IL CUORE ARDENTE DI SAN FILIPPO NERI: UN ANEURISMA NON DIAGNOSTICATO ? [1]
Prof. Giovanni Ceccarelli
Non è tempo di dormire,
perché il Paradiso non è fatto pei poltroni.
da: San Filippo Neri, Gli scritti e le massime
(a cura di Antonio Cistellini),
Editrice La Scuola, Brescia, 1994
Vorrei dapprima presentarvi i protagonisti della nostra breve storia odierna, che si svolge nell’arco dei quaranta anni che vanno dal 1544 al 1595, ma che si estende –anzi per me principia, come dirò - fino al 1640 o giù di lì.-
Attorniati da una folla di personaggi che potremmo definire “minori”, quasi dei caratteristi, essi – i protagonisti- sono fondamentalmente tre: un architetto piuttosto noto a Roma, tale Francesco Castelli detto il Borromino; un botanico di fama, con interessi molto vasti (è suo, tra l’altro , il primo “Erbario dei semplici” redatto in forma scientifica, prima di Linneo che correttamente ne ammise la priorità), al punto di essere volte ricordato, almeno dalle nostre parti, come lo scopritore – o almeno come colui che ne ha avuto per primo l’intuizione -della circolazione del sangue: Andrea Cesalpino, un aretino che insegna per molti anni a Pisa e arriva a Roma negli ultimi anni del 1500 come archiatra di Papa Clemente VIII Aldobrandini –quello, per capirci, di Beatrice Cenci e di Giordano Bruno, ma anche quello delle “Lunette Aldobrandini” di Annibale Carracci e del ritorno di Enrico di Navarra in seno al cattolicesimo, celebrato in maniera neanche tanto criptica da Caravaggio nella sua “Vocazione di Matteo” a s. Luigi dei Francesi (Matteo, nel quadro, ha il volto di Enrico, e san Pietro, aggiunto in un secondo momento, sia pur visto di spalle richiama molto la figura del Papa); e infine, lui, il protagonista assoluto della storia, Filippo Neri - un fiorentino migrato molto giovane a Roma e divenutovi popolarissimo per l’odore di santità –come si dice- che da lui emanava ancora in vita e che venne solennemente affermato con la sua canonizzazione ad opera di Papa Gregorio XV Ludovisi appena ventisette anni dopo la morte, nel 1622 (gli fecero compagnia, in quella cerimonia, santi illustri, come Ignacio de’ Loyola e Teresa de Avila) e santi contadini (come Isidoro da Madrid). Intendo dire Padre Filippo,, il “Pippo bbono” dei Romani de ‘na vorta.
Camminavo un giorno per Corso Vittorio, all’altezza di quella che –dopo 400 anni e passa- per i romani, appunto, è ancora la Chiesa Nuova; e accanto alla facciatina della chiesa (niente di speciale, opera di un architetto [2] da pochi soldi –come ai Filippini, un Ordine povero, si conviene) la mia attenzione venne attratta –e non poteva non accadere- da quel capolavoro che è l’altra facciata, quella dell’Oratorio, affiancata alla prima e impresa assoluta – con s. Ivo - dell’architettura borrominiana a Roma. Pensai alla descrizione che ne fa lo stesso Borromini, parlando con il suo amico –manco a dirlo, Filippino e Oratoriano anche lui- Virgilio Spada: “… e nel dar forma a detta facciata concava dell’Oratorio mi figurai il corpo umano con le braccia aperte, come che abbracci ogn’uno, che entri” (1). Su quella facciata, con un po’ di attenzione, notai alcuni elementi chiaramente simbolici: sopra il portone, una corona (la gloria del Signore), due palme (l’operosità umana nel tempo; la fatica e probabilmente il martirio, anche quello della quotidianità operosa). Sopra i capitelli delle lesene del piano superiore dei gigli (la purezza della vita cui i Filippini aspirano e lo stesso Filippo inseguiva); e poi la stella a otto punte nella cornice delle finestre al primo piano: l’ottagono che ne viene descritto è chiaramente, come quello che forma in genere la pinta dei battisteri, il richiamo al passaggio dalla razionalità del quadrato –l’uomo che pensa, terrenamente- alla perfezione del circolo –l’idea della divinità.
