La responsabilità dei componenti d’equipe

 

Avv. Vania Cirese

 

 

In ambito medico sempre pur riconoscendosi l’opera ed il valore del singolo operatore, si valorizza sempre più, per il raggiungimento di un risultato favorevole per il paziente, l’attività di una intera equipe spesso di tipo pluridisciplinare.

In ambito chirurgico questa tendenza ha ridimensionato il ruolo del chirurgo operatore, temperando quell’individualismo esasperato che lo portava a considerarsi l’unico protagonista dell’atto chirurgico, relegando a ruolo subalterno quello degli altri e persino quello dell’anestesista. Al più giusto riconoscimento dell’attività medica svolta in equipe si ricollega, dunque, l’esito fausto o infausto della prestazione sanitaria.

Gli indirizzi giurisprudenziali più recenti in ragione anche dell’incremento esponenziale del contenzioso giudiziario in ambito medico, si sono dovuti conseguentemente occupare dello svolgimento dell’attività medica in equipe, per individuare e definire gli eventuali profili di responsabilità dei diversi operatori che a vario titolo hanno avuto un ruolo nello svolgimento della prestazione. Infatti l’identificazione e la conseguente chiamata in giudizio del chirurgo operatore, cui è certamente affidata la responsabilità della conduzione di un intervento chirurgico, non impedisce di dover procedere ad individuare i singoli componenti dell’equipe, spesso protagonisti di tappe significative nello svolgimento dell’atto chirurgico e valutare le loro eventuali concorrenti responsabilità. E’ noto come la materia sia regolata dal principio dell’affidamento, in base al quale ciascun componente del team di lavoro risponde nell’ambito della propria specifica mansione, con la conseguenza che ogni consociato possa confidare che ciascuno si comporti adottando le regole precauzionali che normalmente andrebbero rispettate in quel tipo di attività. Permane però l’obbligo dei vari componenti dell’equipe di attivarsi per integrare o correggere l’operato altrui in caso di necessità per carente o errata condotta altrui.

Ciò vale nel caso in cui i componenti dell’equipe, facendo capo a discipline diverse, godano di una propria autonomia derivante dalla specificità di quella particolare disciplina medica. Nell’ipotesi, invece, di vari componenti di una equipe della stessa specialità ma di diverso livello gerarchico, il capo equipe che affida un incarico ad altro operatore conserva l’obbligo della sorveglianza del singolo componente dell’equipe stessa, sia esso medico o paramedico, con eventuali profili di responsabilità che si possono configurare in una culpa in vigilando per errata scelta o per carente vigilanza.

Va rammentato che ove un tipo di attività chirurgica o un singolo intervento vengano praticati da un operatore che, pur strutturato, non possegga un ruolo apicale nella struttura, ma che sia stato incaricato dal Primario ad effettuare quella o quelle prestazioni, in caso di contenzioso giudiziario, ferma restando la responsabilità personale dell’operatore, potrebbe aversi anche un coinvolgimento del Primario sotto il profilo della culpa in eligendo in ordine all’individuazione di un collaboratore non competente e non in grado di eseguire i compiti affidatigli a regola d’arte. Infatti, nel momento in cui si instaura un rapporto tra il paziente che richiede una prestazione sanitaria ed il medico chiamato ad effettuarla, quest’ultimo assume una “posizione di garanzia” che può essere trasmessa anche ad altri componenti dell’equipe, la cui scelta rimane affidata al capo o al responsabile dell’equipe stessa potendosi profilare estremi di responsabilità per culpa in eligendo. Rimane certo che la regola dell’affidamento rappresenta un principio cardine nel vigente ordinamento facendovi costante riferimento tanto la giurisprudenza di merito quanto quella di legittimità nel valutare le eventuali colpe nello svolgimento dell’attività sanitaria in equipe.

Vanno segnalate alcune pronunce che hanno ripreso il tema dell’affidamento analizzando il comportamento colposo di personale sanitario di differente ambito: ad es. medico e infermiere.

