La radiologia come problema metodologico. Dalla richiesta  alla risposta.

Alessandro Stasolla

Azienda ospedaliera S. Camillo-Forlanini Roma

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Scopo della presente conferenza è dimostrare l’utilità nell’approccio metodologico alla radiologia di modelli epistemologici quali il “trial and error” di K. Popper, il modello nomologico-deduttivo  e l’ermeneutica secondo H. G. Gadamer.

KR Popper, trial and error, modello nomologico-deduttivo, HG Gadamer, ermeneutica

The aim of the conference is to look for epistemological issues of radiology, showing similarities with popperian “trial and error”, deductive-nomological model and Gadamer’s hermeneutics.

KR Popper, trial and error, deductive-nomological model, HG Gadamer, hermeneutics

 

I radiologi, senza problemi, non possono lavorare

Karl Popper (1902-1994), forse il più influente filosofo della scienza del XX secolo, ha affermato che non ci sono discipline, ma solo problemi e l’esigenza di risolverli[1]. Allora, se pure ci concediamo di lasciare tra parentesi la nozione di radiologia come disciplina, resta la domanda: a quale problema cerca di rispondere  la radiologia? Ebbene, le indagini che si ottengono con tecniche radiologiche “servono a ridurre l’incertezza relativa a una diagnosi o a una prognosi di un particolare individuo e ad aiutare il medico a decidere quale sia il modo migliore per gestire una condizione patologica nel caso singolo” [2]. Il radiologo tenta quindi di formulare ipotesi diagnostiche riguardanti un certo quadro clinico, e lo fa osservando immagini: questo è pacifico. Ma cosa vuol dire ipotizzare spiegazioni sulle condizioni di salute di un paziente guardando le immagini del suo corpo?  Le ipotesi, i tentativi diagnostici cioè, vengono alla mente del radiologo guardando le immagini o sono già presenti alla sua mente prima di guardare? Rispondo, ancora in compagnia di Karl Popper: non si guarda senza un interesse, nulla si può dire di aver guardato se non con un problema in mente. Altrimenti si è, al più, posato lo sguardo su qualcosa, ma non si è guardato nulla[3]. E quello che interessa al radiologo è, per l’appunto, penetrare con lo sguardo, non posare lo sguardo sulle immagini[4]. il radiologo non guarda semplicemente le immagini: le interroga. Le obbliga cioè a rispondere al suo intento di contribuire a comprendere: perché il paziente sta male? Quindi: prima un problema, poi l’osservazione. E allora: le osservazioni casuali, i reperti accidentali, le osservazioni collaterali, cosa sono? Di certo, sappiamo che esistono: non si tratta di dubitare della loro esistenza, ma di chiedersi – metodologicamente: come possiamo giustificarle? Rispondo[5]: dipende dalla classe di antitesi che contrapponiamo a “casuale”, “accidentale”, “collaterale”. Tali aggettivi significano, a mio parere, semplicemente che il reperto trovato dal radiologo non entrava nel progetto primitivo dell’indagine, che la loro esistenza o inesistenza insomma non era oggetto intenzionale di controllo. Ma sarebbe sbagliato ritenere che il reperto occasionale, collaterale o accidentale sia puro frutto dell’osservazione: anche esso è il risultato del controllo di un’ipotesi, dell’ipotesi  minima o problema minimo che il radiologo di solito non esplicita, ma tiene sempre in mente quando osserva le immagini che scorrono davanti ai suoi occhi. Ed il problema minimo del radiologo è semplice: ciò che vedo è normale? Credo che il riconoscimento dei reperti collaterali, occasionali o casuali avvenga quindi per confronto tra l’immagine osservata ed una classe di immagini pensate, la classe delle immagini normali. Classe non solo perché osservando le immagini radiologiche si deve considerare via via la conformazione normale di numerose strutture anatomiche (ad es. nell’Rx torace il cuore, i polmoni, l’aorta, le coste, i diaframmi etc.), ma perché la conformazione normale di una struttura anatomica non è realmente uno stereotipo, non è l’impronta o la forma tipica di quella struttura, bensì una famiglia di immagini. Insomma è piuttosto banale ma decisivo ai nostri fini ricordare che non esiste “la forma” del polmone normale come esiste una “formina” per biscotti da forno: esistono piuttosto i polmoni (normali) delle persone (normali per questo aspetto) non affette da alcuna malattia polmonare, polmoni che se riuscissimo ad unire in gruppi consimili per dimensioni, caratteristiche della trama vascolare, calibro dei bronchi etc. si disporrebbero secondo una distribuzione di gaussiana. Quindi non il polmone normale e la sua immagine radiologica, ma i polmoni normali ed una famiglia di immagini radiologiche. Accanto a questa classe di immagini normali che ogni radiologo ha in mente mentre scruta con gli ultrasuoni, i raggi X o gli impulsi a radiofrequenza la struttura di un organo o di una sua parte, accanto a quel ritratto di famiglia (ciò che il radiologo ha in mente per ritratto della salute!) esiste un’altra classe di immagini: la classe delle classi di organi malati. Un organo, molte malattie. Una malattia, più metodiche di studio e dimostrazione (ecografia, TC, RM, radiologia tradizionale, angiografia, scintigrafia…). Una metodica di studio, più segni di malattia. E poi: combinazioni diverse di segni della stessa malattia e combinazioni di segni di patologie concomitanti[6]. Quindi, famiglia o classe (C) delle immagini normali, famiglie o classi M1…Mx di immagini che possiamo immaginare parte della classe (M) di malattia.  E ancora: fare diagnosi di reperto collaterale, vuol dire andare oltre il quesito primitivo dell’indagine, vuol dire porsi davanti alle immagini con lo sguardo del radiologo, sguardo che ha perso l’innocenza dell’ignoranza (almeno si spera!), sguardo che non vede senza domandarsi: “non so che patologia cercare, ma almeno posso chiedermi se ciò che vedo merita di entrare nel ritratto della salute”, se cioè fa parte di una classe di immagini normali.  Questo, ritengo, il problema minimo, la questione elementare del radiologo di fronte alle immagini: questione purtroppo tutt’altro che pacifica, se è vero che uno dei maggiori sforzi dell’interpretazione è talora proprio la discriminazione tra reperti al confine tra normale e patologico[7]. Problema forse più chiaro se immaginiamo una curva bimodale che rappresenti (C) ed (M) come due curve unimodali che si sovrappongono. Ha chiaramente scritto a tale proposito Giovanni Federspil: “la distribuzione bimodale crea notevoli problemi sul piano della diagnostica : appare infatti evidente che il sovrapporsi parziale delle due curve produce sempre, in via di principio, un intervallo di valori entro il quale sono compresi sia soggetti sani che soggetti malati”[8].  Aggiungo, concludendo, che ciò che talora appare come reperto occasionale in un referto, è forse piuttosto l’esito di un quesito che il radiologo, per propria iniziativa, ha saputo porre a se stesso al di fuori del campo delimitato dalla richiesta del curante: se al collega che chiedeva un esame ecografico con il quesito “appendicite?” il radiologo risponde “cisti a contenuto ecogenico e contorni irregolari in sede annessiale destra compatibile con endometrioma”, probabilmente non siamo al cospetto di un reperto collaterale, ma al risultato di una deliberata ricerca di patologie in diagnosi differenziale con quella evocata dalla richiesta. In breve: la domanda (anche quella minimale di normalità) precede l’osservazione, il problema (anche minimale) la risposta, il confronto la dimostrazione di ciò che non si sarebbe neanche potuto pensare al di fuori di una ipotesi.

