“Le vasculopatie cerebrali. Lo stato dell’arte”.
A. Carolei, D. Degan, S. Sacco
Dati epidemiologici
L’ictus cerebrale rappresenta una importante causa di disabilità a livello mondialeoltre ad essere la terza causa di morte nei Paesi industrializzati [1,2]. Ogni anno negliStati Uniti più di 160.000 pazienti muoiono per questa patologia; ogni 53 secondi in media si verifica un nuovo caso di ictus ed ogni 3 minuti si verifica un nuovo decessoper la stessa patologia.[3] L’ictus cerebrale può manifestarsi a qualunque età, pur essendo più frequente negli anziani che non nei giovani. A partire dai 55 anni, per ogni decade, il rischio di ictus raddoppia mentre il 72% degli eventi si manifesta in soggetti ultrasessantacinquenni. L’ictus ischemico rappresenta circa l’80% di tutti gli eventi ictali, mentre i casi di ictus emorragico sono complessivamente pari a circa il 20% del totale[2-3].
Gestione terapeutica
L’ictus cerebrale è oggi considerato alla stregua di un’emergenza medica, che richiedel’immediata ospedalizzazione del paziente, per sottoporlo ad un rapido ed accurato iter diagnostico, identificando e trattando precocemente le eventuali complicanze [4-5]. Le recenti Linee Guida dell’American HeartAssociation/American Stroke Association (AHA/ASA) ribadiscono la raccomandazioneche il paziente con sospetto ictus in fase acutasiaprontamente trasferito in strutture dotate di unità dedicate (Strokeunito Unità neurovascolari) in grado di offrire la possibilità di effettuare terapie di rivascolarizzazione (trombolisi endovenosa con rt-PA, trombolisiintraarteriosa con rt-PA, rimozione meccanica del coagulo) entro la finestra terapeutica delle 3-4,5 ore, evitando ritardi in fase di pre-ospedalizzazione e di ricovero[6].Nei casi in cui non sia possibile accedere ad una Strokeunitè comunque sempre indispensabile provvedere alla ospedalizzazione del paziente.
Meccanismi fisiopatologici
Le variazioni dei parametri metabolici e cerebrali che si verificanonel corso dell’ictus sono state ampiamente studiate. Nei limiti dell’autoregolazione cerebrale, la riduzione della pressione di perfusione (CPP) è compensata dall’aumento del volume ematico cerebrale (CBV) per mantenere costanti il flusso ematico cerebrale (CBF) ed il consumometabolico di ossigeno (CMRO2); in caso di ischemia cerebrale acuta i meccanismi di compenso si esauriscono a fronte dialterazioni metaboliche, quali l’edema, l’acidosi tissutale e il graduale riequilibrio dei gradienti ionici attraverso la membrana neuronaleche conducono alla necrosi del tessuto cerebrale sede di ischemia, a meno che il flusso ematico non sia precocemente ripristinato [7].
Terapia dell’ictus acuto
Fino agli anni ’90 del secolo scorso la terapia dell’ictus cerebrale in fase acuta si basava essenzialmente su misure di supporto, non in grado di migliorare in modo consistente la prognosi dei pazienti. Dalla metà degli anni ’90, sulla base delle evidenze favorevoli degli studi clinici sulla terapia trombolitica, è stato possibile migliorare l’approccio alla gestione della patologia durante la fase acuta. Lo scopo della terapia dell’ictus cerebrale in fase acuta è di ricanalizzare il vaso occluso e quindi di riperfondere il tessuto cerebrale in sofferenza ischemica.La trombolisi endovenosa con rt-PA è la terapia che trova indicazione in queste circostanze e che è supportata dalle Linee Guida nazionali ed internazionali sull’ictus. La trombolisi endovenosa dovrebbe essere disponibile per tutti i pazienti che si presentano entro 3 ore dall’insorgenza dei sintomi di ischemia cerebrale e dovrebbe essere adeguatamente considerata anche nei pazienti che si presentano oltre le 3 ore dall’esordio e comunque entro 4,5 ore dall’insorgenza dei sintomi [8]. I benefici che si possono ottenere con latrombolisi sono tanto maggiori quanto minore è l’intervallo tra l’esordio dei sintomi el’inizio del trattamento. Secondo il Third International Stroke Trial (IST-3) la trombolisiendovenosa con rt-PA, eseguita entro 6 ore dall’esordio dei sintomi in pazienti con ictus ischemico acuto,può determinareun miglioramento dell’outcome funzionale(sopravvivenza libera da disabilità, definita da un punteggio della modified-Rankin scale compreso tra 0 e 2) [9]. I risultati dell’IST-3 ed ulteriori dati recenti indicano che la trombolisiendovenosa può essere praticata con sicurezza ed efficacia anche nei pazienti di età superiore o uguale agli 80 anni[9-10].Il trattamento endovascolare (trombolisiintraarteriosa con rt-PA, rimozione meccanica del coagulo,o approccio combinato, con