Da un caso in particolare in cui l’infermiera, per scagionarsi, aveva eccepito di aver ricevuto dal sanitario l’ordine di somministrare un farmaco rilevatosi poi letale per il paziente senza le dovute istruzioni del caso, con ciò richiamando il principio dell’affidamento. Nel negare ogni addebito la difesa dell’infermiera sosteneva che l’imputata aveva confidato nel corretto adempimento da parte del medico delle norme professionali di diligenza, perizia e prudenza (appellandosi alla regola dell’affidamento). Il giudicante, pur ritenendo il medico responsabile per aver omesso di precisare all’infermiera le modalità per la somministrazione del farmaco, ha condannato altresì la coimputata ritenendo che le inadempienze del medico non potessero in alcun modo giustificare la condotta imprudente, imperita e negligente dell’infermiera che prima di somministrare il farmaco avrebbe dovuto verificare le modalità di utilizzo, prendendo per suo conto visione delle istruzioni per il corretto uso anche alla luce della sua preparazione e delle sue personali conoscenze (laurea triennale).

L’affidamento dunque non esime dall’obbligo di un comportamento accorto da parte di chi, nell’ambito di un’equipe, ritiene di poter confidare sul comportamento corretto degli altri componenti dello stesso gruppo di lavoro. Si nota la tendenza ad un forte richiamo alla responsabilità del singolo operatore sanitario, il quale, indipendentemente dall’adesione dei singoli componenti del gruppo di lavoro a corrette norme di comportamento, è tenuto ad agire con la massima diligenza e prudenza nell’esercizio della sua personale attività.

La Suprema Corte ha ribadito tale indirizzo (Cass. Pen. Sez. IV, novembre 1999) con preciso riferimento all’osservanza di doverosi modelli di comportamento dei singoli. In altre parole il fatto di agire per direttive impartite da un medico anche gerarchicamente più elevato non esclude la responsabilità del sanitario che pur non riveste una posizione autonoma in seno alla struttura, in capo al quale permane l’obbligo, non soltanto di assolvere nel migliore dei modi le disposizioni a lui impartite dai superiori, ma anche di procedere con la massima diligenza e prudenza per il comune fine di tutela della salute del paziente.

 

La sicurezza nell’erogazione delle cure:

 

la responsabilità dell’equipe e della struttura

 

Il tema della responsabilità professionale del personale sanitario e della responsabilità della struttura, nonché della valutazione e della gestione dei rischi connaturati allo svolgimento di attività sanitarie, merita un’attenta riflessione. In Italia, l’organizzazione dell’attività sanitaria e la tutela del diritto alla salute sono temi “caldi”, che spingono verso nuovi modelli di efficienza e di responsabilità, senza aver ancora ottenuto né una sistematica, né validi contenuti in doverose riforme. Si impone sempre di più l’obiettivo di promuovere il miglioramento della sicurezza dell’assistenza sanitaria negli interventi e nei trattamenti medici, a tutela della salute del paziente e delle condizioni di lavoro degli operatori sanitari. Ciò è conseguibile solo con un sistema di prevenzione dei rischi professionali, di protezione della sicurezza delle cure e assistenza sanitaria, di riduzione dei fattori di rischio e di eventi avversi, di informazione e formazione degli operatori sanitari. La necessità di una riforma organica si avverte maggiormente in un contesto europeo non certo omogeneo, a causa di evidenti diversità che contraddistinguono i vari sistemi sanitari, e che ha visto, negli ultimi dieci anni, una convergenza delle politiche sanitarie dei Paesi membri dell’Unione Europea, come reazione ad una condivisa situazione di crisi nell’ambito delle differenti esperienze nazionali e una certa convergenza dei correttivi introdotti per reagire agli stessi problemi che affliggono tutti i sistemi sanitari (bassa qualità delle prestazioni e costi elevati, incremento del contenzioso tra medici e pazienti, esigenza di monitorare, prevenire e ridurre i rischi e gli eventi avversi, esigenza di differenziare la responsabilità della struttura da quella dei medici, in caso di evento avverso).

