L’IMMAGINARIO DEL “CUORE” NELLA POESIA DI QUASIMODO E DI UNGARETTI

Bruno Domenichelli

Accademico dell’Accademia Lancisiana - Direttore della rivista Cardiology Science

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      Questo itinerario alla scoperta dei mille significati simbolici della parola “cuore” nella poesia di Quasimodo e di Ungaretti, si propone di ricercare attraverso la suggestione delle immagini della poesia, suggerimenti utili anche al medico, per nuove chiavi di lettura dell’universo “cuore”.

   Anche in medicina, il tecnicismo esasperato del nostro tempo impone infatti la riscoperta di un nuovo umanesimo che possa conciliare, fra passato e futuro, i due mondi apparentemente incomunicabili della tecnologia e dell’umanità, superando il rischio insito nella frammentazione plurispecialistica della realtà clinica.

   Dopo qualche decennio di pratica professionale, viene naturale per il medico chiedersi se sia più vicino alla realtà il linguaggio freddamente obiettivo della scienza, che configura il cuore come una pompa dotata di un mirabile apparato elettrico, oppure il linguaggio emotivamente soggettivo dei pazienti che descrivono la propria crisi tachiaritmica come “un improvviso frullio d’ali nel petto”.

   Tanti anni  di esperienza hanno ci insegnato che entrambi i linguaggi sono portatori di una parziale verità, che il cardiologo deve saper conciliare fra loro, per interpretare fino in fondo il vissuto di malattia  del paziente e calarsi nella sua realtà clinica. E’ a questo punto che il nostro itinerario alla ricerca della simbologia della parola cuore in Quasimodo ed Ungaretti, può assumere valore di strumento di diagnostica psicosomatica  anche nella pratica cardiologica e rendersi utile per la comprensione dell’immaginario popolare e delle dinamiche psicologiche che sono alla base delle somatizzazioni del cardiopatico e delle sue tematiche fobiche od ipocondriache.

   La poesia è infatti decantazione e universalizzazione dell’immaginario collettivo di un’idea come quella del “cuore”. Le parole sono per la poesia quello che per i pittori sono i colori. Nel particolare uso di una parola da parte di un poeta è possibile individuare alcune costanti peculiari che spingono all’uso di quella parola in funzione delle personali istanze emotive. Vedremo così che la parola “cuore” si carica di tonalità  e significati particolari in rapporto alle specifiche esperienze emotive e culturali del poeta e al suo vissuto cardiologico.

   Nella poesia di Quasimodo i significati della parola cuore appaiono più diversificati rispetto ad Ungaretti. Per Quasimodo il cuore si fa catalizzatore espressivo dei sentimenti più diversi e si colora di tonalità più distese e serene. E’ forse la lezione di classicità e di equilibrio assorbita da Quasimodo nello studio dei lirici greci a far sì che raramente la parola cuore si carichi di dramma e d’ansia.

   In Ungaretti le immagini del cuore sono simbolicamente più monotonali e si caricano più spesso  di  tensione dolorosa.

  

   In questo percorso alla scoperta della simbologia del cuore, mi farò aiutare da immagini tratte dal mondo naturale o dalla storia dell’arte, suggerite dalla fantasia e dalle associazioni di idee, che riescano a facilitarci le possibilità di entrare in risonanza con l’immaginazione dei poeti. Sfrutteremo così la doppia dimensione espressiva: verbale e visiva, della comunicazione emozionale. Proporre le corrispondenze analogiche fra le parole della poesia e le immagini, sarà un modo di

re-interpretare in modo visivo il senso e la musica dei versi. Una forma di  ri-creazione dell’evento poetico.

   La ricerca di adeguate immagini di accompagnamento per le parole è stata più facile per Quasimodo che per Ungaretti. In Quasimodo prevalgono infatti le immagini del cuore relative a sintonie col mondo naturale, mentre in Ungaretti la parola cuore evoca più spesso stati d’animo o immagini interiori.

 

QUASIMODO

      

     Quasimodo si serve dell’immagine “cuore” come di uno strumento dotato della più straordinaria flessibilità, veicolo di rappresentazione dei sentimenti più diversi.

