LE RADICI BIOLOGICHE DELLA VIOLENZA: UN’IPOTESI EVOLUZIONISTICA
Dott. VOLFANGO LUSETTI
In questa relazione prenderò in esame tre temi, tre aspetti delle radici biologiche della violenza, le quali, pur se presenti da sempre, sembrano emergere di prepotenza, in particolare, nella società attuale, liberata da ogni codice o vincolo di carattere morale “tradizionale”.
1) il primo tema circa le radici biologiche della violenza riguarda il conflitto, mortale ed insanabile, che sembra intercorrere fra le generazioni, e più in particolare, fra i padri ed i figli.
Gli esempi di cronaca, nel mondo occidentale, non mancano di certo: madri che in preda ad immotivati “raptus” o per misteriose “depressioni” uccidono i propri figli (talora subito dopo il parto); figli che all’apparenza per motivi banali (eredità, avidità di denaro, desiderio di “indipendenza”) sterminano con freddezza, e spesso con l’aiuto di coetanei, i propri genitori o l’intera famiglia; pedofilia, talora organizzata da bande di pedofili illustri, potenti ed “insospettabili”; atti incestuosi, in particolare provocati dai padri verso le figlie, e spesso verso le figlie minorenni; bande giovanili scatenate le une contro le altre e contro la “società” degli adulti, con atti omicidi apparentemente “immotivati” (vedi ad es. il lancio delle pietre dai cavalcavia, o gli episodi dilaganti di piromania); turismo sessuale degli adulti occidentali nei paesi del terzo mondo, spesso ai danni di minori; giovani infermieri/e che senza ragioni precise divengono serial killers di anziani ed uccidono numerosi pazienti senza apparente motivo; ecc. ecc..
Però vediamo anche, sempre più spesso, fenomeni di violenza giovanile che a prima vista non sembrano collegati al conflitto intergenerazionale, quali il cosiddetto bullismo, la violenza sessuale ai danni delle ragazze, l’attacco alle minoranze etniche ed ai soggetti più deboli (handicappati, omosessuali, anziani, ecc.); oppure assistiamo allibiti al fenomeno, per ora tipicamente americano, delle stragi di massa effettuate da giovani ai danni di coetanei (ad es. nei campus scolastici); anche questi ultimi fenomeni, però, a ben vedere, possono essere facilmente ricollegati al conflitto intergenerazionale: si tratta infatti molto spesso di giovani che, se si analizzano bene le loro biografie, reagiscono ad una forte pressione predatoria che sentono giungere su di sé dal mondo adulto o dalla stessa famiglia, e che la fanno propria, la emulano; e ciò al solo fine di e stornarla da sé stessi e di indirizzarla su altri.
Il fatto che i giovani scatenino la propria aggressività, il più delle volte, ai danni dei soggetti che meno sono capaci di difendersi, piuttosto che degli adulti da cui si sentono attaccati, deriva poi, come ben sa chi conosce la psicologia giovanile, dal desiderio di negare la propria passività e debolezza di fronte agli adulti, e di rivolgerla contro soggetti ancora più passivi e più oggetto della pressione adulta e maschile, ossia su delle vere prede sostitutive si sé stessi, su dei “sostituti simbolici” della propria ricettività e passività: l’attacco di gruppo agli omosessuali, in questo senso, appare l’esempio più emblematico di tale comportamento “reattivo” dei giovani.
Si tratta dunque, a ben vedere, di giovani che divengono violenti perché si trovano sotto una pressione (anche di carattere sessuale) degli adulti, che possiamo senz’altro definire predatoria; essi pertanto cercano disperatamente di passare dal ruolo di vittime a quello di carnefici, dalla posizione passiva a quella attiva.
Gli esempi di conflitto intergenerazionale che ci vengono dai paesi del terzo mondo, poi, ove i cosiddetti “valori” tradizionali della famiglia, generalmente considerati “protettivi” verso tale conflitto, dovrebbero essere ancora assai saldi, sono se possibile ancora più impressionanti: infanticidi di massa compiuti da immonde polizie di stato, bambini-soldati trasformati dagli adulti in feroci killers e scatenati contro altri adulti (talora a fini propriamente bellici), proliferare esponenziale della delinquenza dei minori nelle megalopoli più degradate e misere, prostituzione minorile altrettanto dilagante, dissoluzione del nucleo familiare tradizionale, scomparsa virtuale del ruolo paterno e ritorno ad un assetto culturale che di fatto è matriarcale, ecc.
Il conflitto tra le generazioni è un tema di cui molto si discute, e che è di moda valutare in termini assai superficiali e banalmente sociologizzanti; le analisi che si fanno in questo campo, infatti, sembrano più volte ad occultare la natura di questo problema che a illuminarla.
Secondo il modo di vedere oggi in voga, dunque, il conflitto fra le generazioni sarebbe un fenomeno del tutto contingente, ossia storico-culturale, non antropologico: esso sarebbe il risultato della crisi irreversibile delle strutture della vecchia società tradizionale, nonché dei cosiddetti “riti di passaggio” e dei “valori” che la fondavano, quali la religione, la morale e la famiglia allargata; insomma, sarebbe il semplice prodotto del tramontare di una visione del mondo riferibile alla concezione patriarcale.
Allo stesso tempo, il conflitto fra le generazioni sarebbe il risultato del diffondersi nella società moderna di stili di vita completamente nuovi e non adeguatamente supportati dalla creazione di nuove strutture e “valori”: la crisi del matrimonio, che mette in discussione la stessa famiglia nucleare succeduta alla famiglia patriarcale, il diffondersi delle separazioni, dei divorzi e delle coppie di fatto (col conseguente crearsi di famiglie “a geometria variabile”, con fratelli e sorelle di padri e madri diversi), il dilagare dell’aborto e delle tecniche di fecondazione assistita, la liberazione di nuovi soggetti e di nuovi bisogni (quelli delle classi subalterne, delle donne, delle minoranze, degli immigrati, degli omosessuali, ecc.), il mutare degli stili comunicativi legato al diffondersi imponente della tecnologia, dei mass media, dei cellulari e di Internet, che vanifica la comunicazione tradizionale “faccia a faccia” e la rende virtuale; ancora, la carenza di ascolto e la solitudine dei giovani nelle famiglie, la crisi della scuola, il formarsi di gruppi giovanili sempre più separati ed esclusivi, il mito del denaro e del successo facile, e via via sociologizzando.
Questo modo di vedere le cose, apparentemente così rispettoso della “complessità” del reale e culturalmente “sofisticato”, mi appare invece assai superficiale e banale; ma soprattutto, esso è poverissimo di idee.