Inseguendo i diversi itinerari, che nascono dalle varie culture ed esperienze europee, è innegabile che anche in Italia, oggi, l’approccio di chi si interroghi sulla responsabilità medica debba essere non solo interdisciplinare, ma anche libero da quei condizionamenti del passato, derivati dall’adozione di un modello di responsabilità professionale legato alla figura ottocentesca del libero professionista e rimasto invariato come paradigma generale di disciplina della responsabilità medica. E’ innegabile che ai giorni nostri ci si debba riferire necessariamente all’attività svolta non dal libero professionista, ma dalla struttura sanitaria quale soggetto che, per legge, deve adeguarsi a quelle regole d’azione, espresse in termini di efficienza ed economicità, che reggono le attività organizzate. In altre parole, al centro del dibattito sulla responsabilità medica, non può più esserci la figura del medico libero-professionista che aveva ispirato il legislatore del ’42 nell’approdo ad un paradigma di colpa professionale oggi non più attuale. Chi è chiamato a decidere non può adottare quella regola di responsabilità, ritagliata unicamente sulla figura del singolo ed isolato professionista, senza valutare l’incidenza di un nuovo protagonista: l’ente. L’analisi della mutata realtà socio-sanitaria mostra come luogo privilegiato per il verificarsi di episodi di “medical malpractice” una struttura organizzata dove l’attività sanitaria viene tradotta in servizio; tuttavia, raramente, nella ricostruzione giudiziaria della vicenda, viene preso in esame un disservizio o una disfunzione organizzativa della struttura sanitaria, indagandosi, invece, sempre sulla colpa personale dell’operatore sanitario (o dell’ equipe), anche in quei casi in cui sia ravvisabile un disservizio o una carenza dell’organizzazione.

Occorre una riforma legislativa che preveda una responsabilità della struttura fondata su un titolo autonomo e per fatto proprio, per “difetto di organizzazione” e violazione dell’obbligo di “sicurezza nella erogazione delle cure”distinto, da quello che fonda la responsabilità del medico, salvo l’accertamento del “fatto illecito” del medico da imputare alla struttura stessa, per affermarne la responsabilità ( quale datore di lavoro di lavoro-committente.)

Invero, anche parte della dottrina ed una recente,esigua, lungimirante, giurisprudenza di merito, iniziano ad evidenziare l’opportunità di far capo a un titolo autonomo di responsabilità per l’ente ospedaliero, partendo dall’accertamento (dell’inadempimento della struttura) del disservizio, per individuare l’apporto causale dei singoli fattori che, come elementi dell’organizzazione, hanno concorso o sono stati i soli a causare l’erogazione del servizio “difettoso”.

In tali contesti motivazionali  si afferma che la responsabilità dell’ente può essere dovuta anche esclusivamente alle colpose, gravi, carenze organizzative della struttura ospedaliera stessa .L’indagine condotta attraverso l’esame della legislazione sanitaria ed il confronto con gli esiti di studi aziendalistici in tema di “risk management”, consentono di individuare nell’organizzazione che presenta disfunzioni o disservizi, le possibili cause di una prestazione sanitaria errata.

Del resto, dalla legge del ’78, introduttiva del servizio sanitario nazionale, fino alla riforma sanitaria ter (d. lgs. 229/99, modificativo del d. lgs. 502/92), si è constatato che il modello organizzativo della sanità, pur nel variare delle soluzioni istituzionali e realtà socio-economiche, è rimasto aderente al modo di intendere il servizio sanitario nazionale come strumento di garanzia del diritto alla salute, con una definizione e ripartizione preventiva dei soggetti erogatori del servizio pubblico. 

In altre parole, la tutela della salute è finalità da garantire attraverso il Servizio Sanitario Nazionale, ossia con un numero chiuso di soggetti a ciò preposti, venendosi a valorizzare il rapporto costante e indefettibile tra organizzazione dell’attività sanitaria e attuazione del diritto alla salute, tra modelli organizzativi e pretese esigibili dagli utenti, non solo in termini di realizzazione del diritto alla salute, ma anche di garanzia degli strumenti predisposti per il perseguimento di tale obiettivo.