      Cominciamo dai versi che sono fra i più intensi della poesia di Quasimodo: “Ognuno sta solo sul cuor della terra/ trafitto da un raggio di sole:/ ed è subito sera” , una poesia che, a prima lettura sembra improntata al più profondo pessimismo. Ma è proprio l’espressione “sul cuor della terra” a suggerire un capovolgimento di senso. Quelli che l’uomo vive in solitudine possono infatti essere proprio i momenti in cui egli raggiunge il “cuore” della terra, facendosi protagonista assoluto di un senso di centralità, quasi di dominio dell’uomo sull’universo.

   E’ pur vero che sarà “subito sera”, ma nell’istante cosmico della sua permanenza sulla terra l’uomo è stato centro pensante dell’universo, che esiste in quanto pensato dall’uomo che “sta” sul suo cuore, “trafitto”, come penetrato, dall’illuminazione di un’energia vitale che lo fa risplendere di pensiero

L’immagine del cuore si fa di volta in volta in Quasimodo scintilla evocativa di sentimenti contrapposti: vecchiaia e giovinezza, serenità e disarmonia, speranza e disperazione, quiete e lotta.

Memoria e oblio. Avanti negli anni, il cuore diventa pesante di smemoratezza: ”… io sono ancora tardo di membra/ e il cuore grava smemorato.”

   Ma più spesso è la memoria a riaccendere il cuore di ricordi di favolosa infanzia: “Città d’isola/ sommersa nel mio cuore…”, in cui il cuore si fa magico scrigno dove conservare per sempre un ricordo.

   Ed è ancora la memoria di una Sicilia dolce e mitologica a parlare al cuore del poeta: “Tindari, mite ti so/ fra larghi colli pensile sull’acqua/ dell’isole dolci del dio./ Oggi m’assali/ e ti chini in cuore.”

   E per meglio ricordare Quasimodo ci confida: “Ho nascosto il cuore dietro le vecchie mura/ per restare solo a ricordarti. / Come sei più lontana della luna…”

   Il cuore dei poeti come memoria storica: “ Più i giorni si allontanano dispersi/ e più ritornano nel cuore dei poeti.”

   Vecchiaia e giovinezza. Vecchiaia: “Ah gentile morte…non toccare le mani, il cuore dei vecchi…”, versi in cui il poeta sembra invocare protezione per la vulnerabilità dei vecchi, nei quali il cuore si fa “secco e dolente”: “Di te ha sgomento/ il cuore secco e dolente/ infanzia imposseduta”.  E ancora: “…finirà il fuoco dell’aria/ nel fermo cuore”. Aria e fuoco, primordiali elementi della vita, tacciono nel cuore ormai fermo. E’ forse l’intuizione poetica del dramma ipossico che ha per palcoscenico il cuore in asistolia quando, venuto meno l’apporto di ossigeno (l’aria), cessano anche i processi metabolici ossidativi (il fuoco).

   Ma il cuore è anche al centro di immagini di giovinezza: “e nel suono lontano udivo cuori/ crescere con me, battere/ uguale età…”. E più oltre: “… scatteranno per noi cuori di viole delicate, cuori/ di fiori irti.”

  L’odio e l’incapacità di odiare, trovano entrambi nel cuore analoghe suggestioni espressive. In anni giovanili i poeta afferma: “…non so odiarti; così lieve/ il mio cuore di uragano.” Ma nelle poesie del dopoguerra il cuore esprime le atrocità della guerra civile: “occhio per occhio… dente per dente/ dopo duemila anni di eucaristia/ il nostro cuore ha voluto aperto/ l’altro cuore che aveva aperto il tuo/ figlio…”.

   E ancora il cuore è chiamato a simbolismi contrastanti, come la pesantezza della materia e l’immaterialità dell’inconscio: “… che tristezza il mio cuore/ di carne!” e: Il cuore mi scopri sotterraneo/ che ha rose e lune a dondolo/ e ali di bestie di rapina/ e cattedrali…”

   Immagini di tristezza e di disarmonia: … il forte buio che sale dalla terra/ abitava il tuo cuore…” e: “… m’assale il cuore/ opaco cielo d’alba.” A queste si contrappongono immagini di serenità che bene esprimono un senso di distesa partecipazione all’armonia della natura: “… in te mi getto: un fresco di navate posa sul cuore”.

   Anche l’amore ha momenti sereni e momenti d’ombra: “…Parole/ avevi, chiuse e rapide/ che mettevano cuore/ nel peso di una vita…”. E: “A te piega il cuore in solitudine/ esilio di oscuri sensi/… sei bella ancora/ ferma in  posa dolce di sonno”.