entrambe le metodiche) è da tempoutilizzato in alternativa alla trombolisiper via endovenosa.L’efficacia del trattamento endovascolare, che inizialmente appariva promettente, non risultatuttavia supportata dai dati recenti, che non evidenziano benefici né rispetto alla trombolisi endovenosané a seguito di trombolisi sistemica inefficace.Infattiil recente studio Synthesis Expansion: A Randomized Controlled Trial on Intra-Arterial Versus Intravenous Thrombolysis in Acute Ischemic Stroke,condotto su un totale di 361 pazienti con ictus ischemico in fase acuta,ha mostrato che il trattamento endovascolare non è superiore alla trombolisi endovenosa con rt-PA nel promuovere la sopravvivenza libera da disabilità (definita da un punteggio alla modified-Rankin Scale pari a 0 oppure 1 a distanza di 3 mesi dall’evento) [11]. Un ulteriore studio (Interventional Management of Stroke III Trial, IMS-3), condotto su 434 pazienti al fine di valutare l’efficacia della trombolisi endovenosa con rt-PA seguita da trombolisiintraarteriosa con rt-PA rispettoal solo trattamento endovascolare, ha mostrato l’assenza di differenze significativetra i due approcci terapeutici in termini di sopravvivenza libera da disabilità (definita da un punteggio alla modified-Rankin Scale pari a 0 oppure 1 a distanza di 3 mesi dall’evento) [12].Altridatirecentiindicano che la selezione dei pazienti candidati a terapie di rivascolarizzazione oltre la finestra terapeutica sulla base delle neuroimmagini non risultavantaggioso. Il trial Mechanical Retrieval and REcanalization of Stroke Clots Using Embolectomy (MR-RESCUE) è statocondotto con l’obiettivoprimario di dimostrareche le neuroimmaginidelterritorio cerebrale dipenombraischemicapossanoidentificarepazienti con ictus acutoche a distanza di 8 ore o piùdall’esordiodeisintomitragganobeneficio dal trattamentoendovascolare(embolectomiameccanica).Il vantaggio del trattamentoneipazientiche in base al datodelleneuroimmaginipresentavanoevidenza di un’area di penombraischemicanon èstatodimostrato.Secondolo studio MR-RESCUE, peraltro,l’embolectomia meccanicaimpiegata come trattamentodi infartiestesi del circoloanteriorenon possiedeefficacia superiore allatrombolisiendovenosain termini di sopravvivenza libera da disabilità (definita da un punteggio alla modified-Rankin Scale pari a 0 oppure 1 a distanza di 3 mesi dall’evento)[13].Ad oggi quindi la trombolisi endovenosa con rt-PA rimane il caposaldo della terapia dell’ictus in fase acuta anche quando le neuroimmagini mostrano che l’occlusione è dovuta ad un grosso trombo intracranico[13-15].
Strategie di prevenzione
I protocolli di gestione della patologia devono prevedere percorsiche tendano a ridurre i tempi tra l’esordio dei sintomi e l’inizio della trombolisi endovenosa, mentre una volta superata la fase acuta lo scopo principale della terapia deve essere rivolto alla prevenzione di ulteriori eventi vascolari cerebrali e non cerebrali. Per attuare una corretta terapia preventiva è fondamentale l’inquadramento eziopatogenetico dell’evento. Una patogenesi aterotrombotica può essere accertata mediante esami ultrasonografici o di neuroimmagini per lo studio dei vasi cerebro afferenti extracranici e dei grossi vasi intracranici [16]. Per l’imaging dell’arteria carotide interna extracranica gli ultrasuoni sono in grado di offrire un’elevata accuratezza diagnostica e possono essere supportati dall’angio-TC o dall’angio-RM con mezzo di contrasto, esami questi ultimi, in grado di fornire informazioni dettagliate sulla morfologia della placca. Queste informazioni sono particolarmente utili nel caso di stenosi carotidee di grado moderato causate da placche aterosclerotiche con esteso core lipidico e sottile cappuccio fibroso, facilmente suscettibile di rottura, con conseguente formazione di trombi [16-17]. Per la visualizzazione dell’arteria vertebrale l’accuratezza diagnostica degli ultrasuoni non è molto elevata rendendosi quindi necessaria, se si sospetta una patologia ostruttiva, l’esecuzione delle neuroimmagini. Per quanto riguarda il distretto intracranico gli ultrasuoni, come anche le tecniche diagnostiche convenzionali di neuroimmagine, hanno un’accuratezza diagnostica limitata, non essendo in grado di evidenziare lesioni di piccole dimensioni e di mostrare nel dettaglio le caratteristiche della placca. Le recenti tecniche basate sull’impiego della RM ad alta risoluzione sembrano poter offrire un maggiore supporto alla diagnosi, potendo evidenziare lesioni di minori dimensioni oltre alle caratteristiche della placca [18-20].
