Massimo Lopez
Paul Ehrlich, universalmente riconosciuto come il padre della chemioterapia, intuì e sviluppò un concetto di grande importanza scientifica: i tessuti viventi hanno affinità selettiva per vari composti chimici e, pertanto, i processi biologici sono governati dall’affinità chimica. Questa è correlata alla presenza di recettori cellulari cui devono fissarsi le sostanze terapeutiche (corpora non agunt nisi fixata). Se, quindi, si vuole uccidere un parassita presente nell’organismo con una sostanza chimica, è necessario che questa abbia un’affinità con la struttura del parassita. Inoltre, è possibile modificare appropriatamente la struttura chimica di un farmaco ottenendo un analogo con tossicità ridotta ed efficacia simile o maggiore rispetto al composto madre.
Ehrlich studiò l’attività di una lunga serie di preparati arsenicali in vitro e in vivo, con l’obiettivo di trovare analoghi sempre più efficaci e meno tossici in modo da poter effettuare una chemioterapia specifica, cioè un trattamento con agenti chimici che, da una parte fossero assorbiti da certi parassiti uccidendoli e, dall’altra fossero tollerati dall’organismo senza danno eccessivo.
Le ricerche di Ehrlich furono coronate dal successo con la scoperta, comunicata nel 1910 al congresso medico di Wiesbaden, del diossidiaminoarsenobenzolo che, per la sua notevole efficacia come anti-parassitario, fu denominato salvarsan (salvatore dell’umanità) .
Gli agenti antitumorali furono inizialmente usati su base eminentemente empirica. Ancora negli anni 1950 e parte degli anni 1960, molti farmaci venivano somministrati secondo schedule derivate empiricamente e in dose fissa, senza considerare il peso o la superficie corporea, spesso in maniera continuativa per un periodo di sei settimane, indipendentemente dalla risposta. Probabilmente, a far ritenere valido questo approccio non era estraneo il pensiero che albergava nella mente di molti che sarebbe stato possibile trovare la “pallottola magica” in grado di guarire i tumori. Di fatto, la nozione di pallottola magica era stata lanciata da Paul Ehrlich col concetto di una chemioterapia specifica in grado di uccidere i microrganismi risparmiando le cellule e i tessuti dell’ospite. Con la scoperta dei primi farmaci antitumorali e le spettacolari regressioni ottenute nei linfomi con la mostarda azotata e nelle leucemie con gli antifolici, sembrava imminente poter disporre di varie pallottole magiche per debellare i tumori.
Purtroppo, il concetto di chemioterapia specifica, che nel frattempo aveva trovato applicazione nelle malattie infettive con la scoperta di sulfamidici (prontosil rosso) e antibiotici (penicillina e streptomicina), doveva presto rivelarsi solo un sogno nella terapia dei tumori. Di fatto, già le esperienze con i primi chemioterapici usati evidenziarono subito due importanti limiti di questi farmaci: l’insorgenza di chemioresistenza e la comparsa di effetti tossici anche gravi. Questi ultimi, in particolare, rappresentavano una chiara evidenza che si trattava di composti aspecifici che agivano anche su vari tipi di cellule normali.
Nel corso degli anni successivi, un obiettivo fondamentale della ricerca oncologica è stato quello di sviluppare farmaci o usare approcci che potessero colpire, quanto più selettivamente possibile, le cellule tumorali risparmiando al massimo le cellule normali.
Nel corso degli anni 1960 e 1970, l’acquisizione di nuovi farmaci antitumorali si verificò ad un ritmo sostenuto. Tuttavia, sebbene questi farmaci interferissero con varie strutture cellulari, era chiaro che generalmente il bersaglio era costituito da grandi molecole (per es., DNA, microtubuli, lipidi della membrana) che erano l’espressione di processi vitali della cellula in quanto materia vivente e, quindi, erano comuni a tutte le cellule dell’organismo. Da questo punto di vista, il meccanismo d’azione doveva considerarsi aspecifico e coinvolgeva indiscriminatamente tutte le cellule in proliferazione, fatto che da una parte spiegava il largo spettro d’azione di vari agenti antiproliferativi e, dall’altra, anche la loro rilevante tossicità..