   La parola cuore è spesso associata all’idea dell’erba, evocatrice di atmosfere di serenità: “…in cuore gioca/ il volume dei colli d’erba giovane…” e: “un verde più nuovo dell’erba/ che il cuore riposa…” e infine: “E dormo/ da secoli l’erba riposa/ il suo cuore con me.”

   Spesso l’immagine del cuore si associa a quella dell’acqua: “Acqua chiusa, sonno delle paludi/… ora bianca, ora verde nei baleni,/ sei simile al mio cuore. Un momento di noia esistenziale. Ma altrove l’acqua offre suggestioni di uno stato di eden dell’anima: “Una pace d’acque distese/ mi desta nel cuore.”

   L’acqua si fa  intatta superficie  sulla quale il cuore traccia i suoi ricordi increspandola di onde concentriche: “Così come su acqua allarga/ il ricordo i suoi anelli, mio cuore..”

   “Come sale dall’acque/ io esco dal mio cuore”, immagine nella quale intravediamo le saline della Sicilia. In un analogo processo di decantazione, come il sale emerge dalle acque marine, così il poeta “esce” dal proprio cuore.

   E il poeta invoca la pioggia, per ridare freschezza e vita al suo cuore che rischia di inaridirsi: “…e ne ha primizie dolci di suono/ e di rifugio il cuore arato…”

   Il cuore evoca immagini di armonia: “Un suono d’ali/ di nuvole che s’apre/ nel mio cuore…”

   Ma ci sono momenti in cui il cuore sembra invece ribellarsi allo scorrere inesorabile  del tempo: “… o di gettare un urlo al vuoto/ o nel cuore incredibile che lotta/ ancora con il suo tempo scosceso..”

   Sconforto e speranza: “Nessuno ha la mia disperazione/ nel suo cuore./ Sono un uomo solo/ un solo inferno.”  Il cuore del poeta è senza possibile conforto. Una solitudine che è naufragio umano. E con i suoi tragici eventi la storia ci persuade che “La speranza ha il cuore sempre stretto”.

   E ci accorgiamo che: … le parole ci stancano/ risalgono da un’acqua lapidata;/ forse il cuore ci resta, forse il cuore.”  Versi in cui la speranza sembra aprirsi verso spiragli profetici

   Quasimodo ricorre spesso all’immagine del cuore per evocare atmosfere intimistiche e sentimenti di cui il cuore stesso si fa palcoscenico interiore. Ecco lo smarrimento dell’essere, in un cielo nebbioso di primo mattino: “…m’assale il cuore,/ opaco cielo d’alba…”  o la vulnerabilità dell’uomo: “…Povero, così pronto di cuore/ lo uccideranno un giorno, in qualche luogo…” che riecheggia la preoccupazione della madre del poeta per il figlio, impulsivo e sentimentale e quindi ritenuto debole e sprovveduto di fronte alla vita.

   Spesso il cuore è legato ad atmosfere di morte: “… paradiso e    palude/ dormono in cuore ai morti.”. “Ed è morte/ uno spazio nel cuore”; trasposizione lirica dell’espressione popolare “morire di crepacuore”. “La vita/ non è in questo tremendo cupo battere/  del cuore, non è più/ che un gioco del sangue dove la morte/ è in fiore.”

   Ricorrono nella poesia di Quasimodo le reminiscenze di una Sicilia mitica che accompagneranno il poeta nel periodo milanese della sua vita. Ed è ancora il cuore la parola-chiave per connotare atmosfere indimenticabili di favolosa giovinezza: “Isola/ io non ho che te/ cuore della mia razza”. “O il cuore delle selve e la montagna/ che ci sospinse ai fiumi”. “… il vento/ che macchia e rode l’arenaria e il cuore/ dei telamoni lugubri, riversi/ sopra l’erba.”. “Isole che ho abitato/ verdi su mari immobili/ Per te dovrò gettarmi/ ai piedi dei potenti/ addolcire il mio cuore di predone.”

   Poi la volontaria migrazione al Nord. La Sicilia solare degli anni giovanili si tramuta in luogo di miseria, di sottosviluppo e sopraffazione, simbolo del dolore del mondo: “Oh, il Sud è stanco di trascinare morti/… è stanco di solitudine, stanco di catene/ delle bestemmie di tutte le razze/ …che hanno bevuto il sangue del suo cuore.”