Ma in alto sul cornicione, attrassero la mia attenzione dei globi ardenti, fiammeggianti (non disponendo io di un teleobbiettivo abbastanza potente, ma solo di occhi ancora buoni, in attesa della immancabile cataratta- dovete accontentarvi, ma ci guadagnate, del disegno che ne fece lo stesso Borromini: fig. 1)).
Quale, mi domandai, può esserne il significato ? e perché Borromini mette questo globo ardente accanto ad altri più noti, più comuni e più facilmente spiegabili simboli, sulla sua facciata ?
Cominciò così, quella mattina, una piccola non difficile indagine. Bastò infatti leggere nel silenzio ovattato di una delle tante biblioteche di Roma (naturalmente, la Vallicelliana), la prima edizione della “Vita del beato Filippo Nerio” compilata nel 1622 –l’anno medesimo della canonizzazione- da padre Pietro Jacomo Bacci (2) ; il mistero si svela subito. Ricorda infatti Bacci che, arrivato a Roma, Filippo andava spesso e volentieri a pregare, la notte, nella catacombe di s. Sebastiano, sull’Appia antica . E lì, una notte, mentre era in preghiera assorto, “apparve un globo di fuoco, come un cuore ardente, che per la bocca gli entrò nel petto… e si trovò come avvolto in un incendio di amore al quale non reggeva il corpo debole e si lasciò cader in terra”. Continua il racconto: “ Fu in un subito sorpreso da così gran foco d’amore che non lo potendo sofferire si lasciò cadere per terra… e si slacciò dinanzi al petto per temperare in parte quella gran fiamma che sentiua. Et immediatamente tutto il suo corpo cominciò a sbattersi con grandissimo moto et tremore. Mettendosi poi la mano in petto, si trovò dalla banda del cuore un tumore della grossezza di un pugno, non sentendo più dolore né puntura di fonte alcuna. In quello stesso punto gli cominciò la palpitazione del cuore durandogli per tutta la vita … cagionandogli un tremore così veemente che pareva che ‘l core gli volesse uscir fora dal petto” “Restato così un poco e poi ripreso in qualche modo dall’improvviso assalto dell’amore .. si rialzò e si sentì ripieno di una gioia grandissima”. Questo scrive Bacci nel 1622, e non vi è dunque da meravigliarsi se, quando Borromini deve fare per i seguaci del santo una ventina di anni dopo- la facciata dell’oratorio, metta proprio quel “cuore ardente” a completare la simbologia filippina.
Quando il “fuoco ardente” penetra nel petto di Filippo, questi ha 29 anni e siamo, sembra, nella notte di Pentecoste del 1544.
Fig. 1: Schizzo borrominiano per il “globo ardente”. Vienna, Albertina.
Ma Filippo della cosa non parla mai quasi a nessuno; Lo indica solo come “secretum meum mihi”solo verso la fine della sua avventura terrena, quasi quaranta anni dopo l’episodio della via Appia, ne fa cenno confidandosi con un amico, il Cardinal Federigo Borromeo (quello di Manzoni) che solo dopo la morte di Filippo ne rende noti alcuni aspetti. Scrive infatti Federigo: “ Nel principio della sua conversione pregò lo Spirito Santo che gli dasse spirito e per questo disse molti giorni alcune diverse orationi… allora, mi disse il padre Filippo, che sentì questo moto che poi gli è sempre durato” [3]. Era stato, raccontano altri biografi su confidenze di alcuni Padri – Cistellini, autore di una voluminosa “Vita” di Filippo Neri (3) in tre grossi volumi, ricorda il Padre Mariano Sozzini e il Padre Pietro Consolini- come se “Filippo avesse visto un giorno, come per una Pentecoste personale, un globo di fuoco entrargli nella bocca e lo avrebbe sentito dilatarsi nel suo petto”.