Non che tutti questi elementi sociologici manchino, certo, nel quadro della attuale realtà; tuttavia è abbastanza curioso che in queste compunte e seriosissime analisi ci si soffermi minuziosamente sulle ragioni contingenti per cui un tale conflitto fra le generazioni starebbe emergendo (che si riassumono poi, a ben vedere, nel venir meno di alcuni storici freni ed antidoti verso esso), e che allo stesso tempo si dia per scontato il fenomeno della violenza in sé, come se fosse la cosa più naturale del mondo e senza darsi la minima pena per capirlo.
Sarebbe come se di fronte al diffondersi di una epidemia, anziché studiare la struttura del virus patogeno chiamato in causa, ci si limitasse a preoccuparsi dei suoi presunti veicoli di trasmissione, o degli ipotetici mezzi per impedire il contagio, esattamente come si faceva al tempo delle pestilenze di manzoniana memoria!
Insomma, sembra che agli occhi di tanti pensosi osservatori della realtà attuale, il fatto che nelle viscere della nostra cultura e delle nostre società sonnecchi un conflitto mortale ed implacabile fra giovani e vecchi, fra padri e figli, che è pronto a risvegliarsi, con una violenza incredibile ed apparentemente sproporzionata all’oggetto, alla prima occasione e pretesto, sia la cosa più naturale del mondo, e valga solo la pena di domandarsi che cosa ne facilita, di volta in volta, l’emersione!
Il giovane si “annoia”, o è solo e disperato, perché gli adulti non lo “ascoltano”? Allora è “naturale” che tiri i sassi dal cavalcavia o che ammazzi! La donna va in giro da sola, appare troppo “libera”, mentre non esiste ancora nella società attuale una “cultura” che preveda ciò? Allora è “naturale” che il branco provi l’impulso di violentarla! L’adolescente viene lasciato a sé stesso, i suoi genitori sono assenti e non gli trasmettono più “valori”? Allora è “naturale” che provi l’impulso di ucciderli, e che talora lo faccia davvero! Egli ha con sé, a scuola, degli handicappati, ed i genitori o gli insegnanti non lo “educano” a rispettarli, oppure i mezzi di comunicazione a sua disposizione lo “tentano”? Allora è “naturale” che egli usi loro violenza, e che poi invii i filmati di questa violenza su You tube! Ecc. ecc.
La spiegazione ultima che si da a questi fenomeni dilaganti di violenza, poi, in genere chiama in causa, non del tutto a torto, i cattivi “esempi” degli adulti e dei genitori attuali; questa “spiegazione” però, se come spesso accade si limita ad un’analisi culturale (e spesso moralistica) dell’influenza dei vecchi sui giovani, in realtà non regge, poiché dimentica con disinvoltura un fatto fondamentale proprio sul piano culturale: gli “esempi” che ai giovani si davano in passato, da parte del mondo adulto, erano di certo molto più cruenti ed implacabili di quelli di oggi (ad es. la guerra e la preparazione ad essa fin dall’infanzia, attraverso alcuni precisi “riti culturali di passaggio” di tipo marziale, o guerresco), ma ciò nonostante il conflitto fra le generazioni era molto meno evidente di adesso.
La società “adulta” di oggi, in realtà, più che capace di fornire esempi in positivo che spingano alla violenza o che viceversa la inibiscano, appare del tutto incapace di fornire esempi di qualunque tipo; perciò la violenza odierna, più che essere “emulativa” degli adulti (come era, appunto, quella impartita ai giovani dagli anziani, nei riti di passaggio tribali che preparavano alla guerra), sembra essere un elemento primordiale che emerge allo stato “puro”, e che è in grado di “liberarsi” proprio a causa del venir meno delle ritualità che nelle culture precedenti la regolavano e la padroneggiavano, nonché dei freni inibitori e dei “tabù” che la reprimevano e la canalizzavano verso altre mete.
Perciò, considerare il fenomeno della violenza giovanile e del conflitto fra le generazioni come se fosse il risultato dell’azione della cosiddetta “cultura dominante” del mondo degli adulti, ci sembra del tutto “edificante” ed assolutorio: ciò non solo e non tanto rispetto alle “responsabilità”, individuali dei giovani e delle loro famiglie, quanto, e soprattutto, rispetto alle caratteristiche della natura umana presa in sé stessa.
Facciamo un esempio ancora più chiaro della cecità ideologica dalla quale siamo attualmente afflitti: l’autentica crociata in atto da molto tempo nel mondo occidentale contro ogni limite morale o giuridico che si opponga ai diritti individuali, nonché contro la religione e contro i tabù di ogni genere (tabù fra i quali qualcuno vorrebbe mettere perfino la pedofilia e l’incesto), sembra un classico esempio dell’atteggiamento non esattamente perspicace di chi, posto di fronte ad un dito che indica la luna, guarda il dito e non la luna: in linea teorica, infatti, se può sembrare un’ottima cosa, sulla scia di Jan Jacques Rousseau, proporsi di “superare i tabù”, le costrizioni sociali ed i codici morali, al fine di “liberare” un individuo da considerarsi in sé “naturalmente buono” da ogni pastoia collettiva che ne possa limitare i “diritti” e la “libera espressione”; tuttavia sarebbe opportuno domandarsi, preliminarmente, a cosa mai i codici morali ed i tabù siano serviti in passato: ossia, per quale motivo la nostra specie li abbia istituiti, e quale sia l’eventuale importanza di tale istituzione.
Addirittura sconcertante, poi, è la ripetitività quasi stucchevole con cui si afferma, da parte della cultura ideologicamente “corretta”, che i valori “machisti” e violenti, di avidità e di sopraffazione, di successo facile ed ottenuto a spese di qualunque principio, sarebbero “creati ex novo” (in una gioventù che sarebbe di suo, si presume, tendenzialmente angelica) dalla civiltà moderna, dai mass media ed in particolare dalla televisione, dai video-giochi, dal cinema, ecc. Ciò, quasi che da una cultura ben altrimenti machista e tribale, sopraffattrice e violenta, non fossimo appena usciti, in Occidente, attorno alla metà del ventesimo secolo!
