L’IMPEGNO DELLA CARITAS NELLE AREE ‘PERIFERICHE’ DELLA SALUTE A ROMA

- il Progetto Ferite Invisibili -

 

Estela Teresa Camillo da Silva

 

Caritas Roma – Ambito Sanità

 

 

Premessa

Molti sono ancora i conflitti, le violenze e le guerre che insanguinano la terra. I milioni di morti e feriti purtroppo costituiscono soltanto una parte delle vittime. Più di un miliardo sono invece i civili che hanno subito traumi psicologici, i cui effetti perdurano decenni, intere generazioni. Sono ferite invisibili, paralizzanti, che minano l’essere umano e il tessuto sociale di intere popolazioni, nel loro intimo. Tra gli immigrati che arrivano in Italia ve ne sono alcuni che sono stati vittime di violenza intenzionale (con intenzionale intendiamo dire che sono vittime di traumi causati dall’intenzione di un altro individuo di far loro del male. Non sono per esempio traumi di natura accidentale, come gli incidenti stradali o le catastrofi naturali) e che in terra di migrazione si trovano, a volte, sospesi in un limbo privo di definizione sociale e di identità.

 

La nascita del Progetto

Il progetto Ferite Invisibili è stato sviluppato presso l’Area Sanitaria della Caritas di Roma - che dal 1983 è impegnata sul versante della tutela sanitaria delle persone più deboli della nostra società[1] - per rivolgersi a rifugiati e a richiedenti asilo sopravvissuti alla tortura o ad altre esperienze di violenza intenzionale.

Si tratta di persone spesso “invisibili” alla società, alla politica, a coloro che incontrano per strada; come invisibili sono le loro ferite, perché l’esperienza di aver subito ed essere sopravvissuti alla violenza, lascia un profondo dolore psichico, che si accompagna spesso ad un senso di vergogna che spinge i pazienti a nascondersi, allontanandosi dagli altri esseri umani. L’obiettivo del progetto è individuarli, accoglierli, curarli e offrire loro un’opportunità di riscoprirsi individui capaci di vivere una vita piena e dignitosa.

Il progetto ha visto una fase di studio e approfondimento con la revisione della letteratura internazionale sull’argomento e l’integrazione della stessa con l’esperienza dei medici del poliambulatorio Caritas[2]. Fu avviato alla fine del 2005, in seguito alle riflessioni stimolate dalla partecipazione al progetto One Billion[3] che portò alla sottoscrizione di una dichiarazione di intenti, nel dicembre 2004, da parte di rappresentanti di Governi, di Agenzie e Organismi internazionali e del mondo scientifico. Fu l’occasione per una riflessione più approfondita sui temi sanitari dell’accoglienza e della cura ai richiedenti asilo ed ai rifugiati presenti in Italia, in particolare a coloro che hanno subito violenza, tortura e altri traumi intenzionali.

Il nome Ferite Invisibili allude al fatto che mentre i traumi fisici in genere lasciano sequele (es. cicatrici) chiaramente visibili all’esame obiettivo, i traumi psichici (es. aver assistito all’omicidio dei propri genitori, essere stati vittima di violenza sessuale, di percosse, di minacce di morte) spesso non lasciano segni visibili ad occhio nudo. Eppure gli effetti sono terribili e spesso se non adeguatamente curati perdurano nel tempo, rendendo la vita di chi li ha subiti molto difficile e coinvolgendo intere generazioni.

 

Equipe attuale del progetto

Il progetto è formato da: 1 Responsabile del Progetto; 1 Supervisore Clinico (psichiatra-psicoterapeuta); 1 psichiatra-psicoterapeuta coordinatore della ricerca; 3 psicologi-psicoterapeuti e 1 psichiatra-psicoterapeuta che si dedicano alla clinica; mediatori linguistico culturali, personale di accoglienza e segreteria.

 

Il setting terapeutico

Ai professionisti che lavorano in questo progetto è richiesto di essere ben formati nel loro specifico approccio clinico (la maggior parte di loro sono analisti transazionali); di aver seguito una specifica formazione in psicotraumatologia; di avere appreso e sviluppato competenze nel campo della comunicazione transculturale, di conoscere le risorse sociali del territorio e di essere aperti a una visione del lavoro in rete che faccia si che il loro operato trascenda gli spazi dell’ambulatorio per collegarsi con le risorse presenti nel territorio.

All’interno del setting terapeutico operano generalmente due psicoterapeuti e, oltre al paziente, vengono invitate a partecipare anche le persone per lui significative (educatori, psicologi, operatori del centro di accoglienza, tutor istituzionali). L’utilizzo di un mediatore linguistico culturale si rende a volte necessario e viene concordato con il paziente. Il percorso psicoterapeutico si articola nel corso di alcuni mesi con incontri a cadenza settimanale.

Il nostro setting è quindi uno spazio aperto al mondo del paziente, nel quale le persone che fanno parte della sua rete sociale sono invitate a partecipare. Questo serve a creare un ambiente familiare e una rete di sostegno che è radicalmente diversa dall’ambiente della tortura nel quale le vittime erano sole con i loro torturatori. Questa scelta dà valore e aiuta a connettere aspetti diversi e coesistenti della vita della persona.

 

L’invio al servizio

L’invio all’attenzione di Ferite Invisibili avviene tramite vari canali (rete dei servizi Caritas, centri di pronto intervento e accoglienza, case famiglia, strutture sanitarie, uffici legali, etc). I pazienti effettuano una prima valutazione delle esigenze cliniche e psicosociali, quindi parte l’effettiva presa in carico sia all’interno del servizio (psicoterapia e, se occorre, psicofarmacologia clinica), sia con l’attivazione dei nodi della rete utili in quel caso (ad es. valutazione medico-legale, accoglienza, assistenza nella formazione e/o ricerca lavoro, preparazione dell’incontro in commissione per il riconoscimento dello status di rifugiato, etc).