Soggettivamente, la cosa stava dunque così; ma c’erano anche dei riscontri obbiettivi, che vanno anch’essi segnalati –come in una qualsivoglia inchiesta. Molti sono i testimoni (4) che attestano che durante tutta la sua lunga vita - Filippo visse ottanta anni, e ben quarantuno dopo l’episodio del globo di fuoco, del “cuore ardente” di borrominiana memoria- il Padre soffrì- o almeno manifestò- “un battimento” (così si esprime uno di essi) – “che se sente come un martello li fusse percosso ‘l petto”; e nei momenti in cui la crisi era maggiore, “sul petto del santo appariva una tuberosità in cui si propagava” –come scrive un biografo tardivo, ma che sa di medicina, il Bordet (5) - “il movimento del ritmo cardiaco”.
Un altro dei numerosi medici che assistettero il santo durante la sua vita , tale Angelo Vittori, ci fece anche una pubblicazione - dedicata, secondo la moda del tempo, “all’Illustrissimo et eminentissimo Cardinal Cesare Baronio” - della quale ci è restato il titolo che mostro in una diapositiva. In questo dotto scritto si legge (4) , in un forbito e accademico latino, quanto era possibile osservare obbiettivamente a chi, se se ne fosse dato il caso, avesse avuto modo di visitare accuratamente e intimamente il Padre Filippo. Una tale visita, vivo ancora il santo non ancora tale, non era facile, come rileva un altro dei medici che gravitavano intorno alla Congregazione, tale Domenico Saraceni da Collescipoli, che scrive [4]: “Il Padre Philippo era semplice e attento alla sua pudicizia o, come lui la chiama, castità; che, infatti, mentre stava nel letto ammalato, nelli suoi bisogni naturali accennava solo che se li desse l’orinale et mandava via ogn’uno, non lasciandose, né sano né infermo, vedere orinare né fare altro servitio… occorrendo fare il cristero, se li faceva da sé, non volendo esser visto ad nessuno”. Malgrado queste difficoltà, chi era riuscito a visitare Filippo testimoniava – nel predetto latino che altri ha tradotto alla bell’e meglio- come “egli haveva una concussione de core, la quale si faceva maggiore tutta volta che stava in contemplazione; et havea spezzato doi coste da quella banda che sta il core, il moto grande del core che li veniva in quella contemplatione“.
Questa era la situazione quando, nel 1593 –due anni prima della morte- entrò in scena il Cesalpino (Fig. 2), da poco nominato medico di Clemente VIII; i rapporti tra Filippo e Papa Clemente non erano certamente cordiali come erano stati con il predecessore Gregorio XIII: –si conserva (e la si legge ancora nelle stanze del santo) una lettera di Filippo al Papa, che viene rimproverato senza mezze misure per non essere ancora andato a far visita a Filippo, di lui molto più vecchio; ma forse per farsi perdonare della scortesia il Papa inviò Cesalpino dall’ infermo. Nel 1593 Filippo aveva 78 anni, press’a poco l’età di chi scrive, ma diciamo che al tempo a 78 anni si era veramente vecchi –il che, a pensarci bene, mi pare proprio che accada anche oggi. Il grande medico riferisce (4) : “Esaminando donde venisse quella palpitazione, scoprendogli –ed egli non volea - il petto, lo trovai molto estenuato, con un tumore a presso delle costole nel lato sinistro vicino al core… et al tatto si conosceva essere le costole inalzate in quel luogo et nel tempo della palpitazione si alzava et abbassava a uso di mantici”.