In particolare, le nostre società occidentali sono appena uscite dalla cultura programmaticamente violenta del maschilismo e dell’oppressione della donna, dello sfruttamento lavorativo dei bambini e dei maltrattamenti familiari, della guerra e del duello, dell’onore e del sangue; e ne sono uscite, paradossalmente, proprio nel momento in cui la televisione ed i videogiochi (cioè l’ipotetica matrice di ogni male) stavano nascendo, e la cultura da essi “liberata”, femminista, individualista ed egualitaria, proclamava, sia pure fra mille contraddizioni, di voler rovesciare questi valori violenti nel loro contrario, e sembrava avviarsi a divenire egemone!
Ma tant’è: agli ideologi che si sono fatti autori di questi banali sociologismi non interessano né le contraddizioni né la logica, ma solo nascondere, agli altri ed a sé stessi, le cause dei problemi, quando esse sono sgradevoli: e ciò al fine di assolvere comunque, a qualunque costo, la natura umana, dissolvendola in un non meglio definito “ambiente sociale”.
In altre parole, alla cultura “corretta” interessa solo ottundere la percezione dell’essenza irriducibilmente predatoria dell’uomo, annegandola in una melassa buonistica nella quale la “colpa” della violenza individuale è sempre di “altri soggetti”, sempre però più o meno impersonali: di volta in volta lo Stato, il potere, la società divisa in classi, il capitalismo, il mercato globale, le religioni, ovvero un indefinito e maligno “collettivo”.
Ancora, sembra quasi che tutti questi enti impersonali e collettivi, in continuazione negli ultimi duecento anni, come dei moderni Satana, si siano dati il cambio nel rapinare l’individuo delle sue magnifiche ed irripetibili virtù, quasi che quest’ultimo non avesse nulla a che fare con un tale collettivo, ne fosse completamene innocente e non concorresse potentemente e costruirlo e farlo funzionare, in primo luogo tramite il mercato: nessuno, infatti, vedrebbe programmi violenti in televisione, o sarebbe attratto dai videogiochi violenti e li comprerebbe, se non portasse la violenza in sé, almeno allo stato potenziale; né, d’altra parte, il mercato televisivo e quello dei videogiochi prospererebbero, se i contenuti violenti trasmessi da questi semplici veicoli di propagazione non “tirassero” in misura formidabile sul mercato stesso, e non incontrassero l’attenzione e la preferenza degli acquirenti!
Ma da gran tempo, ormai, un’imperante sociologia ideologizzata, di derivazione prima rousseauiana e poi anarchica e marxista, ci ha abituato a considerare il cosiddetto “male” della nostra natura individuale come un semplice prodotto, superficiale e transeunte, della “cultura dominante”, ossia della religione e dello Stato, del mercato e della “società”, ed ha sfruttato con grande abilità, a mero fine di potere, il nostro grande desiderio di auto-assolverci e di proiettare le nostre caratteristiche fuori di noi!
A quanto pare non siamo ancora guariti da questa plurisecolare malattia ideologica, allo stesso tempo stupida e moralistica, feroce e deresponsabilizzante, ipocrita e violenta.
La prima domanda che dovremmo porci, dunque, è proprio questa: perché mai esiste allo stato latente un tale feroce conflitto fra padri e figli, che emerge alla minima occasione e pretesto? Perché questo fenomeno se ne sta sordamente insediato, forse da tempi immemorabili, alla base del rapporto fra le generazioni?
Solo dopo avere almeno tentato di rispondere a questa domanda preliminare, che è assolutamente di base, ci sembra possibile passare ad interrogarsi sugli eventuali elementi favorenti del fenomeno e sui suoi possibili rimedi.
Lo storico greco Erodoto, già nel V secolo avanti Cristo, vedeva con grande chiarezza questo conflitto di base, riuscendo per la verità a fornirne una analisi di gran lunga più lucida ed intelligente delle attuali:
“Le guerre sono espressione di un conflitto eterno fra le generazioni, nel quale i padri mandano a morte i propri figli”
“Le rivoluzioni sono un’altra espressione dello stesso conflitto, nella quale però sono i figli a mandare a morte i padri”.
Ma perché il comportamento ed il pensiero dell’uomo sono così intrisi di aspetti predatori che riguardano il rapporto fra le generazioni, e che necessitano, per evitare l’estinzione della specie, di terribili ritualizzazioni collettive, di periodici sanguinosi antidoti, di apocalittici sfoghi catartici, quali le guerre e le rivoluzioni?
Sembra lecito sospettare che il conflitto predatorio fra le generazioni sia una dinamica strutturale della mente umana: una dinamica che come tale esiste da sempre, e che perciò è largamente svincolata da ogni contingenza storica e culturale.
Secondo ipotesi antropologiche ormai accreditate, la specie umana, nel corso della sua evoluzione e dal momento stesso della sua nascita, ha praticato il cannibalismo: in particolare quello del maschio adulto verso la prole che attorniava la femmina.
Il cannibalismo verso la prole, in numerose specie animali ed anche nei primati, è una efficace strategia di sopravvivenza alla penuria di cibo, ed è anche una strategia di diffusione dei geni del cannibale in seno alla specie.
Come strategia nutrizionale, per molto tempo il cannibalismo ha affiancato lo sciacallaggio in numerose specie, ed è tuttora osservabile in alcune di esse.
Come strategia di diffusione genetica, gli studi della primatologa Jane Goodall sugli scimpanzè del Gonde mostrano che i maschi spesso attaccano i piccoli; la stessa cosa si osserva nei leoni ed in molte altre specie, meno affini alla nostra degli scimpanzé.
Il cannibalismo, dunque, come numerosi indizi inducono a ritenere, può essere esistito anche nella nostra specie (strettamente affine agli scimpanzè): esso può avere rappresentato una strategia vincente che univa alla risposta al bisogno alimentare creatosi in occasione di una qualche catastrofe naturale (vedi ad es. l’ipotesi di una catastrofe ambientale, 4 milioni di anni fa, nel corno d’Africa, principale habitat dei nostri progenitori, formulata dalla primatologa Elisabeth Vrba), un preciso vantaggio genetico: infatti il maschio dello scimpanzè, promiscuo ed erratico come la femmina, passa di solito da un gruppo all’altro e semina la propria progenie un po’ ovunque; egli ha perciò un preciso vantaggio genetico nell’attaccare la prole che attornia la femmina (la quale, il più delle volte, non è la sua); così facendo, oltre che nutrirsi di cibo pregiato con scarso rischio, “sgombra” il campo dai geni della prole estranea, facendo spazio ai propri.