L’aterotrombosi in pazienti ultrasessantenni riduce l’aspettativa di vita media di 8-12 anni. In presenza di una patogenesi aterotromboticasono pertanto indispensabili misure di prevenzione secondariabasate sulla somministrazione di farmaci antiaggreganti, statine e farmaci antipertensivi e, in pazienti selezionati, sulla chirurgia delle placche carotidee.La fibrillazione atriale rappresenta la principale fonte di embolia cerebrale cardiogena. Altre fonti maggiori di ictus ischemico cardioembolico sono la stenosi mitralica, le protesi valvolari, le endocarditi, il mixoma atriale, l’infarto miocardico acuto, le acinesie segmentarie di parete, lo scompenso, i trombi adesi alle pareti cardiache e gli aneurismi a livello del ventricolo sinistro. Fonti minori di ictus cardioembolico, spesso misconosciute ed identificate nel corso di indagini diagnostiche eseguite per altri motivi nella popolazione generale, sono la pervietà del forame ovale, i difetti del setto interatriale ed interventricolare, la stenosi aortica calcifica, la calcificazione dell’annulus mitralico edil fibroelastoma. Mentre l’identificazione della fibrillazione atriale persistente e permanente non pone problemi diagnostici, la fibrillazione atriale parossistica può essere elusiva. Infatti 1 paziente su 6, al di sopra dei 55 anni di età, con ictus ischemico criptogenetico o TIA risulta essere affetto da fibrillazione atriale parossistica non precedentemente diagnosticata. I dati disponibili indicano che l’esecuzione di un ECG Holter convenzionale, della durata di 24-48 ore, non è in grado di migliorare di molto la possibilità di identificare il disturbo.Il trial 30-day cardiacEvent Monitor Belt for RecordingAtrial fibrillationafter a CerebralischemicEvent (EMBRACE) è stato condotto su 572 pazienti con ictus ischemico o TIA ed anamnesi negativa per fibrillazione atriale, per valutare se un monitoraggio ECG prolungato, della durata di 30 giorni,poteva migliorare la capacità di diagnosticare episodi di fibrillazione atriale parossistica. In questi pazienti è stato impiantatoun looprecorder, programmato per registrare episodi di fibrillazione atriale. Il trial ha dato risultati positivi, dimostrando che un monitoraggio ECG prolungato si associa ad un aumento importante degli eventi subclinici che possono essere identificati[21]. La diagnosi di fibrillazione atriale subclinica è di estrema importanza da un punto di vista terapeutico in quanto, se si documenta la presenza di fibrillazione atriale, si impone,salvo controindicazioni, l’inizio di una terapia anticoagulante orale.