Nel rapporto tra organizzazione dell’attività sanitaria e attuazione del diritto alla salute entrano in gioco i profili organizzativi dell’attività sanitaria, che hanno acquisito preciso rilievo nella stessa legge sanitaria (502/92; 229/99) che, nell’obiettivo perseguito della tutela alla salute attraverso il servizio sanitario nazionale, riconosce ai cittadini, come utenti del S.S.N., il diritto a che l’attività assistenziale sia prestata in conformità ai livelli essenziali ed uniformi definiti dal S.S.N., nel rispetto dei principi della dignità della persona, del bisogno di salute, dell’equità nell’accesso all’assistenza, della qualità delle cure e loro appropriatezza. Del resto, la disciplina dei diritti dei consumatori (legge 281/98), riguardo alla tutela della salute, riconosce ai cittadini il diritto alla sicurezza e alla qualità dei prodotti e dei servizi, all’erogazione di servizi pubblici secondo standard di qualità ed efficienza, ossia il diritto di esigere il rispetto di quegli adempimenti organizzativi diretti a garantire l’appropriatezza clinica ed organizzativa dell’assistenza sanitaria, oltre che la qualità delle prestazioni.

Pare opportuno rammentare che dal combinato disposto dagli artt. 8, comma 4, e 1 del d.lgs. 502/92, al fine di garantire un adeguato livello di qualità delle cure, a garanzia della salute dell’utente, sono definiti gli standards di qualificazione strutturali, tecnologici, organizzativi, attraverso i tre fondamentali passaggi dell’autorizzazione, dell’accreditamento e degli accordi contrattuali, di cui debbono essere in possesso le strutture (pubbliche e private) per l’esercizio delle attività sanitarie come soggetti accreditati dal S.S.N. (Providers).

Con riferimento alla legislazione sanitaria, dunque, è possibile individuare un obbligo di prestare assistenza sanitaria in capo alle strutture accreditate dal S.S.N., in modo conforme ai criteri di organizzazione imposti per legge, per lo svolgimento dell’attività di cura e nel rispetto di quel parametro di massima sicurezza che il legislatore ha inteso garantire con la previsione di standards di qualificazione strutturale e organizzativa.

Un obbligo, dunque, di sicurezza delle cure, sicurezza nel servizio erogato.

Da un raffronto con gli altri sistemi, emerge come, negli altri Paesi d’Europa, già la responsabilità della struttura sanitaria per “difetto di organizzazione” (Germania), per “mancanza di organizzazione della sicurezza delle cure” (Belgio), per “faute dans l’organisation du service” (Francia), da tempo si attesti su un piano di completa autonomia rispetto alla responsabilità dei sanitari per condotte colpose personali.

L’individuazione di un obbligo a carico delle strutture sanitarie come obbligo di garantire uno standard organizzativo adeguato alle esigenze di tutela della salute, chiama in gioco la responsabilità delle aziende sanitarie e di coloro che presiedono alla gestione e all’organizzazione dei servizi sanitari all’interno di esse in casi di deficit organizzativo.

Le varie proposte di legge finora avanzate sono partite sempre da un concetto di responsabilità (civile) dell’ente per danni a persone causati dal personale sanitario e mai da disfunzioni strutturali ed organizzative interne all’ente. Bisogna, invece, prevedere una responsabilità della struttura sanitaria non solo fondata sul rapporto organico per fatto del terzo, ma anche autonoma e svincolata dall’agire individuale dei singoli sanitari, in quanto responsabilità che origina dall’inesatta attuazione di un servizio di assistenza sanitaria sotto il profilo della sicurezza ( nell’organizzazione di mezzi e persone). Val la pena ricordare che il rapporto (giuridico) tra medico e paziente ha ad oggetto una prestazione d’opera che trova la sua fonte in un contratto d’opera intellettuale (art. 2229-2238 e seg. c.c.) e, complessivamente, la responsabilità medica trova la sua cornice normativa negli art. 1218 c.c., 1176 c. c., 2236 c.c.. Com’è noto l’obbligazione è il rapporto giuridico che si instaura tra il creditore (che attende l’adempimento) e il debitore, che è tenuto all’esecuzione per soddisfarlo, e che fonte dell’obbligazione è il contratto, il fatto illecito ed ogni altro fatto o atto idoneo a produrla, conformemente all’ordinamento giuridico (1173 c.c.).