2) Un secondo tema sulle radici della violenza è quello inerente la natura degli strumenti antipredatori, ossia degli antidoti, dei contrappesi biologici con cui la nostra specie può aver cercato in passato, e forse cerca tuttora, di ammorbidire e rendere meno distruttiva l’eterna dinamica predatoria fra padri e figli (una dinamica assai distruttiva perché interna alla specie), ossia di padroneggiarla; e ciò al semplice fine di evitare di giungere, prima o poi, all’estinzione collettiva.
Gli strumenti antipredatori che la nostra specie ha messo a punto, secondo la nostra ipotesi sono essenzialmente due: la sessualità perenne ed i codici simbolici di base dell’uomo collegati al linguaggio ed alla coscienza auto-riflettente.
I codici simbolici si sono sviluppati a partire dalle caratteristiche cerebrali che sono alla base del linguaggio simbolico e della coscienza umane, e ne sono i principali derivati: la magia, la religione, il rito sacrificale, la coscienza morale e la colpa.
Di questi due correttivi alla atavica attitudine cannibalica umana (sessualità e codici simbolici), i miti biblici del Peccato Originale e del “frutto proibito” (che corrisponde chiaramente al figlio da cannibalizzare) nonché quello dell’”albero della conoscenza” (ovvero del Bene e del Male) sono forse le tracce più suggestive ed eloquenti.
Cominciando con la sessualità, occorre ricordare che la sessualità femminile, nella specie umana, con il superamento dell’estro assunse, per la prima ed unica volta nella storia delle specie viventi, un carattere perenne: la femmina dell’uomo, infatti, è l’unica ad essere perennemente ricettiva al maschio, sul piano sessuale.
Ma a cosa fu dovuta una tale particolarissima singolarità biologica?
La risposta a questa domanda, sia pure in forma ipotetica, in realtà è stata già fornita dall’antropologia: la ricettività perenne della femmina umana ebbe probabilmente il compito di costituire un freno contro il cannibalismo del maschio adulto verso la prole, fornendo alla specie la possibilità di scambiare “sesso contro carne”.
Questa ipotesi è stata formulata in particolare dalla primatologa Sarah Hrdy, la quale ha postulato che il superamento dell’estro femminile (e l’ipersessualizzazione del comportamento umano che ne è seguita) sia stato uno strumento di implementazione delle attrattive sessuali della femmina verso il maschio: dunque uno strumento per rabbonire il maschio e distrarlo dalla sua attenzione cannibalica verso la prole.
Tuttavia la sessualità perenne della femmina, se nell’immediato poté distrarre il maschio dalle sue pratiche cannibaliche, dall’altro lato, nel lungo periodo, insieme ai periodi fertili gli nascose, sul piano genetico, ogni certezza circa la propria paternità, riaccendendo la sua ostilità verso la prole.
La ricettività perenne della femmina prese poi a fomentare nella prole (sempre vicina alla madre, e divenuta essa stessa ipersessuale) comportamenti incestuosi verso la madre, con conseguente, ulteriore motivo per una ripresa dell’antagonismo predatorio padre-figlio.
La sessualità perenne perciò, se in prima istanza riuscì provvisoriamente ad arginare il cannibalismo maschile contro la prole, alla fine rappresentò una vera e propria “mela avvelenata” per il maschio adulto, e lo costrinse ad adottare di nuovo dei comportamenti predatori verso la prole, anche se questi erano ormai fortemente temperati ed attenuati dalla sessualità stessa: in particolare, erano spesso sessualizzati e trasformati in forme di predazione sessuale.
Il Serpente che tentò Eva (e su istigazione del quale Eva, a sua volta, tentò Adamo) fu probabilmente proprio la sessualità perenne: o meglio, una sessualizzazione del cannibalismo indotta dalla ricettività sessuale femminile perenne.
Il ciclo sessuale occulto e la ricettività sessuale perenne della femmina, prima traendo in inganno il maschio circa la sua paternità e poi scatenandogli contro i figli (divenuti suoi aperti rivali sessuali), assunsero perciò, nell’immaginario della specie, il carattere “subdolo” del Serpente: un animale infido, nascosto, sommerso, “circolare”, che si solleva all’improvviso a tradimento, e nel quale l’inizio e la fine del corpo non sono nettamente differenziati a livello macroscopico; ciò esattamente come avviene nel ciclo sessuale della donna, ove il periodo fertile compare anch’esso all’improvviso e di nascosto, senza segnali premonitori percepibili dal maschio.
La femmina dal canto suo, spinta dalla sessualità perenne e dalla pressione predatoria del maschio, prese probabilmente ad accoppiarsi con in maschi più conosciuti, meno erratici e meno predatori; quindi, di necessità, prese a praticare sistematicamente l’incesto con i propri figli, al fine di selezionare per conto della specie la prole da lei stessa prescelta e plasmata come più sessualizzata e meno predatoria, più intelligente e comunicativa, in una parola, più sociale; ed anche al fine di usarla, una volta educata opportunamente, come strumento di difesa verso i maschi più cannibalici.
Ma tale lotta anticannibalica contro il maschio, condotta dalla femmina attraverso una intensa selezione della prole e dei partners sessuali, indusse in lei, a sua volta, l’adozione di comportamenti cannibalici e predatori verso la prole da selezionare; di ciò è forse una traccia la frequenza di infanticidi da parte di madri “depresse”.
Dall’altro lato indusse comportamenti incestuosi nella femmina (e pedofilici nel maschio) con tale intensità da scatenare una rovinosa lotta fra le generazioni dello stesso sesso, e da rendere così necessaria l’istituzione del tabù dell’incesto ed il sorgere del patriarcato, come argini estremi alla strapotente e pericolosa sessualità femminile.
Dall’altro lato, l’intensiva e lunga selezione della prole più sociale ed intelligente (cioè anticannibalica) condotta dalle femmine sulla prole, indusse nella nostra specie un imponente sviluppo cognitivo ed intellettuale: a tale sviluppo fa riferimento il biblico “Albero della Conoscenza” o “del Bene e del Male”, da cui pendeva il “frutto proibito” della predazione: l’Albero ed il suo frutto, infatti, facevano morire, ma potevano anche, alla fine, dare alla specie la sapienza. Ma tale sviluppo psichico e linguistico, a sua volta, da semplice strumento comunicativo e suggestivo di segno antipredatorio, si trasformò in strumento di selezione e di asservimento predatorio, e portò alla creazione di un gruppo umano altamente omologante e selettivo.
Per tornare al nostro tema, le “radici biologiche della violenza”, dunque, sono proprio le radici dell’albero della sapienza: esso infatti è anche l’albero della predazione cannibalica e della predazione sessuale, delle perversioni e della pedofilia, del conflitto padre-figlio e della mediazione della donna in tale conflitto, dell’incesto e del tabù dell’incesto, del gruppo omologante e della selezione di gruppo, del linguaggio come strumento antipredatorio e del linguaggio come strumento predatorio.