La cosa si chiarì –in un certo senso- due anni dopo, quando Filippo rese –come si dice e nel caso molto appropriatamente- l’anima a Dio. Dal momento che “facta deinde corporis sectione” –il perito settore fu (come al tempo era uso- il “barbiere” Marco
Figura 2: Andrea Cesalpino in una
incisione del 1574
Antonio del Bello, che già più volte aveva avuto a che fare col sant’uomo in vita, per “cavargli sangue”) apparve –è ancora Cesalpino che scrive (4) – e traduco per semplicità dal solito aulico latino- “a causa degli anni si è verificata una dilatazione del cuore, di dimensioni ben oltre quelle abituali; e come conseguenza si osservò una “vena arterialis “ di calibro oltre tre volte quello normale, da cui una notevole difficoltà di respirazione che il padre aveva più volte accusato in vita”. Cesalpino precisa che per lui la “vena arterialis” è quella che “ex dextro cordis ventriculo in
polmone sanguinem derivat”. Insomma, Filippo evidenziava alla autopsia una cardiomegalia con dilatazione cospicua dell’arteria polmonare. Sempre Cesalpino nota che “le costole erano rotte, cioè staccata la cartilagine dall’osso, onde si poteva alzare et abbassare et dar luogo alla palpitazione cardiaca” che egli aveva già osservato in Filippo vivo.
Figura 3: firma di Antonio Porto nella relazione allegata al processo di canonizzazione
di Filippo Neri. Cod. Ambrosiano G7, inf.
I comprimari, cui accennavo all’inizio, confermano nei loro scritti le osservazioni di Cesalpino, sia che si chiamino il già citato Vittori (“fractura costae duae ex mendosis, quinta videlicet et quarta… venam arterialem duplo maiorem et duriorem”) sia che sia (Fig. 3) tal Antonio Porto da Fermo (6) (“cor aliquantum maius quam in aliis, vena arterialis triplo maior… adaperto thorace, ambae fractae adinventae fuerunt”… e così via).
La conclusione degli illustrissimi dottori fu in definitiva che le palpitazioni, la tumefazione in corrispondenza della zona cardiaca, i tremori squassanti, il perpetuo calore, la frattura delle costole e quant’altro avesse afflitto il padre Filippo nella sua lunghissima vita “non secundum viam naturae, sed omnino supra naturam fuisse”; si trattasse cioè di fenomeni soprannaturali. Cesalpino si spinge un po’ più in là nella interpretazione teleologica dei dati che ha rilevato, supponendo –ma in forma dubitativa, il che per i tempi va notato- che la dilatazione della vena arteriosa si sia prodotta “ut maior copia sanguinis ad polmone deferetur” spiegando così la maggior quantità di Spirito che riempiva l’Oratoriano. D’altra parte, più o meno negli stessi anni, anche un altro celebre medico che muore cinque anni prima di Filippo, Ambroise Paré (7) , dà la stessa spiegazione per un altro caso a lui capitato, in cui, analogamente a Filippo, il malato aveva –nel sempre aulico francese del tempo- “un très grand battement de toutes les artères et disoit sentir une estreme chaleur par tout le corps”; la dilatazione arteriosa era spiegata dal grande chirurgo francese con “le sang de l’artère chaud et bouillant”.
La cosa sembrò finire qui. Salvo che per Jean Fernel, autore di un poderoso trattato “De universa medicina” in ventitre libri, edito a Parigi nel 1581. Costui emette (8) per primo l’ipotesi, che tale resta, che tutti i sintomi presenti in Filippo in vita e tutti i reperti osservati post mortem –la palpitazione, la tumefazione pulsante, la rottura delle costole, l’eterno interno calore e così via- potessero dipendere da una arteria dilatata in aneurisma “in quo et tactu et visu conspicua erat pulsatio”. Questa opinione risulta condivisa parecchi anni dopo,anche da un altro celebre medico, di cui siamo oggi in un certo senso ospiti, Giovanni Maria Lancisi. Il Lancisi infatti nella sua opera più famosa, pubblicata peraltro postuma (9) , scrive proprio su Filippo Neri: “ celebre legitur exemplum anaeurysmatis totius cordis atque arteriae in Beato Philippo Nerio”.