In assenza di un bersaglio specifico della cellula tumorale da poter colpire, gli sforzi dei ricercatori furono piuttosto rivolti ad individuare approcci terapeutici che avessero una selettività più che una specificità per le cellule neoplastiche. Nacquero, così, vari modelli concettuali (per es., modello di Skipper e Schabel, modello di Goldie e Coldman, modello di Norton e Simon) che costituirono anche le basi razionali della chemioterapia e rappresentarono la generalizzazione ai tumori umani di modelli sperimentali oppure l’elaborazione matematica di ipotesi di lavoro. Comune a tutti i modelli elaborati era l’obiettivo di dare una spiegazione alla persistente inguaribilità della maggior parte dei tumori (resistenza) e ad individuare approcci terapeutici in grado di uccidere l’ultima cellula neoplastica (massima citoriduzione).
Complessivamente, sebbene i modelli concettuali abbiano fornito un importante supporto per sistematizzare le modalità di crescita e di regressione dei tumori ed individuare approcci terapeutici teoricamente in grado di eradicare l’ultima cellula neoplastica, l’esperienza clinica non ha di fatto dimostrato che essi possono essere applicati efficacemente in oncologia.
L’approccio tradizionale alla terapia del cancro rivolto a sviluppare la selettività d’azione dei farmaci antitumorali (Tab. 1) ha di certo contribuito significativamente a migliorare la sopravvivenza dei pazienti neoplastici e, in alcuni casi, a guarire determinate neoplasie.
Tabella 1. Azione selettiva dei farmaci antitumorali
1. Azione su vie metaboliche selezionate
2. Differenze nella velocità di proliferazione tra cellule tumorali e cellule normali
3. Tossicità selettiva in rapporto alle varie fasi del ciclo cellulare
4. Schedule di combinazione dei farmaci in grado di potenziare al massimo l’intensità del trattamento
5. Incremento della distribuzione del farmaco nel tessuto tumorale
Probabilmente, tuttavia, il maggior contributo all’individuazione di trattamenti specifici potrà derivare dai cambiamenti a livello concettuale e dagli avanzamenti tecnologici che condurranno ad una conoscenza sempre più approfondita del profilo molecolare delle varie neoplasie.
Circa 35 anni fa, esistevano vari modelli interpretativi delle origini del cancro. In particolare,
l’ ipotesi che il cancro potesse essere una malattia genetica è derivata dagli studi di Bruce Ames che, verso la metà degli anni 1970, dimostrarono come l’attività cancerogena di varie sostanze chimiche nell’animale da esperimento, fosse correlata alle proprietà mutagene di queste sostanze. Si poteva, quindi, ipotizzare che le cellule neoplastiche fossero cellule mutate contenenti geni mutati cui era dovuta la loro crescita abnorme. L’avere scoperto molti geni mutati nelle cellule neoplastiche, in genere per mutazioni somatiche ma talora per effetto anche di mutazioni germinali, ha fatto perdere ogni credibilità alla teoria epigenetica.
Il cancro, pertanto, è attualmente considerato una malattia genetica basata essenzialmente su mutazioni che producono oncogeni e geni oncosoppressori con alterata funzione. Le alterazioni finora riscontrate sono numerosissime e possono rappresentare possibili bersagli terapeutici, dando la sensazione di poter disporre di mezzi idonei per selezionare trattamenti finalmente specifici, cioè indirizzati verso singole alterazioni cellulari presenti esclusivamente nelle cellule tumorali. Sono stati così sviluppati numerosi farmaci a bersaglio molecolare e, attualmente, l’oncologia è di fatto al primo posto nella ricerca di farmaci biotecnologici.
Ma quanto specifici devono realmente essere questi farmaci?
I farmaci a bersaglio molecolare (molecularly targeted agents), utilizzati in quella forma di trattamento definita terapia molecolare, sono agenti diretti contro “bersagli molecolari” attivati nella cellula neoplastica. In genere, i bersagli della terapia molecolare sono proteine poiché queste rappresentano le molecole attraverso le quali il messaggio contenuto nella sequenza di un gene viene trasformato in un’azione che modifica il comportamento della cellula.