La sessualizzazione della predazione cannibalica, dunque, da un lato si affiancò, con il tempo, alla trasformazione della predazione metafora ed in selezione linguistica della specie, dall’altro sessualizzò la mente della specie nel suo assetto di base, creando una specie di stampo sessuale per ogni successiva trasformazione metaforica: tutto ciò causò la nascita delle perversioni sessuali (in particolare del sado-masochismo e della pedofilia), nonché dell’omosessualità, come attitudini anticannibaliche (o se si vuole, di cannibalismo padroneggiato ed arginato dalla sessualità) che precedono il linguaggio:
Questi misteriosi fenomeni forse non sono null’altro che le tracce, i residui di una fase antichissima dell’umanità in cui essi costituirono altrettanti tentativi, da parte della prole oltre che della femmina, di neutralizzare il cannibalismo del maschio adulto e di compensarlo con la sessualità, scambiando “sesso contro carne”.
Ma la difesa sessuale (precisamente come poi farà il linguaggio), fronteggiando la predazione cannibalica, in parte la assorbì e la fece propria, riproponendola verso l’esterno e divenendo a sua volta predatoria.
Una delle caratteristiche peculiari dell’evoluzione umana, infatti, secondo il nostro punto di vista, consiste nel fatto che le difese antipredatorie di volta in volta messe in atto dalla specie (essenzialmente, sessualità, linguaggio, coscienza e derivati simbolici di quest’ultima) sono condannate ad assorbire, almeno in parte, ed a incorporare la predazione che sono chiamate a fronteggiare, quindi a riproporla, a trasmetterla, a veicolarla alla specie, sia pure in forma differente, attenuata e resa via via sempre più metaforica.
Il carattere predatorio collegato alla sessualità emerge con la maggior chiarezza possibile nella perversione di tipo sado-masochistico (un vero e proprio modello di base di tute le perversioni), nella quale la sessualità non è altro che una forma di ritualizzazione dell’aggressività predatoria, volta a tenerla a freno ed a padroneggiarla; non solo il sadico, ma anche il masochista sono dei predatori, con la differenza che il masochista è una sorta di predatore “domato” in forma rituale dalla sessualità femminile: mentre nel sadico la sessualità veicola la predazione in forma diretta e la trasmette in maniera più intensiva e concentrata, nel masochista la sessualità trasforma la predazione e la rivolge in forma rituale contro lo stesso predatore, analogamente a come avviene con il meccanismo della colpa depressiva.
Ciò che vale per il sado-masochismo (una sorta di modello generale, lo ripetiamo, di tutte le perversioni, ovvero una autentica “perversione di base”), vale poi per ogni altra perversione.
Ad es. è nozione criminologica molto comune, per quanto concerne la pedofilia, che i pedofili abbiano spesso subito a loro volta, nell’infanzia, degli atti di pedofilia.
Si vede assai spesso come i bimbi vittime di pedofili riescano a dì salvarsi la vita accedendo alle loro richieste sessuali, o viceversa come la perdano all’atto del rifiuto, oppure se il pedofilo fallisce l’approccio sessuale, o si rivela impotente, ecc.
I pedofili pertanto assai spesso strutturano il loro comportamento come risposta ad un’aggressione subita; avendo imparato a proprie spese che il sesso è letteralmente “incollato” all’aggressività, alla predazione, perché originariamente (almeno come sessualità perenne) è un rimedio contro di essa; essi sanno benissimo che il sesso può venire usato come moneta di scambio per avere salva la vita, in caso di aggressione; perciò mettono in atto all’infinito questa difesa primordiale, basata sulla associazione sesso-predazione, sesso-aggressività, in quanto perennemente ossessionati dalla persecuzione che sta dietro al sesso, e che essi hanno sperimentato durante l’infanzia, in forme talora palesi e fisiche, talaltra solo mentali ed inconsce.
I pedofili, in sostanza, spesso cercano di capovolgere un’aggressione subìta durante l’infanzia trasformandola in una aggressione agìta, e di fuoriuscire dalla pericolosa passività che hanno esperito, un questa precoce e terrificante esperienza sessuale.
Anche per l’omosessualità, come per la pedofilia, il meccanismo è del tutto analogo a quello delle perversioni sado-masochistiche, cioè auto-difensivo ed antipersecutorio: l’omosessuale, infatti, teme anzitutto le persone del proprio sesso, e fa l’amore con loro solo allo scopo di neutralizzarle.
Anche qui, del resto, ci soccorre l’etologia animale: come nell’omosessualità umana, anche fra le scimmie è molto frequente osservare atti omosessuali che hanno il solo scopo di pacificare i rapporti fra individui dello stesso sesso, svuotandoli di ogni aggressività e riducendo la probabilità di scontri letali un seno al gruppo; in altre parole, le scimmie fanno l’amore con individui del proprio stesso sesso perché li avvertono come minacciosi e persecutori, e col sesso cercano di “rabbonirli”.
Una dinamica persecutoria analoga, del resto, è spesso presente anche nei rapporti eterosessuali: spesso la donna fa l’amore proprio con l’uomo che teme, perché percepisce il proprio sesso come un eccellente strumento di potere; o meglio, come uno strumento di padroneggiamento del potere e dell’aggressività altrui, in particolare maschile.
Un altro fenomeno molto importante e tipico delle psicopatie criminali, poi, è l’odio e la gelosia maschile, oltre che verso la prole, anche verso lo stesso sesso femminile: molti delitti “psicopatici” (in particolar modo, quelli iterativi, propri dei cosiddetti “serial killer”), sono rivolti alle donne, e sono espressione di questo odio e di questa gelosia “primaria”.