Solo il clinico che chiede ottiene

Il quesito diagnostico sulla richiesta è realmente decisivo per il risultato di una indagine radiologica, perché orienta sin dal primo momento l’impostazione tecnica, l’interpretazione e la refertazione dell’indagine. Certo, il radiologo può e di fatto talora esce dallo steccato della richiesta, non se lascia imprigionare (se di radiologo sufficientemente volenteroso e culturalmente versato stiamo trattando) ma ogni esame radiologico terrà con sé come stigmate l’effetto del quesito del richiedente. Non solo infatti l’esame senza quesito non è legalmente giustificabile e quindi non può essere eseguito[9]; ma il quesito orienta e potenzia ma nel contempo limita e condiziona almeno in parte al proprio ambito l’informazione estraibile dall’indagine eseguita. Indagini del tutto simili agli occhi del laico[10], possono in effetti comportare decisioni mutuamente esclusive sul piano tecnico.

Immagini fatte ad arte

Una visione antiquata, ma forse ancora in piedi tra i laici, vorrebbe in radiologia “da un lato l’esame ed i suoi elementi oggettivi cioè le immagini come la vera sostanza, l’essenza dell’esame, in sé valido perché contiene, anzi è, la verità dell’esame; dall’altro lato l’interpretazione, il referto, quale espressione della impressione di uno specialista […]: oggi questa impostazione sta cedendo e non è più sostenibile. Infatti la realizzazione di una immagine non è così univoca e poco modificabile come è sempre stata in radiologia tradizionale: i programmi, gli algoritmi scelti per ottenere le immagini influenzano anche il risultato. Pertanto rientrano nella scelta e nella decisione del radiologo, alla pari del referto, che è ciò che esso esprime. […] Il dualismo tra interpretazione (soggettiva) e puro dato d’immagine (oggettiva) non ha più ragione di esistere perché la prima comprende, sustanzia, la seconda”[11]. Il materiale iconografico che oggi il radiologo ottiene, le immagini digitali insomma, non sono “date” per sempre, ma possono essere aggiustate sulla base di parametri tanto più numerosi e complessi quanti ne offre il progresso tecnologico (post-processing). Quindi, nella radiologia odierna, il materiale iconografico può essere considerato un   materiale  fatto ad arte, un artefatto, cioè, influenzabile a più livelli dalla discrezionalità del radiologo. Le immagini non sono pertanto “fatto bruto” della radiologia ma piuttosto esito di scelte orientative, scelte cariche di comprensione, della pre-comprensione di quanto il richiedente ed il radiologo stesso hanno del quadro clinico da spiegare.

La radiologia: scienza storica ed ermeneutica

Eccoci quindi al cuore pulsante della radiologia: richiesto, giustificato ed approntato, l’esame deve ora essere interpretato alla luce delle domande (altrui e proprie) cui il radiologo vuole rispondere per chiarire o meglio spiegare il quadro clinico del paziente, di quel paziente che è oggetto di indagine. Ma, prima di affrontare il problema dell’interpretazione e della spiegazione in radiologia, ancora una riflessione.  La radiologia pratica, quella che si pratica nell’ospedale o nell’ambulatorio all’angolo della strada di casa, la radiologia clinica insomma, è scienza[12]? Secondo la International Society of Radiology  “la radiologia è la scienza [corsivo aggiunto]relativa alla produzione e alla interpretazione di immagini statiche e dinamiche ottenute nell’uomo e in altri soggetti utilizzando diverse forme di energia, inclusi raggi-X, luce coerente, ultrasuoni, campi magnetici e radiazioni derivanti da radionuclidi naturali e artificiali. Le tecniche di imaging includono radiografia, fluoroscopia, tomografia computerizzata, ultrasonografia, risonanza magnetica e medicina nucleare. Le immagini che ne derivano possono essere utilizzate per evidenziare l’anatomia, per valutare le funzioni a livello di organo o a livello molecolare, per identificare le patologie e per attuare terapie”[13]. Se i medici radiologi concepiscono la propria disciplina come scienza, nulla però ci vieta di chiederci:  tale definizione è legittima? O piuttosto non è l’esito di un clima culturale, quello odierno, che da un lato nega dignità di scienza alla medicina[14] e dall’altro l’attribuisce all’arte di villeggiare[15]? Secondo Popper “lo scopo della scienza è quello di trovare spiegazioni soddisfacenti di tutto ciò che ci colpisce come bisogno di spiegazione”[16] e “la spiegazione più soddisfacente sarà quella che si può sottoporre, ed è sottoposta, ai controlli più severi”[17], sicché il criterio per stabilire lo stato scientifico di una teoria è la sua falsificabilità, o confutabilità, o controllabilità empirica. Ecco dunque che il radiologo pratico disposto ad affermare alcunché di empiricamente smentibile, fa della sua disciplina pratica una scienza. Il radiologo che, coerentemente al corpus dottrinario al momento disponibile per la propria disciplina, diagnostica un tumore del polmone sottopone ipso facto la sua spiegazione del quadro clinico (ad es. calo ponderale, tosse ed emottisi) alla possibilità di un controllo empirico tramite una biopsia, un intervento chirurgico o un controllo diagnostico di II livello; ed in tali situazioni c’è pur sempre il rischio che la diagnosi venga smentita: il nodulo di rivela alla biopsia o all’intervento un granuloma, oppure mostra in TC inequivocabili segni di natura benigna, come nel caso di un amartocondroma. La scienza quindi pretende di fornire spiegazioni controllabili con l’esperienza, ed un fatto è spiegato[18] se, date certe leggi generali e determinate condizioni, tale fatto può essere da esse razionalmente dedotto: questo, molto sommariamente, il modello nomologico-deduttivo secondo Popper-Hempel-Oppenheim che può essere applicato indifferentemente[19] alle scienze che si occupano di leggi universali (scienze teoriche), di previsione di eventi futuri (scienze tecnologiche) e di fatti già avvenuti (scienze storiche). In radiologia clinica esistono dunque casi singoli (i problemi di salute dei malati) e spiegazioni di questi[20]. Il radiologo assume come valide le leggi e le teorie della medicina in genere e della propria branca in particolare, e si sforza di interpretare la singolarità del paziente alla loro luce: egli “assume ciò che è generale come punto fermo mediante il quale spiegare il singolare”[21], proprio come fa uno storico. O, per dirla con fraseologia cara a Kuhn, esercita una scienza normale, nel tentativo di risolvere un “rompicapo”: qual è la malattia del paziente? Quindi: radiologia come scienza normale che si rivolge all’interpretazione di casi singoli, cercando spiegazioni su un quadro clinico problematico; radiologia clinica, come scienza dell’individuo, disciplina che studia “un po’ come la storia, quel’unico accadimento che è il singolo malato, irripetibile, mai eguale ad un altro, come, appunto un evento storico”[22].

