

 

   L’aula era quella grigia ed oppressiva di un tribunale.

   Sul banco degli imputati sedeva Solitudine. Era giovane, sorridente e aveva occhi luminosi. Nonostante la spietata arringa del pubblico ministero contro di lei, appariva stranamente tranquilla.

   L’imputata non sembrava godere di molte simpatie fra la gente. La guardavano con diffidenza, come affetta da una malattia contagiosa, da un male oscuro venato di  asocialità. Una vita, la sua che molti ritenevano motivata da narcisismo e che l’avrebbe portata - dicevano - al rifiuto di ogni possibile relazionalità.

   Intanto il pubblico ministero continuava ad accanirsi, portando contro Solitudine testimonianze apparentemente inappellabili. Contro il vivere solitario – disse – si pronuncia anche la Bibbia, che afferma che: “Due stanno meglio di uno… Guai a chi cade quando non c’è chi lo rialzi” (Ecclesiaste 4, 9-10).

   Alla successiva citazione di Cechov, secondo il quale “i solitari spesso vedono il diavolo dove non c’è”, fra il pubblico, che aveva fiutato odore di zolfo, ci fu un conato di applauso, subito sedato dal giudice.

Poi si dilungò a trattare gli inquietanti rapporti fra la solitudine e  la depressione nervosa, sostenendo che la tristezza indotta dall’indugiare nella solitudine, apre le porte alla depressione. E a riprova citò Ovidio: “Tristis eris si solus eris”. Nelle psicosi la solitudine si aggira lungo le vie labirintiche di alienazioni senza uscita. Luoghi dolorosi dove i  pensieri si aggrovigliano in percorsi inestricabili. E citò la testimonianza di Cesare Pavese che, prima di cedere al disperato epilogo della sua vita, aveva confidato al suo diario che: “la vera solitudine è una cella insopportabile” e che “ la massima sventura è la solitudine”.

Giocava contro l’imputata anche un pesante immaginario collettivo che vede la solitudine come rifugio passivo costruito volontariamente nell’animo, nel quale alimentare sprezzanti indifferenze nei confronti del prossimo.

Il pubblico ministero chiuse così la sua requisitoria. In aula il pubblico prese a rumoreggiare, ormai palesemente convinto della pericolosità sociale dell’imputata.

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In un’ atmosfera di crescente ostilità, si alzò allora il difensore. Esordì citando il

recentissimo parere di un famoso psichiatra, il prof. Eugenio Borgna**. Il brusio del pubblico si placò. E nel silenzio morboso dell’aula il luminare spiegò che, è innanzitutto necessario distinguere “fra la solitudine interiore, o solitudine creativa, e la solitudine-isolamento o solitudine dolorosa, due immagini radicalmente diverse dell’essere solo… La solitudine interiore o creativa (fig. 1) è premessa di  ogni colloquio… con la propria coscienza…, aperta alla trascendenza…, che ci aiuta a vivere meglio la vita di ogni giorno, facendoci distinguere le cose essenziali della vita…”. Luogo dove: ”avvertiamo l’importanza della riflessione e della meditazione…” La solitudine interiore “ci porta… ad essere in consonanza con i valori della vita e della solidarietà.. Come oasi nella quale rinasce e si rinnova ogni volta il dialogo infinito con se stessi e con gli altri. La solitudine-isolamento o solitudine dolorosa (fig. 2) invece… non è scelta volontaria, ma conseguenza di malattie del corpo o psicopatie…, lutti o perdite di relazioni umane. E’ una forma negativa di solitudine, caratterizzata dall’indifferenza verso il destino degli altri-da-sé… in cui l’io diviene monade senza porte e senza finestre in  un deserto emozionale senza rimedio…”.

   Sarebbero state sufficienti le parole dello psichiatra ad ottenere per Solitudine almeno le attenuanti generiche?