Anche questo conflitto uomo-donna, però, analogamente a quello fra le generazioni, possiede una matrice etologica di stampo evoluzionistico che ha le sue radici nel cannibalismo: infatti se, come pensiamo, la sessualità femminile perenne fu una risposta della specie volta a padroneggiare il cannibalismo del maschio adulto verso la prole, essa comportò per il maschio una perdita quasi completa del controllo sulla riproduzione; infatti mentre nel modello di clan a struttura basata sul maschio dominante e sul ripudio della promiscuità (presente, ad es., fra i gorilla) la paternità era certa, poiché risultava da uno scontro dall’esito assai chiaro fra maschi per la dominanza nel branco, quindi su precise gerarchie per l’accesso alla femmina e su momenti altrettanto precisi e “visibili” in cui tale accesso poteva aver luogo (il momento dell’estro), il modello fondato sulla sessualità perenne e sull’occultamento dell’ovulazione femminile non poté essere altro che un modello promiscuo: esso infatti annullò tali gerarchie ed introdusse (nella maniera subdola ben raffigurata dal Serpente biblico) una variabile, nella lotta fra maschi per il controllo della riproduzione, che era ormai di ordine puramente sessuale: già fra gli scimpanzè pigmei (o bonobo), del resto, la ricettività femminile è quasi continua, ed il gruppo controlla la riproduzione non già con scontri per la dominanza fra maschi, basati sulla forza fisica e la muscolatura o la taglia corporea, bensì con le dimensioni dei testicoli e la fertilità sessuale (e di ciò, la controprova decisiva è rappresentata dall’accentuato dimorfismo corporeo maschi-femmine nei gorilla, con colossale sviluppo della muscolatura maschile e dimensioni del pene e dei testicoli piuttosto ridotte, cui fa riscontro una sostanziale uniformità corporea maschi-femmine ed un più accentuato sviluppo di pene e testicoli fra gli scimpanzè). Ma un simile modello basato sulla competizione sessuale e sulla fertilità, anziché sulla dominanza di un solo maschio nelle gerarchie del gruppo, sottrasse completamente allo stesso maschio il controllo della riproduzione; esso pose le basi, insieme all’incertezza della paternità, per la gelosia, la diffidenza e l’odio maschile verso la donna, che da allora fu considerata perennemente infida: un essere da asservire e da “sgombrare” totalmente dalle possibili invasioni dei rivali sessuali (ossia la “madonna”, ovvero l’ “angelo del focolare”, dedita esclusivamente alla maternità e tendenzialmente desessualizzata, un po’ come la Eva biblica che “schiaccerà il Serpente” della sessualità perenne sotto il proprio tallone), oppure da considerare promiscua ed inquinata dagli altri maschi (la “puttana” contro cui gli psicopatici, e non solo loro, scagliano ossessivamente il loro odio e la loro violenza, salvo però servirsene al fine di tenere a freno il loro istinto primario cannibalico).
In conclusione, la sessualità perenne della femmina fu forse il primo antidoto al cannibalismo maschile, e da questa sua funzione primaria derivarono sia le perversioni sessuali (in primo luogo, il sado-masochismo), sia l’omosessualità, sia il conflitto, tipicamente “psicopatico”, dell’uomo contro la donna.
Il linguaggio simbolico, la coscienza morale e la colpa furono, come abbiamo già anticipato, la seconda strategia anticannibalica dopo la sessualità perenne; essi finirono (dopo che la sessualità, con il sado-masochismo, le perversioni e la “psicopatia” maschile, si era letteralmente intasata di predazione e di morte) per costituire le principali armi antipredatorie della nostra specie; ed infatti, come le malattie mentali ci mostrano eloquentemente, quando la coscienza ed i suoi derivati (i codici simbolici linguistici e rituali) entrano in crisi, entra in crisi l’essere umano in quanto tale.
Abbiamo già visto, con Erodoto, qual è la funzione del codice simbolico della guerra, e del suo correlato della rivoluzione: quella di dirottare, specie nel caso della guerra, l’aggressività reattiva dei figli contro i padri, indirizzandola all’esterno della famiglia e del gruppo, verso un nemico senza connotati chiaramente riconoscibili e familiari.
Infatti l’assoluta mancanza di guerre genera conflitti interni alle nazioni e talora rivoluzioni, cioè reazioni aggressive molto più vicine all’elemento familiare, anche se esterne alla famiglia in sé e limitate allo scontro fra i sottogruppi di un collettivo.
La dinamica della colpa, della depressione e quella delle malattie mentali costituisce poi un altro codice simbolico, dopo quello della guerra e delle rivoluzioni: esso però è di natura molto più interiore e mentalizzata.
Nelle depressioni gravi, caratterizzate da un senso di colpa omicida, il “depresso” si uccide ed uccide non certo per anestesia affettiva o per la mancanza di sensi di colpa (cosa che accade solo nelle più gravi psicopatie criminali), ma al contrario per il loro dilagare senza più argini: egli può uccidere sé stesso e gli altri perché attacca nell’altro ciò che detesta di sé stesso, ed attacca in sé stesso ciò che teme o sente persecutorio negli altri; in altre parole, il depresso fa propria, e mette in atto autonomamente, la strategia della selezione antipredatoria attuata in precedenza dalle madri sulla prole, e poi dal gruppo nel suo insieme sull’individuo.
La colpa, anche nei suoi aspetti omicidi, è spesso usata ed amplificata dalle religioni; però occorre chiarire che essa non è certo una oscura e perversa invenzione dei preti, bensì un prezioso strumento interiore di autocontrollo che la specie mette in atto da sempre per arginare la predazione cannibalica (ed anche la sessualità predatoria che ne ha preso il posto); la colpa controbilancia e neutralizza, contiene e trasforma in senso metaforico il cannibalismo, in particolare quello che intercorre fra genitori e figli, e lo usa contro il predatore stesso, incanalandolo verso mete meno distruttive e più compatibili con la sopravvivenza della specie (anche se talora al prezzo del sacrificio dell’individuo).
La colpa infatti implica un rivolgersi verso l’interno (come fosse un freno) della predazione, della distruttività, dell’aggressività che fin dall’origine sono proprie di un soggetto; ma implica anche un far proprie la predazione, la distruttività, l’aggressività introiettate e subite, in prima istanza, da parte di agenti esterni; infine, tale aggressività non è sempre padroneggiabile all’interno di un circuito mentale interiore, e talora riprende il suo volto originario, rivolgendosi nuovamente all’esterno, verso gli altri.
La vittima, insomma, non appena si scopre impotente a reagire, non può fare altro che rivolgere la propria aggressività verso sé stessa: ciò sia allo scopo di auto-controllare le proprie reazioni (e di evitare così le devastanti ritorsioni altrui), sia al più semplice scopo di dare sfogo alla propria aggressività; ed essa fa tutto ciò sul soggetto in quel momento più indifeso ed a portata di mano, che è paradossalmente la vittima stessa.
Nel primo di questi due casi l’ira omicida del depresso si coniuga all’auto-controllo ed all’auto-esame, venendone bloccata e concorrendo a formare la coscienza morale; nel secondo caso, quando è rivolta “solo” al fine di dare sfogo sul sé all’ira originaria, essa può essere auto-distruttiva e pericolosa, cioè suicidaria, proprio come lo è un’aggressione verso l’esterno.