   Lamento per il Sud. “Il mio cuore è ormai su questa praterie/ in queste acque annuvolate dalle nebbie./ Più nessuno mi porterà nel Sud.”

   Con gli anni della guerra civile, cambia anche il ruolo del poeta, che esce dall’intimismo della sua stagione ermetica e si propone come testimone del proprio tempo. L’epica dell’”io” si evolve in quella del “noi” (G. Finzi). Nelle poesie della Resistenza il monologo ermetico diventa dialogo civile, e il verso si distende nel canto corale di una nuova etica collettiva, che affronta i temi politici della protesta e della liberazione dall’oppressione: “E come potevamo noi cantare/ con il piede straniero sopra il cuore.”

   Cambia anche il linguaggio poetico, alla ricerca, come afferma lo stesso Quasimodo, di una “concretezza del linguaggio “. La ricerca del valore assoluto della parola, tipica del periodo ermetico, lascia il posto al desiderio di una più facile “comunicazione”.

   Anche l’uso della parola “cuore” risente di queste nuove esigenze. entrando molto spesso nelle immagini rievocative della tragedia della Resistenza.

   Ai fratelli Cervi. “Vestono la morte e ridono i nemici./ Nel mio cuore finì la loro storia…/ Ma io scrivo ancora parole d’amore…/ Scrivo ai fratelli Cervi… di razza contadina./ Avevano nel cuore pochi libri./ Morirono tirando dadi d’amore nel silenzio.”

   Nell’agosto 1943 Milano è piegata dai bombardamenti: “…la città è morta…E’ morta: s’è udito l’ultimo rombo/ su cuore del Naviglio.”

   Quasimodo si rivolge allora alle nuove generazioni. Uomo del mio tempo. “Dimenticate o figli, le nuvole di sangue/ salite dalla terra, dimenticate i padri/ le loro tombe affondano nella cenere/ gli uccelli neri, il vento, aprono il loro cuore.”  Il cuore si fa memoria delle colpe commesse dai padri, che il tempo si incarica di ricoprire con le ceneri dell’oblio generazionale.

   Sull’onda della generale disillusione civile del periodo della post-Resistenza, anche il cuore sembra “inaridirsi” come parola evocativa nel periodo più tardo della poetica quasimodiana. Nelle ultime poesie, pubblicate fra il 1959 e il 1965 Quasimodo usa infatti la parola cuore solo due volte: “Le spie non possono… dire parole al cuore di nessuno”. E per l’ultima volta la parola “cuore” compare in una poesia sull’incertezza della condizione umana, scritta in ospedale,  “…l’assurda differenza che corre/ tra la morte e l’illusione/ del battere del cuore.”

   Quasimodo morirà tre anni dopo, a 68 anni, per un attacco di cuore. La poesia assume talora suggestioni profetiche.

UNGARETTI

   A differenza di Quasimodo, in Ungaretti, la parola “cuore” ricorre più spesso con significati drammatizzanti, caricandosi di ansia e di tensione dolorosa. Un immaginario poetico che potremmo definire “negativo”: idee di dolore, smarrimento, rimorso, inquietudine, follia, crudeltà, aridità affettiva, sensazioni cenestesiche cardiovascolari spiacevoli, ricordi ricchi di sofferenza.

   La parola cuore introduce spesso nel verso ungarettiano la tonalità del doloreuasimodo, in Ungaretti la parola cuore ricorre più spesso con signific

, emblematica della partecipazione del poeta alla sofferenza dell’umanità. Molti sono gli esempi: nella memoria di Ungaretti, “uomo di pena”, come egli stesso si definisce, i compagni morti sul Carso nella guerra delle trincee, sono ancora tutti drammaticamente presenti:” …nel cuore/ nessuna croce manca/ E’ il tuo cuore il paese più straziato”.

   Il dolore e le colpe dell’uomo hanno la loro eco in Cristo: “Fa piaga nel Tuo cuore/ la somma del dolore/ che va spargendo sulla terra l’Uomo…”

   Talora dolore e follia si confondono: “…strappati il cuore/…/Frutto di tanti pianti quel tuo cuore,/strappatelo…”, dove la sofferenza è sentita come vissuto condizionante l’esistenza, che potrà trovare salvezza solo rinunciando forzatamente ai sentimenti.