 

Supervisione Clinica

La supervisione dei casi clinici è un incontro mensile nel quale gli operatori del progetto hanno la possibilità di confrontarsi tra loro e con un supervisore scientifico. Si tratta di un momento significativo, durante il quale, attraverso un approccio integrato che coinvolge differenti professionalità presenti nel progetto, si ha un quadro d’insieme rispetto ai singoli casi trattati e, in prospettiva più ampia, circa gli aspetti scientifici riferibili all’attività del progetto.

Ciò avviene al fine di realizzare un confronto attivo tra le diverse figure che lavorano per la medesima persona, con competenze diverse e complementari; l’integrazione che ne deriva pone le basi per un miglior accompagnamento del singolo paziente nel percorso di sostegno che lo riguarda.

Tali incontri si rivelano utili sia per le persone che partecipano a tale momento comune, che per lo stesso lavoro di rete, riguardante le successive collaborazioni.

 

Qualche dato sull’attività clinica

In quasi 9 anni di progetto (2005-2014) sono stati presi in carico 244 pazienti e sono stati effettuate una media di 15 sedute/paziente.

I pazienti sono prevalentemente uomini (80%). L'età media è attorno ai 23 anni, ma abbiamo un range che va dai 13 ai 61 anni. Provengono da 46 paesi diversi, soprattutto dall’Afghanistan (23%), Costa D’Avorio (12%) e Guinea Conakry (8%).

Attualmente, in questi primi 5 mesi del 2014, stiamo seguendo 24 pazienti, i quali provengono  soprattutto dall’Afghanistan e dal Senegal.

 

La ricerca

Il nostro gruppo ha utilizzato alcuni strumenti di ricerca anche al fine di diffondere all’interno del poliambulatorio Caritas le necessarie competenze per riconoscere e individuare le persone con possibili Ferite Invisibili. L’obiettivo è di vedere se, al di là della richiesta “ufficiale” (spesso per una problematica vissuta a livello somatico), non vi siano segni psichici e comportamentali che facciano ipotizzare la presenza di un disturbo psicopatologico post-traumatico[4]. Lo screening viene effettuato tramite alcuni test psicodiagnostici. Ovviamente nel corso di questa attività grande importanza viene data alla privacy, alla possibilità di un’accoglienza sensibile ed empatica della sofferenza che può emergere, alle valutazioni etiche di opportunità degli interventi effettuati e alla possibilità realistica di dare una risposta concreta ai bisogni emersi. In caso emergano possibili disturbi post-traumatici l’operatore che ha somministrato il test è anche formato per fare un colloquio esplorativo motivazionale ed eventualmente concordare con il paziente un invio a Ferite Invisibili per una valutazione più approfondita ed eventuale presa in carico.

I risultati delle ricerche effettuate non sono fini a se stessi, ma hanno immediate ricadute sugli altri livelli: a) contribuendo al miglioramento della formazione (sia internamente al gruppo Ferite Invisibili che nel contesto più ampio della formazione degli operatori Caritas e di altre realtà assistenziali); b) fornendo una base affidabile di conoscenze su cui fondare la ragionevolezza delle richieste “politiche” di miglioramento dell’assistenza ai vari livelli (legislativo, organizzativo, etc).

Emerge in modo molto significativo la questione della somatizzazione[5]; con essa intendiamo un sintomo riferito al corpo che però non è giustificato da una sottostante alterazione patologica del corpo. Ad esempio un paziente può riportare un dolore che non è dovuto a una causa organica. In questi casi il paziente non inventa il dolore, lo sente effettivamente, però la sua origine si ritiene non sia in qualcosa che non va nel funzionamento del corpo ma in un disagio psichico che non riesce ad esprimere altrimenti. Le somatizzazioni sono frequenti nei nostri pazienti e sono una possibile “spia” di un possibile disagio postraumatico non riferito e non rilevato, dunque “invisibile”.

La disponibilità di operatori sanitari e di accoglienza formati al riconoscimento dei segni di disagio, ed eventualmente l’ausilio di strumenti di screening è fondamentale. L’approccio rispettoso per le difficoltà relazionali della persona, empatico e accogliente, aiuta il paziente a riformulare il problema, tollerare la sofferenza di dover ricordare ciò che ha subito e formulare una domanda d’aiuto. Domanda alla quale interventi specialistici come quelli di Ferite Invisibili cercano di dare una risposta tecnicamente adeguata e umanamente coinvolta.


 

[1] Geraci S., Bonciani M., Martinelli B., 2010. La tutela della salute degli immigrati nelle politiche locali. Quaderni di InformaArea, 7: http://www.caritasroma.it/wp-content/uploads/2010/09/DIRITTO_ALLA_SALUTE.pdf

[2] Colosimo, F. and Aragona, M., 2000. Le sindromi da somatizzazione in un ambulatorio di medicina generale per gli immigrati, in Italia. II: Confronto tra i principali test e valutazione del Bradford Somatic Inventory [Somatization syndromes in a primary care service for immigrants in Italy. II: a comparison among major tests and evaluation of the Bradford Somatic Inventory]. Psichiatria e Territorio, 17 (1), 7_12.

[3] http://siteresources.worldbank.org/DISABILITY/Resources/280658-1172610662358/Proj1Billion.pdf

[4] Aragona M., Rovetta E., Pucci D., Spoto J. And Villa A.M. (2012). Somatization in a primary care service for immigrants. Ethnicity & Health, Ephub ahead of print.

[5] Aragona, M., et al., 2005. Somatization in primary care: a comparative survey of immigrants from various ethnic groups. International Journal of Psychiatry in Medicine, 35 (3), 241_248.