   Poi riprese a parlare l’avvocato difensore, e il suo tono si fece solenne. Rivolto provocatoriamente verso il pubblico, disegnò un quadro impietoso degli stili di vita degli uomini che nell’attuale società si ritengono vincenti.  “Una società nella quale ognuno crede di essere maestro nel sapere come comportarsi nella vita per raggiungere il successo sociale, ma non si accorge di essere stato privato di ogni libertà decisionale. Una società composta da automi ordinatamente in marcia verso la totale massificazione dell’essere, pronti a sacrificare ogni originalità del pensiero al vitello d’oro del conformismo. Vittime inconsapevoli dell’omologazione intellettuale, di un’acritica infatuazione per miti collettivi i cui idoli sono gli eroi vuoti ed effimeri di un quotidiano troppo affollato, che giorno dopo giorno consuma ogni residuo di individualità.

   E il difensore proseguì. “E’ proprio per resistere all’avvilimento di questa progressiva rinuncia a se stessa che la mia assistita si è coerentemente attenuta al proprio stile di vita, che la portava a ricercare nella solitudine interiore i sensi più autentici dell’individualità dell’essere. Solitudine come stato d’animo privilegiato per provare la vertigine delle proprie profondità, altrimenti insondabili. Per percorrere controcorrente il flusso omologato delle idee che sembra essere oggi la via maestra per il successo. Per essere fedele all’ammonimento di Leonardo da Vinci che raccomandava: Sii solo e sarai tutto tuo…. Una solitudine intellettuale che non è invito alla rinuncia del mondo, ma a costruire la propria vita senza condizionamenti.”

   “Persino i dittatori - proseguì l’avvocato - temono la solitudine, alla quale preferiscono le adunate oceaniche, perché sanno che nella solitudine viene alimentato l’orgoglio dell’indipendenza del pensiero e che è nel silenzio della propria interiorità che maturano i germi della ribellione.”

Un brivido serpeggiò fra il pubblico. La linea difensiva dell’avvocato appariva infatti essersi avviata lungo una china pericolosa. Era infatti ben noto che la lunga detenzione preventiva di Solitudine nelle carceri di  Stato aveva assunto anche inconfessate valenze politiche.

“E per quanto riguarda l’accusa di pericolosità sociale – proseguì l’avvocato -  visto che l’accusa ha citato la Bibbia, è stato anche scritto: Amate il prossimo come voi stessi. Ma per riuscire meglio ad amare il prossimo dovremo innanzitutto conoscere ed amare noi stessi, riscoprendoci nei momenti della solitudine. Conoscere se stessi, anche nelle  proprie debolezze, è premessa per aprirsi all’altro.”

 

Casella di testo: Fig 2 - P. Picasso. La bevitrice d’assenzio (1901)
Con lo sguardo perso nel vuoto, la bevitrice d’assenzio si fa simbolo della solitudine-isolamento o solitudine dolorosa, come disposizione interiore in cui l’Io naufraga nella dolente vacuità di un irrimediabile deserto emozionale.

                   

     

 

 

 

 

Casella di testo: Fig 1 - C.D. Friederich. Viandante sul mare di nebbia (1818)
Il viandante è metafora visiva della solitudine interiore o solitudine creativa, come stato esistenziale privilegiato per realizzare l’ideale romantico della fusione fra l’immensità della natura e l’infinito delle profondità dell’Io.
Ne sono analogiche riproposizioni i versi di Leopardi, scritti nello stesso anno: “Mirando, interminati spazi… e sovrumani silenzi… io nel pensier mi fingo… E il naufragar m’è dolce in questo mare.”

 

 

 

 

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   Nell’aula era sceso un irreale silenzio. Molti stavano forse cominciando a capire che la solitudine può anche essere il luogo sacro dove finalmente riprendere il dialogo con la propria anima, interrotto tanti anni prima, quando ancora la vita aveva il gusto della primavera.

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   Infine parlò lei, Solitudine, con voce calma e decisa.