Oggi, grazie all’uso della sintesi combinatoria è possibile la preparazione rapida di un gran numero di composti e identificare una sostanza chimica che è specifica addirittura per 1/1.000 possibili stati conformazionali che possono essere assunti da una proteina. Non è, pertanto, difficile disporre di un farmaco con azione specifica su un determinato bersaglio. È, invece, difficile poter disporre di un bersaglio specifico della cellula tumorale, la cui inibizione comporti la morte o l’arresto della proliferazione cellulare.
La proteina bersaglio ideale dovrebbe avere le seguenti caratteristiche: a) dovrebbe essere specifica della cellula neoplastica per opera di una mutazione che altera la struttura primaria della proteina o di un riarrangiamento con formazione di un prodotto chimico non presente nelle cellule normali; b) dovrebbe essere presente in tutti i pazienti affetti da una determinata neoplasia; c) dovrebbe essere presente in tutte (o almeno in una percentuale significativa) le cellule tumorali di ogni paziente; d) dovrebbe conferire alla cellula tumorale un vantaggio replicativo selettivo rispetto alle cellule che non la contengono; e) le cellule tumorali devono essere dipendenti dalla proteina bersaglio. Se tutto ciò si verificasse, varie sarebbero le conseguenze vantaggiose in caso di inibizione della funzione della proteina: a) soppressione del fenotipo trasformato con conseguente arresto della progressione della neoplasia; b) induzione della morte della cellula tumorale; c) tossicità selettiva per la cellula neoplastica con scarsi effetti collaterali.
Una condizione simile a quella ideale appena descritta, si è verificata nel trattamento con imatinib della leucemia mieloide cronica che, oggi, rappresenta il modello di riferimento per lo sviluppo della terapia molecolare. Purtroppo, non è prevedibile che simili condizioni possano riscontrarsi nella maggior parte dei tumori umani, essendo in genere presenti alterazioni multiple.
Se il riscontro di singole alterazioni genetiche con significato patogenetico è un evento infrequente nelle neoplasie umane, è tuttavia possibile rinvenire, virtualmente sempre, alcune caratteristiche peculiari acquisite (Tabella 2) che conferiscono quella autonomia proliferativa e quelle caratteristiche colonizzatrici che sono da tempo riconosciute peculiari della cellula tumorale.
Tabella 2. Le otto capacità acquisite essenziali della cellula
neoplastica
1. Auto-sufficienza dei segnali di crescita 2. Insensibilità ai segnali inibitori della crescita 3. Elusione della morte cellulare programmata 4. Potenziale replicativo illimitato 5. Neoangiogenesi 6. Invasione e metastasi 7. Elusione del sistema immunitario 8. Acquisizione di instabilità genomica
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Interferire farmacologicamente con questi meccanismi, costituiti da apparati molecolari comuni a tutte le cellule di mammiferi in quanto deputati alla regolazione della proliferazione, differenziazione e morte cellulare, può anche tradursi in un effetto terapeutico poiché può ridurre o annullare il vantaggio replicativo della cellula tumorale.
Sebbene il termine ”terapia molecolare” appaia piuttosto impreciso poiché tutti i farmaci hanno in genere molecole come bersaglio, la percezione generale è che si tratti di una nuova forma di terapia che usa farmaci altamente specifici con l’obiettivo di agire su alterazioni cellulari singole presenti solo nella cellula neoplastica. Gli agenti a bersaglio molecolare possono essere effettivamente molto specifici, ma il ruolo biologico del bersaglio col quale interferiscono non sempre è rilevante nel contesto della specifica neoplasia considerata. Esiste, pertanto, la necessità di caratterizzare meglio i bersagli.
I bersagli cellulari che possono essere presi in considerazione nell’ambito della terapia molecolare sono grossolanamente di due tipi: a) alterazioni molecolari specifiche, geneticamente definite, aventi un ruolo patogenetico; b) molecole o pathways generali, attivati nella cellula tumorale per garantire le varie attività cellulari che consentano di sfuggire ai meccanismi di controllo dell’organismo.
Esempi ormai classici del primo tipo di bersaglio sono la proteina Bcr-Abl nella leucemia mieloide cronica (LMC) ed il recettore KIT mutato nei GIST. Entrambi possiedono un’attività tirosinchinasica specificamente inibita dall’imatinib.