Ma come interpreta il radiologo le immagini? Egli è di fronte a toni di grigio che devono uscire da una pura dimensione grafica e diventare segno, per poter così trasformarsi in utili testimoni pro o contro una ipotesi diagnostica. Quindi il radiologo come cacciatore di segni che, un po’ come un investigatore sottopone ad interrogatorio. Il segno è quindi centrale, cacciato e interrogato, come “ un qualcosa che sta per qualcuno in luogo di qualcos’altro sotto qualche aspetto o capacità”[23]. Ed il per qualcuno indica chiaramente che non si dà interpretazione senza un interprete che sia capace di cogliere “le occorrenze significative”: non tutti gli aspetti delle immagini, ma solo quelli rilevanti. Ma rilevanti per chi? Rilevanti per il radiologo, quel radiologo che ha preparato e condotto l’indagine. Rilevanti per cosa? Rilevanti in relazione alla situazione problematica da cui è scaturita l’indagine: qualcuno è inciampato in un problema (il medico curante); il radiologo ha preparato un materiale iconografico sulla base di un bagaglio di aspettative - “se le ipotesi diagnostiche medico curante sono vere, allora posso aspettarmi di trovare certi segni di malattia” - da controllare alla luce delle teorie di cui egli è carico (lo sfondo di conoscenze mediche, compresa la semeiotica radiologica di cui egli specialmente si avvale). Ecco che allora, con le immagini finalmente davanti agli occhi, egli comincia una interpretazione che “deve difendersi dall’arbitrarietà” e “dalle limitazioni che derivano da inconsapevoli abitudini mentali, guardando alle cose stesse[24] tentando di  “sottomettersi in tal modo al suo oggetto” con il proposito di “tenere lo sguardo fermo al suo oggetto, superando tutte le confusioni che provengono dal proprio intimo stesso. Chi si mette a interpretare un testo, attua sempre un progetto. Sulla base del più immediato senso che il testo gli esibisce, egli abbozza preliminarmente un significato del tutto. E anche il senso più immediato il testo lo esibisce solo in quanto lo si legge con certe attese determinate. La comprensione di ciò che si dà da comprendere consiste tutta nella elaborazione di questo progetto preliminare, che ovviamente viene continuamente riveduto in base a ciò che risulta dall’ulteriore penetrazione del testo”[25]. Ed ecco allora quell’Rx torace “scattata” ad un signore di mezza età che forse fuma troppo e da qualche settimana mangia con minor appetito, ha febbricola e dimagrisce tossendo qualche stria ematica assai più spesso di quanto non gli sia mai capitato in passato:  proprio a quell’Rx il radiologo guarda come ad un testo da interpretare, e scrutando trova una tenue opacità, a contorni incerti, ma piuttosto nettamente stagliata nella confusione strutturale di rami vascolari e profili costali, tra i segni di vecchi episodi broncopneumonici e distorte architetture enfisematiche. Un nodulo. Piccolo, certo, ma un nodulo. Un tumore maligno? Ecco la preoccupazione principale: che quel segnale non sia un segno di malattia oncologica[26]. È ora necessario raccogliere tutti i testimoni del caso. Il radiologo accorto sa che non tutti i segni sono uguali e non tutte le testimonianza ugualmente attendibili.  “Un rilievo che è presente in tutti i soggetti malati di M1 e in un certo numero di soggetti sani è un segno obbligatorio; un segno presente in una parte dei soggetti malati di M1 e solo in questi, è un segno patognomonico; infine, un segno presente in tutti i soggetti malati di M1 e solo in questi è un segno patognomonico perfetto. In realtà, queste tre situazioni sono piuttosto rare a verificarsi”[27]. Certo l’ideale sarebbe un unico segno che conferma la diagnosi (un osso a pezzi è un osso fratturato) o un segno unico che la smentisce (polmoni a parete = no pneumotorace): ma non è infatti il caso del nostro radiologo. Comincia l’interrogatorio. Primo teste: ci sono altri noduli? Non sembra, altrimenti potrebbe trattarsi di metastasi. Cerchiamo meglio: cambiando livello e ampiezza della finestra di visualizzazione;  producendo ingrandimenti e rimpicciolimenti dell’immagine[28]. Nessun altro nodulo: ma nulla ancora esclude che possa essere una metastasi solitaria. Secondo teste: c’è qualche vecchia precedente immagine? Sarebbe utile[29], ma non è reperibile.  Il teste non si presenta. Terzo teste: quanto è grande? Non  più di 2,5 cm: le dimensioni non aiutano la diagnosi differenziale[30]. Il teste non ricorda o non risponde. Quarto teste: i profili come sono? Netti e regolari. Il teste risponde e la risposta è favorevole all’interessato. Ma può bastare a chiudere il procedimento? I noduli maligni hanno di solito profili irregolari e spiculati; ma anche un granuloma può essere irregolare nei profili e d’altra parte carcinomi e metastasi possono mostrare margini assolutamente regolari. Servono altre testimonianze. Quinto teste: ci sono escavazioni all’interno? No: un altro testimone in meno, poiché la presenza di una cavitazione irregolare avrebbe permesso di orientarci meglio, anche se purtroppo nella direzione di una diagnosi di lesione maligna. Sesto teste: ci sono calcificazioni all’interno del nodulo? No: ancora un teste che non risponde. Calcificazioni centrali, eccentriche, diffuse o focali, pulverulente o  “a pop corn” avrebbero aiutato a definire la natura della lesione.  Settimo teste: c’è raccordo e/o versamento pleurico che potrebbero indicare una natura maligna della lesione? No, non si apprezzano contatti con la pleura né versamenti. Il teste risponde contro l’ipotesi nodulo maligno, ma non possiamo considerarlo abbastanza attendibile da chiudere l’iter diagnostico. In breve: il radiologo sottopone a controllo l’ipotesi patologia cardiopolmonare (che potrebbe spiegare il quadro clinico) con la tecnica di prova Rx torace; con tale presupposto trova un segno o teste di malattia sulle immagini ottenute, il nodulo; nel caso il nodulo fosse maligno il radiologo avrebbe ottenuto una spiegazione compatibile con il quadro clinico; ma servono altri segni o testi per giudicare sulla benignità o malignità del nodulo: nessun segno decisivo è disponibile, alcuni sono reticenti o irreperibili, altri parlano all’orecchio del radiologo ma non lo convincono. L’indagine non può essere conclusa. Bisogna chiamare testimoni più attendibili, segni di miglior fattura: a ciò provvederà, nel caso considerato, una valutazione in TC.