La colpa, in conclusione, non è altro che il rivolgersi contro il sé della distruttività predatoria, proveniente in origine dall’esterno e fatta propria, in forma di auto-selezione antipredatoria, dall’individuo; essa assume perciò la forma di un feroce (e talora omicida) circuito di auto-controllo depressivo.
Dante, nel Canto VIII dell’Inferno, descrive così la terribile dinamica auto-distruttiva generata dalla predazione che ciascun essere umano subisce dagli altri: “Dopo ciò poco, vid’io quello strazio far di costui alle fangose genti….. tutti gridavano: “A Filippo Argenti!”, e il fiorentino, spirito bizzarro, in se medesmo si volvea cò denti!”
Occorre a questo punto ricordare ancora una volta che la natura delle armi anticannibaliche messe in campo dalla specie (la sessualità, la coscienza ed il linguaggio simbolico) fu tale che esse incorporarono sempre la predazione che erano state chiamate a neutralizzare, la fecero propria. La utilizzarono (sarebbe il caso di dire “se ne nutrirono”) e la riproposero sia alla specie che all’individuo, anche se in forme attenuate: fu così che la sessualità divenne predatoria e perversa, mentre la coscienza divenne persecutoria ed omicida, spingendo talora a sensi di colpa insopportabili, fino al suicidio ed all’omicidio.
Insomma il grave depresso, lo psicopatico perverso, oppure il soggetto affetto da un grave disturbo di personalità e da una forte dipendenza dagli altri (il cosiddetto “Borderline”), uccidono e si uccidono, spesso proprio a causa dei sensi di colpa, perché i sensi di colpa sono un freno antipredatorio che ha incorporato in sé la predazione, sia pure a scopo auto-inibitorio; e la predazione in essi presente, così come può uccidere il soggetto, in virtù della sua stessa natura predatoria può essere dirottata, in base al più inconsistente dei pretesti, verso l’esterno, verso gli altri.
Solo la presenza della predazione nella colpa può spiegare l’apparente paradosso del “depresso” che uccide, oltre che sé stesso, gli altri.
3) il terzo tema circa le radici biologiche della violenza è quello del fallimento degli strumenti antipredatori (sessualità e codici simbolici di tipo rituale-sacrificale e religioso) messi finora in atto dalla specie: nel mondo di oggi infatti, molto spesso sia la sessualità che i codici simbolici di tipo rituale e religioso falliscono nel loro compito antipredatorio, e lasciano libera la strada al dilagare delle spinte distruttive, nonché di quelle auto-distruttive.
Oggi da una parte l’omosessualità, la pedofilia, il sado-masochismo, e dall’altra parte il rito, la religione e la colpa, si rivelano spesso degli strumenti antipredatori del tutto inefficaci se non controproducenti, perché incorporano la predazione e la veicolano in forme più nascoste e insidiose, ma spesso non meno micidiali di quelle cannibaliche.
Il rito sacrificale, ad es., oggi spesso non solo non placa, ma addirittura sembra scatenare la distruttività predatoria, come si vede dal diffondersi delle sette sataniche e dal loro comportamento ormai del tutto a-finalistico, perché efferato e distruttivo.
Ed anche la sessualità ormai è divenuta nettamente predatoria, come si vede nel comportamento perverso più grave, quello pedofilico, nonché nelle dinamiche sado-masochistiche e cannibaliche che investono le coppie, sia omosessuali che non.
La stessa omosessualità, da quel rito di passaggio teso ad armonizzare i rapporti fra le generazioni e l’ingresso nella età adulta che essa era in passato, è divenuta un mero strumento di piacere, di riconoscimento sociale e talora di parassitismo.
Perciò il tema del fallimento degli antidoti antipredatori è quello più rilevante, al giorno d’oggi: lo è assai più della dinamica predatoria fra le generazioni, poiché è un fatto più recente, che come tale ci spinge ad una seria riflessione sul mondo attuale.
Abbiamo già detto che la dinamica predatoria fra le generazioni è sempre esistita; essa non è una novità perché costituisce una dinamica di base della nostra specie, e ciò fin dalla sua nascita, se questa, come supponiamo, fu davvero cannibalica.
Invece l’inefficacia, più recentemente verificatasi, di armi antipredatorie sperimentate come il sesso ed i codici simbolici, già messe in opera con successo, in passato, dalla nostra specie, rappresenta una novità che contraddistingue la nostra epoca.
Tutto ciò non vale tanto per la sessualità, la quale da lunghissimo tempo (forse dalla lontana istituzione del tabù dell’incesto) è infiltrata di predazione, quanto per i codici simbolici di tipo rituale e religioso: questi si trovano in stato di crisi da un tempo molto più “breve”, almeno se il tempo viene calcolato sulla scala lunga della storia della specie: precisamente, dal tempo che ci separa dalla nascita del Cristianesimo.
Il Cristianesimo, come notò genialmente Nietzsche, in quanto religione della “morte di Dio”, che ne professa la resurrezione ma che alla fine ce ne mostra solo la morte, è probabilmente l’ultima religione possibile (L’Islam, sotto molti aspetti, appare più come una reazione anticristiana del monoteismo nel suo insieme, che come una vera “nuova religione”, tanto che si rifà ai profeti ebraici ed allo stesso Cristo, come fonti).
Il Cristianesimo quindi in un certo senso costituisce, oltre che un segnale del possibile fallimento di tutte le religioni, anche un formidabile fattore di sovversione e di dissolvimento di tutti i valori religiosi “tradizionali”.
Le religioni infatti (in particolare, ma non solo, quelle monoteistiche) operano in senso antipredatorio attraverso una strategia piuttosto semplice, che è quella comune a tutte le armi antipredatorie forgiate dalla nostra specie: tale strategia consiste nell’appropriarsi della predazione e nell’usarla contro la predazione stessa.
Tolstoi, in “Guerra e pace”, esprime questo elementare concetto, che è alla base di ogni religione, con la celebre frase: “Quando i malvagi fanno lega fra loro, occorre che gli onesti facciano altrettanto; che cosa c’è di più semplice?”