   E altrove: “Ho fatto a pezzi cuore e mente/ per cadere in servitù di parole?”   versi in cui risuona la dolorosa dissonanza di atteggiamenti schizoidi imposti dalla vita, che ci impone un’innaturale separazione fra sentimenti e razionalità

   In altri versi il cuore entra a far parte di metafore in cui compare lo sgomento di sempre provato dall’uomo di fronte all’inconoscibile: “il mio povero cuore/ sbigottito di non sapere…” e ancora: “il mio buio cuore disperso.”

   Anche il rimorso  ha la sua sede nel cuore, in cui il poeta immagina concentrarsi le colpe dell’umanità: “E dei vostri rimorsi ho pieno il cuore/ quando fa giorno.” Anche Caino, “pastore di lupi” è fatto a immagine del cuore.

   Persino quando significa amore, il cuore assume in Ungaretti tonalità drammatiche; ecco infatti il lamento di Didone: “Grido d’amore, grido di vergogna/ del mio cuore che brucia/…/ grido e brucia il mio cuore senza pace.”

   Anche l’aggettivazione che il poeta usa per connotare il cuore, sottolinea la carica di ansia insita in questa immagine-simbolo: ecco    infatti che di volta in volta il cuore diviene inquieto, corrucciato, indurito, sbigottito, disperso e crudele, tanto da suggerire la possibilità che esperienze familiari o personali di cardiopatia abbiano caricato di oscuri significati di timori l’immagine assunta dal cuore nello schema corporeo del poeta. Più volte infatti il cuore ricorre in immagini evocative di sensazioni cenestesiche spiacevoli. Sono ora versi che ricordano situazioni aritmologiche: “…d’un tremito improvviso agghiaccia il cuore…” oppure: “E il cuore quando d’un ultimo battito/ Avrà fatto cadere il muro d’ombra, / Per condurmi Madre, sino al Signore…” e “Il tuo cuore ammutirebbe”. Ora sono immagini permeate di sofferenza fisica come: “Reggo il mio cuore che s’incaverna/ e schianta…”. Oppure: “Di un cuore che moriva/ in torturante attesa”, che evoca l’immobilità carica d’ansia dell’anginoso nell’interminabile momento dell’angor. Talora sono infine immagini in cui nell’arrestarsi del cuore è simbolizzata la morte: “Mi darai il cuore immobile”.

   Ma non sempre la morte è per Ungaretti uno stato definitivo; talora si riaffaccia la speranza che un atto d’amore ci regali la redenzione da un limite che è solo fisico: “Da tanta tenera carezza attratto/ un cuore morto ha ritrovato il battito”.

   Giungono alla nostra mente di medici, esperienze personali di rianimazioni da massaggio cardiaco,  e suggestioni che riemergono dai millenni dall’immaginario collettivo del cuore

   Ma subito l’immaginario del poeta ripiomba nel pessimismo, ricorrendo alla stessa immagine della mano, forse femminile, prima salvifica e capace del miracolo di far riaccendere il cuore. Ma per poco, perché la stessa mano è capace anche di spegnere il sogno: “Ma quella mano che riaccese un cuore/ spegne ora il sogno.” Forse una delusione d’amore che trova nel cuore il simbolo della sua delusione.

   Anche la vecchiaia, percepita da Ungaretti come sclerosi espressiva di affetti e sentimenti, trova nel cuore la sua parola-simbolo: “Più nulla gli si può nel cuore smuovere/ più nel suo cuore nulla…” immagine che ha il suo fondamento biologico in quel percorso di senescenza che coinvolge anche la reattività del sistema neurovegetativo cardiaco, per cui è difficile per il cuore senile entrare in risonanza con le sollecitazioni emotive ed ambientali, se non quando il contatto con la fanciullezza sia capace di rinnovare la fonte del sentimento: “…l’innocenza reclama almeno un’eco/ e geme anche nel cuore più indurito.”

   Se da vecchio Ungaretti non sente più dentro di sé il cuore danzare, non è allora un caso che la parola “cuore” divenga progressivamente più rarefatta nei suoi versi nel corso dello svolgersi cronologico della sua poesia, fino a trovare la sua minore frequenza proprio nelle liriche più tardive del “Taccuino del vecchio”.

    Più raramente in Ungaretti il cuore suggerisce immagini di serenità. I versi assumono allora sapore di classica musicalità: “…nel cuore durava il limio delle cicale”, che ricorda il montaliano “nel cuore di una siesta di cicale”.