Referti veri e falsi, referti che dicono troppo o troppo poco

Consideriamo il fortunato caso in cui il radiologo sia in grado porre con sicurezza una diagnosi di natura, come nel caso di una frattura scomposta di femore: la comunicazione è semplice, diretta, inequivocabile. Ma gli equivoci non possono essere del tutto scongiurati dove c’è interpretazione, e l’interpretazione, in radiologia, è a più livelli: interpreta il radiologo la richiesta del clinico, interpreta il radiologo le immagini, interpreta il clinico la risposta del radiologo. E, non potendo reciprocamente connettere con un cavo la propria con le altrui teste, i medici si affidano a richieste e riposte scritte per aiutarsi reciprocamente a costruire nella mente idee simili alle proprie. La funzione principale del referto è  quella di “dire qualcosa sul mondo”, in particolare su quella parte i mondo che è il paziente: è una funzione referenziale. Nel referto si utilizzano quindi soprattutto “asserzioni”, cioè frasi passibili di essere giudicate vere o false[31], almeno su due piani: corrispondenza tra resoconto osservativo e quanto è presente sull’immagine (nel senso di accordo inter-soggettivo tra esaminatori diversi) e corrispondenza tra resoconto osservativo ed un’altra tecnica di prova.  Il primo livello è quindi la corrispondenza tra la descrizione dell’immagine e quanto è presente  sull’immagine.