La responsabilità del medico nei confronti del paziente deriva  dunque sotto il profilo civile dal rapporto contrattuale (inesattezza della prestazione per fatto a lui imputabile e danno) o da fatto illecito (lesioni, omicidio colposo del paziente per negligenza, imprudenza o imperizia in presenza di un nesso causale) con conseguenze personali sul versante penale.

Allorché il paziente riceve le cure all’interno di una struttura sanitaria da parte di un medico dipendente di quest’ultima, l’accettazione del paziente in una struttura pubblica o privata, che è deputata a fornire  assistenza sanitaria ospedaliera ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto (Cass. 9198/99; Cass. 11316/03; Cass. 1698/06; Cass. 22390/06 ecc.).

La struttura è tenuta ad una prestazione complessa che non si esaurisce nella prestazione delle cure mediche e di quelle chirurgiche (generali e specialistiche) (L132/68), ma si estende ad una serie di altre prestazioni, quali la messa a disposizione di personale medico sanitario e non medico, dei medicinali, delle attrezzature tecniche necessarie e quelle alberghiere.

La responsabilità della struttura consegue ai danni cagionati al paziente da parte del medico dipendente, in virtù del rapporto di “immedesimazione organica” (Cass. 2144/1998; Cass. 6318/2000; Cass. 2042/2005; ecc.), ovvero sulla base dell’art. 1228 (Cass. 8826/2007) per l’utilizzazione di terzi nell’adempimento dell’obbligazione.

Per il comportamento dei medici dipendenti trova applicazione la regola (1228 c.c.) secondo cui il debitore che nell’adempimento dell’obbligazione si avvale dell’opera di terzi, risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro (Cass.103/99;4400/04; Cass. 1236/06, responsabilità per fatto dell’ausiliario o preposto).

La responsabilità del medico (2043-1218 c.c.) e quella dell’ente ospedaliero (1228 c.c.) trova titolo nell’inadempimento dell’obbligazione e trattandosi di obbligazione professionale, la misura dello sforzo diligente necessario per il corretto adempimento è in relazione al tipo di attività dovuto e alle modalità di esecuzione, non quelle ordinarie del “buon padre di famiglia”, bensì del “buon professionista”, ossia diligenza particolarmente qualificata dalla perizia e l’impiego di mezzi tecnici adeguati allo standard professionale della categoria, da apprezzarsi in relazione al livello di specializzazione, le strutture tecniche a disposizione, situazione tecnico-organizzative della struttura in cui il professionista svolge la sua opera (grado di conoscenza, abilità tecnica, particolare organizzazione di uomini e mezzi della struttura sanitaria specializzata).

Alla luce di quanto fin qui esposto si evince che attualmente la responsabilità del medico e la responsabilità della struttura originano da un fatto unitario (inesatto adempimento dell’obbligazione di cura, prendendosi in considerazione l’inadempimento del sanitario).

Secondo la Cassazione (6386/2001): “Il positivo accertamento della responsabilità dell’Istituto postula, pur trattandosi di responsabilità contrattuale, la colpa del medico esecutore dell’attività che si assume illecita, non potendo detta responsabilità affermarsi in assenza di detta colpa, poiché l’art. 1228 c.c. ed il 2049 c.c. presuppongono un illecito colpevole dell’autore immediato del danno ed in assenza di tale colpa non è ravvisabile alcuna responsabilità contrattuale del committente per il fatto illecito dei suoi preposti”.

Tuttavia l’obbligo che la struttura  sanitaria assume nei confronti del paziente, riconosce a questi, come creditore della prestazione di assistenza sanitaria, un duplice diritto: di esigere l’esatto adempimento sia dell’attività di cura, sia dell’attività di organizzazione che deve assicurare la tutela della salute.