   “Alcune delle gioie più intense della mia vita - esordì - le ho vissute in esaltante solitudine; momenti in cui ogni avvenimento assumeva colori più nitidi e vibranti. La mia migliore difesa di oggi è il fare partecipe ognuno di voi di questi momenti.

   I momenti dell’amore, nei quali essere soli coincide con l’essere Noi, nel paradosso apparentemente contraddittorio di una solitudine che attinge la sua perfezione solo se vissuta insieme.

   I momenti della lettura e della creatività, vissuti in una solitudine capace di moltiplicare gli echi del pensiero; in cui il silenzio scandisce il flusso delle idee. Momenti dello stupore dell’anima, nel dialogo solitario con la voce interiore che mi confidava cose sconosciute anche a me stessa. Momenti di estrema lucidità, in cui osservavo ogni idea emergere dal profondo e assumere nuova vita, cristallizzata sul foglio.

   Momenti in cui incontravo la poesia, che mi aiutava a trovare anche nel quotidiano bellezze insperate e verità insospettate. Momenti in cui imparavo ad entrare in risonanza con le voci di chi nella vita danzava e soffriva accanto a me. E a piene mani riportavo alla luce tesori scoperti inaspettatamente negli angoli più nascosti dei miei spazi interiori, da condividere col prossimo.

   Momenti in cui riuscivo a scrollarmi di dosso il peso delle stereotipie che rendono la gente sempre più succube del pregiudizio generale.

   Con l’aiuto della solitudine ho anche combattuto i momenti dell’ansia del vivere. Ne ho fatto filtro alla frenesia del quotidiano, per ricaricare l’accumulatore estenuato delle energie consumate dall’urgenza del tempo e dalla fatica di esistere.

   Nei giardini della mia solitudine ho coltivato fantasia e sentimenti, amore ed amicizia, religione e libertà. Dagli spazi della solitudine ho preso lo slancio per il colloquio con l’oltre intuito sopra di me. Trampolino di quiete interiore da cui prendevo l’abbrivio verso le stelle. E nella solitudine ho scoperto deserti in cui costruire cattedrali aperte al Mistero.

   Tutto questo è stata per me la solitudine, sentimento che ho sempre cercato di condividere come un dono con chi mi amava. Terra dove riscoprire radici dimenticate. Serra amniotica della mente in cui assistere con continuo stupore a fioriture inaspettate di motivi per vivere.

   E talora rifugio segreto, dove piangere lacrime che aiutavano l’anima.”

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   Quando si sedette, Solitudine aveva gli occhi umidi, ma ancor più luminosi. E d’improvviso il silenzio dell’aula fu interrotto da un applauso infrenabile. Anche il giudice e i giurati, pur se poco protocollari, corsero ad abbracciarla.

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   Della notizia della trionfale assoluzione, si impadronì la stampa. E al Movimento internazionale che ne seguì e che travolse ogni sussulto di reazione da parte del Potere Omologante, fu dato il nome di “Primavera della Solitudine”. Nel suo nome scesero pacificamente in piazza in tutto il mondo folle di giovani, che intravedevano nella testimonianza di vita di Solitudine e nel suo coerente coraggio una via privilegiata di salvezza contro il dilagare dell’omologazione del pensiero.

  I Tiranni del conformismo delle idee di tutto il mondo furono esiliati in un’isola sperduta, preclusa ad ogni contatto telematico con l’esterno, dove in breve si estinsero, nell’impresa impossibile di prevaricarsi l’un l’altro.

   Ed ogni anno, a maggio, fu celebrata la “Festa della Solitudine e del Pensiero Individuale”, durante la quale ognuno poteva orgogliosamente celebrare dentro di sé la libertà di pensare, senza i condizionamenti che secoli di indifferenza collettiva o di prepotenza del potere avevano insensibilmente costruito nel cuore dell’uomo.

 

 

 

 * Direttore della rivista Cardiology Science

 

** Le citazioni di Eugenio Borgna sono tratte da:

E. Borgna. La solitudine dell’anima. Feltrinelli Ed. Milano 2011