A.      “Vedo un nodulo sul radiogramma del torace”

B.      “Ti sbagli, io non percepisco alcun nodulo”

oppure

C.      “Ti sbagli, il nodulo che vedi è un artefatto proiettivo”

Il secondo livello è invece la corrispondenza tra quanto viene percepito sulle immagini e la realtà come è stata oggettivata da una indagine diagnostica di secondo livelli, un prelievo bioptico, il riscontro chirurgico o quello autoptico.

A.      “Vedo un carcinoma sul radiogramma del torace”

B.      “Ti sbagli, ho operato il paziente ed ho trovato un granuloma”

Il referto, oltre ad una funzione referenziale, ne ha però almeno un’altra, meta-linguistica, che serve al mittente (radiologo) per assicurarsi che il destinatario (clinico) utilizzi il suo stesso linguaggio. Consideriamo un solo esempio. Il radiologo apprezza una disomogeneità del cellulare adiposo del mediastino anterosuperiore in un adolescente traumatizzato. Il mediastino antero-superiore in un adulto è sempre omogeneo, perché l’unica struttura che fisiologicamente ha sede in esso (il timo) regredisce con l’età. In un adulto traumatizzato, quindi, qualunque disomogeneità in tale sede deve essere guardata sempre con il sospetto prioritario che si tratti di sangue. Il sangue può avere varie origini, alcune meno gravi, come sanguinamenti di piccoli vasi mediastinici venosi, altre gravi, come il sanguinamento di rami arteriosi ad es. dell’a. mammaria interna, altre potenzialmente fatali se non trattate, come la rottura parziale dell’aorta. La diagnosi di rottura dell’aorta si pone mediante segni diretti e indiretti. L’ematoma del mediastino è un segno indiretto. I segni indiretti comprendono irregolarità dei contorni, flap, trombi endoluminali, etc. Nel caso in questione artefatti da movimento e da indurimento del fascio rendono difficile la valutazione della regione istmica, quella più soggetta a lacerazione. Il referto può esser compilato in modo da mettere più o meno a parte il clinico delle problematiche suddette: solo tre esempi.

·       “Disomogeneità mediastinica. Aorta mal valutabile per artefatti nella regione dell’arco”

·       “Disomogeneità mediastinica riferibile a residuo timico e/o ematoma. Non definiti segni diretti di rottura aortica”

·       “Disomogeneità mediastinica riferibile a residuo timico e/o ematoma. Non definiti segni diretti di rottura aortica nel contesto di artefatti da movimento e indurimento del fascio”

Il referto comunque non esaurisce le possibilità di comunicazione tra radiologo e clinico, che possono condividere sfumature, impressioni difficilmente oggettivabili, preoccupazioni etc. comunicando per così dire fuori verbale, laddove si lavori nello stesso luogo o per lo meno sia possibile un’interazione almeno telefonica ( e presto anche mediata dalla rete).