Se per l’adempimento dell’attività di cura la struttura, avvalendosi dei medici risponde degli eventuali danni  da questi cagionati, richiesti in sede civile o penale, in conseguenza della condanna del medico, per l’adempimento dell’attività di organizzazione, la responsabilità della struttura (datore di lavoro e suoi preposti) prescinde dalla condotta del medico.

Quindi nell’ambito della responsabilità della struttura sanitaria va distinta la responsabilità per non corretta esecuzione dell’attività di cura e la responsabilità per inefficiente organizzazione dell’attività sanitaria, autonoma e indipendente dal fatto illecito del medico (che può non sussistere o essere concorrente) punibile a diverso titolo.

Vi può essere una responsabilità che chiama in causa esclusivamente la struttura per deficit organizzativo o strutturale (non corretta gestione delle liste di attesa, omessa o insufficiente manutenzione di apparecchiature, omesso o insufficiente approntamento di presidi, disorganizzazione dei reparti, carenze dell’organico). Può cioè individuarsi una  responsabilità della struttura, autonoma, non fondata sui fatti illeciti dei singoli medici-dipendenti.

La struttura a mezzo del legale rappresentante e non il medico ha infatti l’obbligo di garantire la sicurezza delle cure predisponendo la dovuta organizzazione, potendosi rinvenire anche collegamenti causali tra organizzazione deficitaria e danni al paziente per inosservanza degli standard di sicurezza  imposti dalla legge.

L’art. 8 quater Dlgs 502/1992 p.4, determina l’obbligo per le strutture accreditate di garantire dotazioni strumentali e tecnologiche appropriate per quantità, qualità, funzionalità, adeguate condizioni di organizzazione interna, con specifico riferimento alla dotazione quantitativa e qualificazione professionale del personale impiegato.

Se l’ente non si adegua allo standard di sicurezza, l’elemento strutturale non può non essere un vincolo e un criterio di valutazione della sua autonoma responsabilità.

Va notato che l’osservanza degli standard non può essere relativa ai “requisiti minimi” per l’accreditamento (ex art.8 quater Dlgs 5027/92), ma in linea con le previsioni dell’art. 1681 c.c., che concerne l’adozione di misure idonee al verificarsi dell’evento.

Non v’è dubbio che gravi carenze strutturali o organizzative possono essere causa di danno alla salute del paziente e che occorra avviare un processo di autonomizzazione della responsabilità della struttura in caso di inadempimento di obblighi su di essa gravanti, così come alcune coraggiose pronunce di alcuni giudici di merito hanno affermato, allontanandosi dagli orientamenti dei giudici di legittimità. (Trib.Vicenza 27/1/1990; Monza 7/6/1995; Milano 5/1/1997; Varese 15/6/2003; Venezia 10/5/2004; Brescia 28/10/2004; Perugia 28/10 /2004, Ascoli Piceno 28/11/1995, ecc.).

Attualmente in presenza di carenze organizzative e/o strutturali è sancito solo l’obbligo del medico di informare il paziente, eventualmente trasferirlo in altra struttura idonea, attivarsi per ovviare alle carenze. (Cass. 6318/2000; 6386/2001; Cass. 113167/2003; Cass. 14638/2004;Cass. 8826/2007).

Non è prevista alcuna sanzione, né alcuna disciplina per il datore di lavoro-legale rappresentante della struttura sanitaria, per omesso o insufficiente approntamento delle cautele. Ciò si rinviene (solo) nel quadro normativo vigente in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro e malattie professionali, che prevede quale destinatario degli obblighi di prevenzione è il datore di lavoro (pubblico e privato) che ha alle proprie dipendenze lavoratori subordinati.