Insomma, nelle religioni l’appropriazione della predazione in funzione antipredatoria, avviene in genere attraverso l’identificazione dell’istanza morale antipredatoria con una figura paterna “unica” ed assai “forte”, ovvero con un Dio che unifica in sé stesso tutte le istanze antipredatorie e che sa essere, con i propri figli, anche molto persecutorio e crudele, conflittuale e repressivo, quando ciò è necessario (come ben si vede nel Dio ebraico ed in quello islamico): un Dio, inoltre, assolutamente “puro” perché tiene nettamente separati e contrapposti il bene ed il male, i giusti da improbi, i figli dai reietti, i fedeli dagli infedeli; un Dio, in definitiva, che perdona poco e che minaccia morte, molto più spesso di quanto non prometta vita.
Il Cristianesimo, invece, pur mantenendo ferma l’unicità del Dio, ne ha lasciato trasparire il carattere composito e conflittuale; inoltre ha preteso di mescolare, ed addirittura di identificare i termini del conflitto che lasciava trasparire, la predazione e l’antipredazione, il Dio e l’uomo, la colpa e la redenzione; e ciò già nell’immagine del Cristo, “vero Dio e vero Uomo”, che muore davvero sulla croce per volontà del padre, e che poi davvero risorge.
Questa identificazione degli opposti, e questa incorporazione della predazione, però, gli ha permesso di esaltare, forse più di ogni altra religione, l’unicità e la dignità irripetibile di ogni individuo, di ogni persona umana, anche della più abietta, in quanto la colpa e la redenzione, la morte e la resurrezione, la condanna e la salvezza si unificano nella persona di Cristo, vero Dio e vero Uomo.
Allo stesso tempo, tutto ciò ha imposto al Cristianesimo di trasformare il Dio antipredatorio che è presente in tutte le religioni (un Dio in sé esclusivo ed essenzialmente repressivo), in un Dio amoroso e realmente universale, che perdona spesso, che apre le braccia a tutti; un Dio, insomma, che postula una dialettica fra bene e male, che mescola buoni e cattivi, che li collega fra di loro e che li fa scambiare di ruolo abbastanza spesso, attraverso la categoria del pentimento ed il paradosso cristiano del perdono, della redenzione e della lotta allo spirito farisaico ed esclusivo della legge.
Il Dio cristiano, poi, corrompe la stessa natura antipredatoria della divinità, attraverso la mescolanza dei due termini dell’antagonismo di base, il padre e il figlio, che sono riconciliati ed unificati in una sola persona (negandone il carattere irriducibilmente oppositivo).
Il Cristianesimo, insomma, ha inteso sanare in forma definitiva il conflitto predatorio padre-figlio (che come sappiamo è un conflitto eterno, connaturato con la nostra specie e collocato alle radici stesse del “male”) identificando e riunificando (con l’aiuto dell’amore, dello Spirito Santo) l’inconciliabile, ossia le due eterne figure antagonistiche del Padre e del Figlio, in un solo Dio che deve essere allo stesso tempo uno e trino, paterno e filiale; ossia così “risolto” da ogni conflitto e conciliato al proprio interno da far sì che, per suo tramite, padre e figlio divengano una sola persona.
Per di più, ha preteso di annullare l’antagonismo padre-figlio con la mediazione di una madre-vergine: ossia attraverso la negazione del carattere predatorio ed antagonistico che è proprio della stessa sessualità generativa femminile, del Serpente; infatti, a questo Serpente, la donna (divenuta ormai, nel Cristianesimo, una vergine-madre, concepita essa stessa “senza peccato”, in forma a-sessuata) con lka propria verginità schiaccerà davvero la testa, esattamente come era stato profetizzato (ma mai realmente raffigurato) dalla Genesi.
Infine, attraverso questa improbabile pacificazione “definitiva” fra il Padre ed il Figlio ottenuta con l’amore, con lo Spirito santo, nonché con la mediazione di una Madre completamente a-sessuata e divenuta anch’essa tutta amore, il Cristianesimo ha promesso agli uomini una cosa molto precisa: che il Dio-figlio (“vero Dio e vero uomo”), avendo vinto con l’arma dell’amore la morte predatoria subita dal Dio-padre ed essendo risorto, con la stessa arma avrebbe potuto vincere, oltre che quella predatoria, anche la morte biologica! E ciò per conto di tutti gli uomini!
In altre parole, la promessa di immortalità fornita dal cristianesimo consiste nel fatto che Cristo avrebbe liberati gli uomini dalla morte, semplicemente, liberandoli dal conflitto padre-figlio, dalla feroce ed endemica lotta fra le generazioni che è alla base della natura umana.
Ma la negazione della morte (sia della morte biologica, sia del tipo di morte che è specificamente connaturata all’uomo, quella predatoria), ha reso necessario al Cristianesimo di negare anche i propri stessi aspetti repressivi e conflittuali (aspetti che, in quanto religione antipredatoria, esso non poteva fare a meno di esercitare, anche se sotterraneamente).
Ciò ha finito alla fine per smascherarlo e per renderlo poco credibile: oggi, non appena il Dio “amoroso” dei cristiani cerca di tornare ad assumere un volto chiaramente antipredatorio, cioè feroce e repressivo, suscita nei fedeli solo incredulità, oppure al contrario sdegno e rivolta: infatti questo continuo parlar d’amore e non praticarlo, proprio del Cristianesimo, da un lato erode le basi della funzione antipredatoria della divinità “unica”, dall’altro evoca l’idea dell’ipocrisia, della contraddittorietà (anche se non si può negare, come abbiamo già accennnato, che l’ipocrisia dell’amore abbia prodotto un certo addolcimento nei costumi predatori dell’umanità, ed una esaltazione dei valori della persona, dell’individuo).
Queste contraddizioni perciò, alla fine, hanno vanificato l’efficacia del codice religioso antipredatorio cristiano, ponendo il Cristianesimo in una condizione di forte svantaggio rispetto alle altre religioni monoteistiche, almeno circa la colpa e la punizione; e difatti, mentre la più moderna teologia cristiana nega ormai l’esistenza dell’Inferno, ed il Papa cattolico fatica moltissimo a reintrodurre i concetti di Male e di Colpa nella coscienza dei suoi fedeli, in tutto l’Occidente europeo si diffonde, paradossalmente, un inconscio e fortissimo desiderio di Islam, che si esprime in mille forme, perfettamente visibili a chiunque abbia occhi per vedere.
In conclusione, l’attuale insufficienza delle tradizionali risposte antipredatorie, specie di quelle rituali e simboliche, è un campanello di allarme che ci richiama alla necessità di tornare a guardare con estrema attenzione alle radici dell’albero da cui proveniamo, cioè alle radici del male che da sempre ci tormenta, anche se questo male è ciò che ha fatto la nostra natura e la nostra gloria di uomini.