Oltre la risposta: l’errore

Ogni attività dell’uomo è soggetta ad errore, anche l’attività professionale: in ogni contesto umano, inoltre, l’errore è generalmente temuto per le sue non intenzionali e spiacevoli conseguenze. Forse però, al giorno d’oggi,  in nessun campo come nella medicina l’errore umano è non solo temuto (come è ovvio che sia) ma soprattutto riprovato. La riprovazione sociale dell’errore medico è forse tra i presupposti più potenti della conflittualità legale tra cittadini e medici, conflittualità che ha prodotto, come conseguenza anch’essa non intenzionale,  l’atteggiamento noto come medicina difensiva, caratterizzato in alcuni Paesi (tra cui il nostro) da un pesante impatto organizzativo/economico sul sistema sanitario e psicologico/comportamentale su addetti e pazienti. Le ragioni per cui la riprovazione per l’errore dei medici goda oggi di così facile stampa sono senza dubbio complesse, ma possiamo discuterne almeno una, ben focalizzata da Karl Popper: l’ideale di medicina come pratica fondata sull’autorità. Secondo Popper[32] la medicina è stata dominata fino ai nostri giorni da un’etica professionale centrata “sull’ideale di un’autorità che conosce la propria materia e non commette errori” . Ma poiché, ammette Popper, la nostra attuale conoscenza scientifica “supera di gran lunga ciò che ogni persona può conoscere, anche nel proprio campo specifico” ed è soggetta a rapidi e radicali cambiamenti “per correzione di teorie ed idee errate”, nella scienza l’idea stessa di autorità ha “conseguenze terribili”, poiché “non ci si aspetta che un’autorità possa sbagliare; se sbaglia i suoi errori tendono ad essere coperti per difendere l’idea di autorità. Così, la vecchia etica porta alla disonestà intellettuale”. Insomma, se è vero che “siamo tutti fallibili, ed è impossibile per chiunque evitare di commettere errori, anche quelli evitabili”, la vecchia idea che l’errore sia evitabile “è erronea e ha portato all’ipocrisia”. È interessante notare che Popper, quasi in parallelo con l’analogo concetto espresso da Hayek in sociologia, affermi che la vecchia idea di conoscenza in medicina è fondata sul falso presupposto che la conoscenza scientifica “possa essere acquisita e immagazzinata nella mente di una persona”. Certo “rimane nostro compito evitare errori. Ma per farlo dobbiamo riconoscere la difficoltà” piuttosto che minimizzarla, cercando nel contempo di “reagire al relativismo”, anzi “rifiutarlo” in medicina. Per questo non dovremmo dimenticare che “la verità oggettiva, vale a dire la corrispondenza tra la nostra asserzione e la realtà, è stata molto calunniata. Negare che esista qualcosa come la verità oggettiva è una forma del malessere del nostro tempo”[33]. Certo “potrebbe essere difficile avvicinarci alla verità, ma dobbiamo ammettere che se riconosciamo i nostri errori possiamo, con un po’ di sforzo, avvicinarci alla verità ed essere in grado d’evitare tali errori in futuro”. Perciò “nascondere gli errori deve essere considerato un peccato mortale”[34].  Insomma, se in medicina la pretesa di non sbagliar mai è un’idea “da matti” ed il concetto di verità oggettiva solo un “ideale regolativo”, oltre che esigere la migliore formazione universitaria e la più coerente pratica professionale da parte dei nostri medici, dovremmo forse anche incoraggiare (con idonei strumenti) chi sbaglia a venire allo scoperto affinché l’errore passato diventi un tesoro da spendere per limitare i rischi futuri, con gli occhi fissi sul bene di chi deve essere curato più che sulla condanna morale e legale di chi non è stato “perfetto”nel proprio agire, ma solo “umano”.

 

 

 

 


 

[1] Traggo la citazione da D. Antiseri, Trattato di Metodologia delle Scienze Sociali, Torino, 1996; 5.

[2] Fauci A.S., Braunwald E., Kasper D.L. et al. La pratica della medicina, in Fauci A.S., Braunwald E., Kasper D.L. et al (eds): Harrison, Principi di medicina interna. Milano: McGraw Hill, 2009; 3.

[3] In Mc 4, 12 Gesù afferma: “perché guardino ma non vedano”.

[4] La lingua italiana rende bene in tal modo l’idea dell’efficacia di uno sguardo guidato da un interesse rispetto all’inefficacia di uno sguardo distratto; la penetrazione dello sguardo si oppone alla “leggerezza” suggerita dal verbo “posare”.

[5] E con ciò tento di replicare alla perspicace domanda che il prof. Vito Cagli mi pone dalle pagine de Il Policlinico sez. pratica 2009; 116: 299-301 recensendo il mio Popper e il radiologo, Soveria Mannelli: Rubbettino, 2009.

[6] La polipatologia è esperienza troppo comune nell’attuale lavoro quotidiano del medico ospedaliero (e non solo!)  perché se ne debba dare giustificazione statistica.

[7] Ancora celeberrimo (ed attuale) fra gli addetti ai lavori un poderoso volume risalente all’epoca pionieristica della roentgenologia: Koeler-Zimmer E.A. Limiti del normale ed inizio del patologico nella diagnostica radiologica dello scheletro. IV ed. Milano:CEA, 2005.

[8] Federspil G.:Logica clinica, Milano: McGraw Hill, 2004; 138.