Teoricamente, non si può escludere che alterazioni genetiche singole aventi un ruolo patogenetico, come nei casi appena riportati, possano riscontrarsi in singoli istotipi. Questa, tuttavia, è un’evenienza da considerarsi rara. Inoltre, l’uso di un farmaco diretto contro un unico bersaglio può non rappresentare la scelta ottimale, essendo in genere molteplici i fattori coinvolti nella crescita neoplastica.
L’approccio corretto sembrerebbe essere quello diretto contro bersagli multipli, preferenzialmente bersagli accuratamente individuati di cui si conosca la funzione specifica nella singola neoplasia da trattare. Non è ancora noto quale sia il modo migliore per raggiungere questo obiettivo, ma possono essere considerate varie ipotesi, anche se si potrà essere più precisi via via che aumentano le conoscenze sulle alterazioni molecolari dei tumori. Può essere considerata l’azione di più agenti specifici o l’uso di agenti intrinsecamente in grado di interagire con bersagli multipli. Quest’ultimo approccio sembra essere quello più vantaggioso e più rapido ai fini della registrazione di agenti attivi.
Non bisogna, però, neppure tralasciare di considerare il potenziamento della selettività dei trattamenti antitumorali tradizionali interferendo appropriatamente con i percorsi molecolari della cellula. Numerosi esempi possono essere riferiti al riguardo, tra cui le associazioni di agenti chemioterapici con trastuzumab, cetuximab o bevacizumab.
Alla base di ogni considerazione delle conseguenze relative all’interferenza tra farmaci e bersagli molecolari sta, tuttavia, la conoscenza approfondita dei meccanismi molecolari operativi nella specifica neoplasia, quale può derivare dallo studio appropriato di campioni di tessuto neoplastico.
L’individuazione di mutazioni a carico di EGFR, per esempio, ha consentito di chiarire almeno parzialmente i meccanismi su cui si basa l’attività di alcuni inibitori delle tirosinchinasi, quali gefitinib ed erlotinib, nel carcinoma polmonare non a piccole cellule.
I numerosi studi in corso, tuttavia, lasciano prevedere che lo scenario cambierà completamente nei prossimi anni. Attualmente, non è ancora possibile disporre della descrizione di ogni singola lesione genetica in un tumore diagnosticato di recente. Inoltre, poiché l’espressione del gene può cambiare durante il decorso della neoplasia, può essere anche necessario conoscere questi cambiamenti al fine di selezionare il miglior trattamento. Oggi, l’individuazione dello stato attuale del genoma umano sta diventando un atto routinario eseguibile in poco tempo. È verosimile che saranno anche acquisite tutte le informazioni necessarie per completare il diagramma della fitta rete di segnali utilizzati dalla cellula. Ricorrendo a modelli matematici sarà anche possibile capire in quale modo alterazioni genetiche specifiche sono in grado di riprogrammare il circuito integrato della cellula per generare un tumore.
Con la conoscenza chiara e completa di questi meccanismi, la prognosi ed il trattamento del cancro diventeranno una scienza razionale e sarà possibile sapere quando e come usare i farmaci antitumorali. Avremo farmaci capaci di interferire con qualsiasi meccanismo molecolare determinante, da usare sia a scopo terapeutico che preventivo. Avremo farmaci ancora più “intelligenti” di quelli attuali, attivi su siti molteplici e con azione globale sul genoma. Forse, allora terminerà la ricerca della specificità d’azione dei farmaci antitumorali. Forse, allora, si potrà guarire ogni tipo di cancro. Forse, perché la cellula neoplastica non ha mai finito di sorprenderci!
Bibliografia selezionata
Lopez M, Gebbia N, Cascinu S, Marchetti P (eds.): Lopez Oncologia Medica Pratica (3a ed). Roma, Società Editrice Universo, 2011
De Vita, Hellman, and Rosenberg’s Cancer: Principles and Practice of Oncology. 9th edition. Philadelphia, Walters Kluver Lippincott Williams & Wilkins, 2011
Weinberg RA: The Biology of cancer. New York, Garland Science, 2007
PER LA CORRISPONDENZA:
Prof. Massimo Lopez Primario Oncologo Emerito Istituto Nazionale Tumori, Roma
e-mail: massimo.lopez2010@gmail.com