A questo punto, e siamo al termine dell’inchiesta, ci potremmo porre la stessa domanda che si pose –addirittura prima che iniziasse l’era dei lumi - il Papa Benedetto XIV , scrivendo autorevolmente (anche se siamo nel 1734 e lui, il Lambertini, Papa ancora non era) in merito a “De servorum Dei beatificazione et beatorum canonisatione” [5]: “ I fenomeni mostrati e sofferti da Filippo sono spiegabili in termini scientifici e medici, o implicano, come un tempo si è supposto e ritenuto, un intervento “soprannaturale”, di quello che Cesalpino chiamava “lo Spirito” ?. E Papa Benedetto, che certamente non era e non poteva essere un positivista, risponde – a mio avviso con l’estremo buon senso che sempre lo caratterizzava-: “Si ponga mente che queste manifestazioni” –quelle su cui così poveramente, oratoriamente direi- vi ho oggi intrattenuto- “sorsero in Filippo mentre aveva trent’anni e assolutamente non ostante esse, pur affranto dalle fatiche, dai digiuni e dalle penitenze visse felicemente fino a una età decrepita. Il che costituisce segno –e quindi miracolo- ben grande”.
Certo, come sempre quando si va alla ricerca, con la mentalità di oggi, di quello che il passato ci offre, siamo di fronte a difficoltà quasi insormontabili, dovute sia alla diversità dei mezzi oggi e un tempo disponibili (non fu possibile a Cesalpino utilizzare una RMN, e neanche un semplice ECG e neanche una ecografia transesofagea), sia ai linguaggi impiegati (“aneurisma” significa per noi oggi quello che significava per l’anonimo estensore del papiro di Ebers, dove (10) lo si troverebbe per la prima volta descritto ? o per Andrea Vesalio [6], che ne diagnosticò per la prima volta uno in un soggetto vivente, confermato due anni dopo alla autopsia ? o per Antonio Saporta (11) , che ne scrisse addirittura prima di Vesalio –e solo dieci anni dopo il globo di fuoco di Filippo-, ma il cui manoscritto rimase inedito fino al 1624 ? la parola, composta di “an” ed “eurys” –a sua volta dal sanscrito “urus” si svolge nel greco “eurynein” che sta per “dilatare”: e non aveva Filippo e il cuore e un grosso vaso “dilatati” ?).
L’esercizio cui mi sono dedicato ( e che ripete quello che feci qualche anno fa, andando alla ricerca delle malattie degli antichi Papi (12) ) assomiglia molto –e mi scuso quindi ancor più per il tempo che vi ho rubato- a quello di alcuni moderni esecutori di musica antica: ricostruiscono filologicamente gli strumenti del tempo di Giulio Caccini e di Emilio d’ Cavalieri –contemporanei di Filippo- e li suonano con incredibile abilità; ma non possono farli suonare nelle stanze dove quelle note echeggiavano allora né possono, soprattutto, far sì che le nostre orecchie, con cui li ascoltiamo, non abbiamo sentito anche la musica di Beethoven, di Chopin e anche dei Beatles; il che gli per gli ascoltatori del loro tempo non era avvenuto.
Il passato ha il suo fascino e il suo mistero che si mantiene malgrado gli sforzi degli storici, figuriamoci se il foco ardente di san Filippo non mantiene il suo segreto davanti a un dilettante come me .
BIBLIOGRAFIA
1. Borromini F.: Opus architectonicum. A cura di S. Giannini, Roma, 1725 (Capitolo VII: Della facciata dell’Oratorio).
2. Bacci P. J.: Vita di s. Filippo Neri, fiorentino, fondatore della Congregazione dell’oratorio. In Roma, per Giacomo Mascardi, 1622, con licentia de’ superiori.