[9] Decreto Legislativo 26 maggio 2000, n. 187, «Gazzetta Ufficiale», n. 157 del 7 luglio 2000 - Supplemento Ordinario n. 105.

[10] Laicus i[dest] lapideus; quia durus et extraneus a scientia secondo una definizione forse essa stessa filologicamente laica, ma almeno divertente, data dal Du Cange. Traggo la citazione dal bel volumetto di A. C. JEMOLO, Coscienza laica, Brescia, 2008, p. 45.

[11] Feltrin G.P., Il Radiologo 2002; 1:51-53.

[12] Non si vuole quindi considerare lo statuto epistemologico della radiologia sperimentale né tanto meno delle discipline di base (fisica, chimica e biologia) che hanno consentito la nascita e lo sviluppo della diagnostica per immagini.

[13] Questa la definizione che della Radiologia (Radiology) ha dato nel 2003 il comitato esecutivo della International Society of Radiology in rappresentanza di 70 società radiologiche nazionali; traggo la definizione da G. RIZZATTO, «Il Radiologo», 1/2003, 16.

[14] Cosmacini G., La medicina non è una scienza, Milano: Raffaello Cortina, 2008.

[15] Nel nostro ordinamento universitario, infatti, esiste un dorso di laurea in “scienze turistiche”.

[16] Popper K.R., Lo scopo della scienza, in Scienza e filosofia. Torino: Einaudi, 1969; 51.

[17] Popper K.R., Logica della scoperta scientifica. Torino: Einaudi, 1970; 20.

[18] Poiché lo stesso fatto può talora essere spiegato da più ipotesi concorrenti senza che sia possibile stabilire con sicurezza quale sia l’ipotesi migliore, la spiegazione può essere provvisoria: il medico può accettare una spiegazione anche con il sospetto che ce ne possa essere un’altra altrettanto o più valida, anche se al momento non disponibile. Il criterio orientativo è allora non tanto la conoscenza vera, ontologica, della reale condizione del malato, ma la necessità pratica di agire secondo priorità variabili: curare, rassicurare, rimandare ad ulteriore e più affidabile controllo, scongiurare ad ogni costo un male improbabile ma catastrofico, etc.

[19] Cfr. su questo aspetto soprattutto Antiseri D., Teoria unificata del metodo. Padova: Liviana, 1980.

[20] La radiologia pratica si differenzia dalla radiologia sperimentale per il fatto che non si propone di scoprire nuove “regole” di indagine, ma utilizzare quelle esistenti. Secondo la fraseologia di Kuhn è una scienza normale, che compie cioè il continuo tentativo di risolvere dei “rompicapi” clinici senza mettere in discussione le “regole” a disposizione.

[21] Federspil G., cit.; 102.

[22] Antiseri D., Cagli V. Dialogo sulla diagnosi. Un filosof ed un medico a confronto. Roma: Armando, 2008; 63.

[23] Pierce C., in Hartshorne C. e  Weiss P. (eds), Collected papers, Harvard: Harvard University Press, 1931-1936, vol. 2, § 228, trad. it in Antiseri D.: Ragioni della razionalità: Interpretazioni Storiografiche, Soveria Mannelli: Rubbettino,  2004.

[24] Gadamer H.G.: Verità e metodo, Milano: Fabbri, 1972. 313-314.

[25] ibidem

[26] Per le considerazioni semeiologiche successive basti consultare un testo per studenti di medicina quale il diffuso Cittadini G. Manuale di Diagnostica per immagini e radioterapia. Genova: ECIG, 1995.

[27] Federspil G., op. cit.; 145.

[28] Contrariamente a quanto si potrebbe credere, ci sono dettagli che si apprezzano meglio su immagini di piccole dimensioni.

[29] Il carcinoma broncogeno di solito raddoppia il suo volume in 2-18 mesi, mentre la stabilità dimensionale perlomeno biennale di un nodulo ne suggerisce la natura benigna.

[30] Solo per diametri maggiori di 4 cm si può propendere per la natura maligna della lesione.

[31] Pisanty V., Zijno A., Semiotica. Milano: McGraw Hill, 2009;  16. 

[32] Popper K. L’atteggiamento critico in medicina. La necessità di una nuova etica. In Popper K. Dopo la società aperta. Roma: Armando, 2009; 463-479.

[33] Popper K. Congetture e confutazioni, trad. it. Bologna: Il Mulino, 1972; X.

[34] Popper K. L’atteggiamento critico in medicina, op. cit.

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