Nuovi anticoagulanti orali
La terapia anticoagulante orale è in grado di ridurre in modo significativo la comparsa di eventi vascolari di tipo embolico in soggetti a rischio in rapporto a caratteristiche demografiche e comorbidità. Fino ad oggi la terapia anticoagulante orale era basata sull’impiego delwarfarin. Recentemente sono stati sperimentati con successo nuovi anticoagulanti orali quali dabigatran, rivaroxabanedapixaban [22]. Il vantaggio dei nuovi anticoagulanti rispetto al warfarin è legato al minor numero di interazioni farmacologiche ed all’assenza di interazioni con gli alimenti, nonché alla stabilità dell’effetto anticoagulante, che non rende necessario il regolare monitoraggio dello stato della coagulazionecon l’International Normalized Ratio (INR). Gli studi disponibili indicano che questi farmaci sono efficaci quantoo più del warfarinassociandosi ad un minor rischio di sanguinamento soprattutto intracerebrale. Lo studio Randomized Evaluation of Long-Term Anticoagulant Therapy(RE-LY), effettuatosu 18.113 pazienti con fibrillazioneatriale, ha dimostrato la superioritàdel dabigatranal dosaggio di 150 mg/die rispetto al warfarin nellaprevenzionedell’ictus e del tromboembolismosistemico, con un numerodi eventiemorragicimaggiori simile[23-24].Rivaroxaban Once daily oral directfactor Xa inhibition Compared with vitamin K antagonism for prevention ofstroke and Embolism Trial in AF(ROCKET-AF) è uno studio clinic randomizzato, in doppiocieco, che ha confrontatol’efficacia di rivaroxaban(in unicasomministrazionegiornalieraalla dose orale di 20 mg o 15 mg) con quella di warfarin nellaprevenzionedell’ictus e del tromboembolismosistemico. Il trial, effettuatosu 14.264 pazienti con fibrillazioneatriale, ha mostrato la non inferiorità di rivaroxaban e l’assenza di differenzesignificativenelrischio di sanguinamentimaggiori o clinicamenterilevantineipazientitrattati con rivaroxabanrispetto a quantoosservatoneipazientitrattati con warfarin [25].Apixaban for Reduction In StrokeandOtherThromboemboLicEventsinAtrial Fibrillation(ARISTOTLE) è un trial randomizzato, in doppiocieco, di non inferiorità,effettuatosu 18.201 pazienti con fibrillazioneatriale e con almeno un altrofattore di rischio per ictuscerebrale, che ha mostrato la riduzionedell’incidenza di ictus ischemico o emorragico e/o emboliasistemicaneipazientitrattati con apixabanrispetto al warfarin. La terapia con apixaban ha inoltreprodottorispetto a quella con warfarin unariduzionedellamortalitàglobale con un’incidenza di sanguinamenti maggiorinettamenteinferiore[26]. I limiti dei nuovi anticoagulanti sono rappresentati dalla mancanza di antidoti definiti e sperimentati anche se la breve emivita li rende meno indispensabili rispetto a quanto lo erano per il warfarin, e dalla impossibilità di monitorare lo stato della coagulazione, un aspetto, questo, che non permette di valutare la compliance del paziente.Per alcunideinuovifarmacisi pone ancheilproblemadella forma farmaceutica: ildabigatran per esempio è in capsule, non frantumabile e conseguentemente non puòesseresomministrato a pazienticon disfagia. Qualorasidovessedecidere di effettuareuntrattamentoanticoagulante in un pazientedisfagico con sondinonasogastrico, non potendosisomministrareildabigatransidovràoptare per unaterapiaanticoagulantealternativa[27]. Inoltre, a differenza del warfarin, la somministrazione dei nuovi anticoagulanti orali richiede particolare cautela o non risulta attuabile nei pazienti con ridotta clearance della creatinina, trattandosi di farmacimetabolizzatiprincipalmente a livellorenale, in particolarmodoildabigatran, che ha un’escrezionerenalepari a circa l’80%.Perquestosirendenecessarioilperiodicomonitoraggiodeiparametri di funzionalitàrenale, ondeevitare le complicanze da sovradosaggio[28].
Conclusione
Sia l’iter diagnostico che la terapia dell’ictus cerebrale ischemico hanno subito notevoli miglioramenti negli ultimi anni. Di fondamentale importanza è la precocità del trattamento in fase acuta, con l’obiettivo di ricanalizzare il vaso occluso e di garantire la riperfusione del tessuto cerebrale sede dell’ischemia. La trombolisi endovenosa con rt-PA rimane il caposaldo della terapia dell’ictus in fase acuta, mentre l’efficacia del trattamento endovascolare, che inizialmente appariva promettente, non risultaallo stato supportato dai dati più recenti.La ricerca clinica degli ultimo anni ha inoltrestudiato e validate l’impiegodellenuoveterapieanticoagulantiorali in alternativa al warfarin,chesonorisultatecomplessivamenteconvenienti per la prevedibilitàdellaloroazione, la provata efficaciaedilbuonprofilo di sicurezza.L’ictus cerebrale rimane tuttavia una importante causa di disabilità e morte nei Paesi industrializzati, per cui ulteriori sforzi saranno necessari al fine di ridurne l’incidenza ed ottimizzarne la gestione.
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Antonio Carolei, Diana Degan, Simona Sacco
Clinica Neurologica, Università degli studi dell’Aquila, L’Aquila