   E quando, raramente, il cuore esprime sensazioni di felicità, questa è comunque velata dalla nebbia del provvisorio e dai limiti dell’insaziabilità dell’uomo, incapace, proprio per questo, di essere felice: “Quel giorno fui felice/ Ma il giubilo del cuore/ Trepido mi avvertiva/ Che non ne ero mai sazio.”

   Sono poche le occasioni in cui il cuore si spoglia della sua carica di dolore e di dramma. Ciò si verifica particolarmente nelle poesie in cui Ungaretti si dimostra più inguaribilmente “malato di universo”. Ecco che allora il cuore si accende di sprazzi di felicità e risplende di cristallina purezza, esprimendo quasi la pienezza della partecipazione fisica del poeta ai ritmi universali: “M’illumino di immenso”. Talora, come in una magica corrispondenza a questo abbandono, è l’euritmia stessa dell’universo a fare eco al cuore, illuminandosi dei ritmi biologici dell’uomo che nell’universo si immerge, in un rapporto di cosmica fusione: “Quale canto s’è levato stanotte/ che intesse/ di cristallina eco del cuore/ le stelle/…/… e mi tramuto in volo di nubi.”

   E’ l’Ungaretti delle poesie giovanili, quando il poeta ancora si riconosce “…una docile fibra dell’universo…” e soffre quando questa fusione non riesce a realizzarsi: “Il mio supplizio/ è quando/ non mi credo/ in armonia.”

   E’ come se il dolore, che permea la poesia di Ungaretti, ed è espressione del senso di finitezza e dei limiti dell’uomo, riuscisse a placarsi solo nel momento della completa partecipazione dell’individuo all’armonia dell’universo.

   E’ allora che sul piano psicosomatico si realizza il “silenzio degli organi”. Allora anche il cuore batte silenziosamente, cessando di essere l’organo-bersaglio per eccellenza: “Colle mie mani plasmo il suolo/diffuso di grilli/ mi modulo/ di/ sommesso uguale/ cuore.”

 

UNGARETTI INCONTRA LA CRONOBIOLOGIA

   Vorrei concludere questo itinerario lirico-cardiologico tentando, attraverso i versi di Ungaretti un percorso parallelo attraverso la cronobiologia, una scienza le cui basi, vecchie di oltre duemila anni nell’intuizione dell’uomo, stanno trovando in questi ultimi decenni  una sicura realtà scientifica. E’ anche questo un percorso in cui saremo accompagnati come un filo di Arianna dalla parola “cuore”.

   Ungaretti assimila infatti il cuore ad un orologio, simbolo primario di ogni ritmo ciclico: “Di questo orologio ch’è il cuore.” Un ritmo che egli percepisce talora fisicamente. “Ogni mio palpito, come usa il cuore…”.

   Il ritmo del cuore evoca altri ritmi biologici: risonanze interiori e consonanze con l’ambiente generale. Il senso perfetto della sintonia dell’essere con l’universo si percepisce nell’abbraccio delle “occulte mani” dell’ambiente fisico che ci circonda: Allora:”…quelle occulte mani/ che m’intridono/ mi regalano/ la rara felicità.” Consentono di godere dei momenti di grazia del totale abbandono ai ritmi naturali. Momenti nei quali il poeta afferma che: “Mi sono riconosciuto/ una docile fibra/ dell’universo”. Ma la felicità, quando questa sintonia si spezza, lascia il posto all’infelicità che è per il poeta mancata partecipazione all’armonia universale: “…Il mio supplizio/ è quando/ non mi credo/ in armonia.

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   Termina così questo itinerario alla ricerca degli infiniti significati simbolici della parola “cuore” nella poesia di Ungaretti e Quasimodo.

 Il nostro tentativo di entrare in sintonia con gli infiniti significati della poesia, è stata anche una ricerca alla riscoperta della dimensione poetica come meraviglioso luogo d’incontro di due mondi soggettivi, quello del poeta e quello di chi si lascia accarezzare l’animo dalle loro parole.

   L’augurio è che questa ricerca della dimensione poetica del fenomeno “cuore” possa accrescere di significati anche per noi medici, le molteplici dimensioni dell’organo che la scienza ci ha insegnato all’università, che l’umanità maturata con l’esperienza professionale ha poi arricchito e che la poesia ci aiuterà ancor di più a comprendere. E’ l’augurio per tutti che anche nella vita di ogni giorno la poesia possa aiutarci a far vibrare ancora a lungo il nostro cuore in sintonia con i sentimenti e con le emozioni.