3. Cistellini A.: San Filippo Neri, l’Oratorio e la Congregazione. Brescia, 1989.
4. Incisa della Rocchetta G., Vian N. ( a cura di): Il primo processo per san Filippo Neri. Città del Vaticano, 1957-1963.
5. Ponnelle L., Bordet L.: San Filippo Neri e la società del suo tempo (1515-1595). Traduzione italiana a cura di T. Casini, Firenze, 1931; edizione anastatica con appendice, 1987; l’edizione originale in francese, Paris, 1928.
6. Belloni L.: L’aneurisma di s. filippo Neri nella relazione di Antonio Porto. In: Rendiconti dell’Istituto lombardo di scienze e lettere; classe di scienze matematiche e naturali. 83 (XIV serie III), 665-70, 1950.
7. Paré A.: Oevreus complete d’Ambrise Paré. Paris, Baillière, 1840-41.
8. Fernel J.-F.: De universa medicina. Francofurti, 1581.
9. Lancisi G.M.: De motu cordis et aneurysmatibus. Rma, 1728.
10. Leca A.-P.: La medicina egizia al tempo dei Faraoni. Ciba Geigy, 1986, pag. 129.
11. Saporta A.: De tumoribus praeter naturam, libri V. V. Lugduni, P. Rayaud, 1624.
12. Ceccarelli G.: La salute dei pontefici nelle mani di Dio e dei medici. Da Alessandro VI a Leone XIII. Milano, 2001.
RIASSUNTO.
Nel 1644, all’età di 29 anni, san Filippo Neri ebbe una esperienza mistica che visse come un “cuore ardente”, come se – cioè - un globo di fuoco gli fosse penetrato nel petto. Per gli altri 41 anni della sua vita il santo conservò e sperimentò le conseguenze di quell’evento, conseguenze che furono riscontrate anche da medici come Andrea Cesalpino e che consistettero in palpitazioni, tumefazione della zona cardiaca, rottura di due costole. Alla autopsia, compiuta dopo la morte del Neri in vista della sua canonizzazione, il cuore apparve ampiamente dilatato come anche la arteria polmonare. Si discute –alla luce della documentazione del tempo- la possibilità che quanto sperimentato da Filippo sia la conseguenza di un aneurisma a carico della arteria polmonare.
SUMMARY
During 1644, when his age was 29, Filippo Neri –experienced a “mystical shock” defined as a “burning heart”. He lived for the following 41 years with some physical consequences, as palpitation, tumor in the cardiac area, breaking of two ribs; such data were confirmed also during the autopsy, with the Andrea Cesalpino assistance. The possibility such experience was due to a sudden dilatation of the pulmonary artery is discussed on the basis of the contemporary literature.
Key words.
Filippo Neri; aneurysm, burning heart.
[1] Relazione presentata in occasione della celebrazione della XI Settimana della Cultura, tenutasi a Roma, nella sede dell’Accademia, il 31 marzo 2009. Giovanni Ceccarelli è L.D. in Clinica pediatrica.
[2] Fausto Rughesi, che ne è l’autore del progetto, completato nel 1605.
[3] La narrazione si reperisce negli “Argumenta” del Borromeo conservati nella Biblioteca Ambrosiana a Milano. Si trova pubblicata in “Miscellanea adnotationum variarum”edita a Milano dalla Biblioteca
Comunale nel 1985.
[4] Il testo si trova in bibliografia citata alla voce (4)
[5] Il testo è pubblicato in Venezia, ad opera di J. Remondini & A. Zattae, 1788.
[6] Il dato è riferito in: Welsch G.H.: Sylloge curationum et observationum medicialaium centuria. Augusti Vindelicorum, G. Goebelij, pt. 4, pag. 46.