Si noti che, per la normativa antinfortunistica, il datore di lavoro è tenuto ad adottare non solo le misure di sicurezza previste dalla legislazione vigente in materia, ma anche quelle ritenute comunque necessarie alla luce delle cognizioni della “migliore tecnologia” e del patrimonio di esperienza di un determinato momento storico. La formulazione supplisce alle lacune di una normativa antinfortunistica (obiettivo della massima sicurezza possibile) che non può essere in grado di prevedere qualsiasi fattore di rischio, evita.l’obsolescenza delle misure di sicurezza, prevedendone un aggiornamento automatico in conseguenza dell’innovazione tecnologica, costringendo i datori di lavoro a munirsi degli strumenti più adeguati per la tutela della sicurezza dei lavoratori, ponendo anche l’intrasferibilità del dovere di sicurezza gravante sull’imprenditore. Com’è noto successivamente agli obblighi di prevenzione sanciti dal DPR 547/1955 e 303/1956, la tutela della sicurezza e salute nei luoghi di lavoro si è perfezionata con il Dlgs. 626/1994 che ha recepito la Direttiva Comunitaria 391/1989.

Gli aspetti significativi del Dlgs. 626/1994 sono:

1)     aver posto l’obbligo di adeguare le misure di prevenzione alla massima sicurezza tecnicamente possibile;

2)     aver affermato la necessità di eliminare i rischi in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico , o comunque ridurli al minimo.

3)     Aver identificato i destinatari degli obblighi

4)     Aver identificato la figura centrale che è quella del datore di lavoro, anche per il settore della P.A. (dirigente cui spettano i poteri di gestione e spesa).

Nelle strutture sanitarie la figura del datore di lavoro coincide con quella del Direttore Generale dell’azienda, avendo l’effettiva responsabilità gestionale dell’impresa con poteri di decisione e di spesa;

5)     aver previsto la responsabilità penale degli organi di vertice delle aziende( anche ospedaliere) in materia antinfortunistica.

Sempre prendendo spunto dalla normativa antinfortunistica val la pena ricordare che l’art. 3, c.1, lett. a) del D. Lgs. 626/94, colloca la valutazione dei rischi tra le “misure generali di tutela” per la “protezione della salute e per la sicurezza dei lavoratori”. Tale obbligo viene, poi, definito nei suoi contenuti e ne viene ribadita la rilevanza all’interno dello stesso D. Lgs., in relazione alle diverse tipologie di “rischio normato”. La valutazione dei rischi da “misura generale” si trasforma in obbligo del datore di lavoro, il cui inadempimento comporta l’applicazione di sanzioni penali , attraverso l “inderogabilità”, da parte del datore di lavoro–ente ospedaliero, dell’obbligo di valutazione dei rischi. La tutela accordata dalle ricordate previsioni normative e recenti aggiornamenti è però relativa ai lavoratori subordinati in materia di antinfortunistica sul luogo del lavoro e solo in tale ambito rileva la responsabilità anche penale del Direttore Generale della struttura sanitaria. Non v’è dubbio che occorra una legge che sancisca:

1)     l’obbligatorietà del datore di lavoro di dotare la struttura di presidii, organizzazione di mezzi e persone in grado di garantire la massima sicurezza nell’erogazione dell’assistenza sanitaria;

2)     di monitorare, eliminare o comunque ridurre al minimo i rischi ed i danni al paziente durante le cure e gli interventi sanitari;

     3)che preveda la responsabilità penale (a titolo autonomo) degli organi di vertice per inottemperanza agli obblighi di legge in materia di sicurezza nell’assistenza sanitaria sotto il profilo organizzativo ( di mezzi e persone).

L’individuazione di un obbligo a carico delle strutture sanitarie come obbligo di garantire uno standard organizzativo adeguato alle esigenze di tutela della salute, chiama in gioco la responsabilità delle aziende sanitarie e di coloro che presiedono alla gestione e all’organizzazione dei servizi sanitari per ottenere accanto alla sicurezza contro gli infortuni di cui alla normativa citata, la sicurezza nell’erogazione dell’assistenza sanitaria sancendo obblighi e responsabilità del datore di lavoro, di dotare la struttura ed i reparti di mezzi e persone necessari ad evitare rischi e danni ai pazienti, di procedere alla costante valutazione dei rischi e alla predisposizione dei necessari adeguamenti per evitarli.