SUL CONCETTO DI MALATTIA
L’IPERTENSIONE ESSENZIALE COME MODELLO[*]
Vito Cagli[†]
Per prima cosa desidero esprimere il mio ringraziamento al Presidente uscente Sandro Perrone e a tutto il precedente Consiglio Direttivo per avermi concesso il privilegio di questa prolusione, ma anche per gli otto anni di comune lavoro svolto in un clima di vera amicizia. Desidero anche porgere il più caloroso augurio di buon lavoro alla nuova Presidente Laura Gasbarrone e al nuovo ConsiglioDirettivo. E a voi tutti che siete intervenuti, un grazie di cuore per la vostra presenza.
Che cos’è la malattia?[‡] Quando ci domandiamo cosa sia una qualsiasi cosa pensiamo in prima istanza ad un oggetto concreto, dotato di esistenza reale. E fu questa la prima interpretazione della malattia che i medici della più lontana antichità proposero: un oggetto che – come una freccia – penetri all’interno del corpo[1].
Compiendo un ulteriore passo di avvicinamento al nostro tema dobbiamo chiederci: se una malattia pre-esista al momento in cui viene individuata, oppure è il fatto stesso di averla individuata che la crea. Accettando il primo corno del dilemma la malattia avrebbe una sua reale esistenza: ci troveremmo in presenza di una ontologizzazione (o entificazione, o reificazione) della malattia: essa sarebbe insomma qualcosa di realmente esistente, come – ad esempio – pensava Paracelso nel ‘500 o come, con graffiante ironia, viene descritto dal Belli quando prende di mira la “scoperta” effettuata dal clinico e archiatra pontificio Benedetto Viale nell’ epidemia di colera che aveva colpito la città di Ancona nell’Ottocento:
Nun sapete che llui cor cannocchiale vede er colléra in forma de dragone,
e ggnissun antro medico cojjone
aveva mai scuperto st’animale?
Un’ anticipazione – tra l’altro – della teoria infettiva delle malattie che dovrà attendere Pasteur e Koch per ottenere una dignità di scienza, capace di restituire forza alla concezione ontologica della malattia, che sarebbe esatta se, trascurando tutto quanto è connesso alla risposta dell’organismo[2], la malattia consistesse soltanto nel microrganismo e dunque potesse essere con esso totalmente identificabile.
Ma se la malattia non fosse una “cosa” cos’altro mai potrebbe essere, se non un puro “nome”? Eccoci dunque piombati in quel problema degli “universali”[3] che concerne i rapporti tra voces e res, cioè tra i nomi e le cose, tra una categoria (p. es. i cavalli) e i singoli concreti rappresentanti di essa (questo o quel singolo cavallo). Un problema con cui si cimentarono le più sottili intelligenze del XII secolo, a cominciare da Roscellino di Compiègne (1050-1120), campione dell’ipotesi nominalistica (i nomi sono senza valore in quanto non rimandano a nulla di oggettivo) e da Guglielmo di Champeux (1070-1121), campione dell’ipotesi realista (i nomi rimandano a entità dotate di esistenza propria), fino a Pietro Abelardo (1079-1142), che, scegliendo una posizione intermedia tra le due precedenti, sostenne che gli universali fossero un concetto, un discorso mentale che funge da facilitatore della comprensione, da mediatore tra pensiero e realtà. Ed è questa impostazione quella che si è affermata e che ha – ante litteram – sconfitto quei clinici secondo i quali non esisterebbero le malattie ma soltanto i malati, salvo poi contraddirsi pretendendo dai propri studenti lo studio della Patologia speciale, medica o chirurgica che, se fosse vera la tesi nominalistica, non potrebbero esistere.
Oggi, possiamo considerarci “figli” di Abelardo, in quanto riteniamo che la malattia esista soltanto come costrutto mentale e non come qualcosa di concreto. L’equivoco di considerare come reale la malattia venne facilitato da François Boissier de Sauvage (1706-1767) che nella sua Nosologia metodica costruì il primo coerente tentativo di sistema nosologico ispirandosi a Thomas Sydenham (1624-1689). Scrive Mirko Grmek:
Con la sua concezione delle malattie come specie costanti, ben distinte l’una dall’altra ma legate da una scala di somiglianze, Thomas Sydenham ha generato la speranza di una classificazione nosologica “naturale”, o quanto meno coerente. […]
Ispirandosi alla definizione delle specie nosologiche di Sydenham, alla metodologia clinica di Baglivi, alla gerarchizzazione tassonomica dei botanici e della fisica newtoniana, François Boissier de Sauvage, medico a Montpellier, ha realizzato una classificazione delle malattie per affinità sintomatiche, che è di fatto il primo sistema nosologico che possa essere considerato accettabile dal punto di vista logico e soddisfacente per la pratica medica.[4]
Che, in realtà, le malattie siano tutt’altro che «specie costanti» ce lo fa intendere chiaramente Ludwik Fleck (1896-1961), un microbiologo-filosofo polacco che in un suo saggio, divenuto un “classico”, occupandosi della costruzione del concetto di sifilide ha scritto:
Si devono svolgere ricerche sul concetto di sifilide considerando questo concetto come un avvenimento della storia del pensiero, come un risultato dello sviluppo e della confluenza di alcune linee del pensiero collettivo[5].
Insomma, una delle conseguenze di accettare la malattia unicamente come costrutto mentale è quella di accettare anche che essa muti nel tempo, differenziandosi da altri processi morbosi o confluendo in essi e che questa costruzione sia in rapporto al collettivo di pensiero, cioè agli orientamenti, alle opinioni, alle conoscenze di un determinato contesto sociale in una data epoca.
Dopo questo – a nostro avviso necessario – inquadramento generale dell’argomento possiamo passare a esaminare il problema specifico dell’ipertensione arteriosa essenziale (IAE), iniziando col chiederci attraverso quali passaggi si sia giunti a concepirla come una malattia. Il lungo itinerario, ripercorso in un nostro recente libro[6], cui rinviamo per integrare le citazioni bibliografiche qui riportate, può aiutarci a considerare il concetto dell’ipertensione arteriosa in quanto malattia come un «avvenimento della storia del pensiero», secondo l’insegnamento di Fleck di cui si è detto poco sopra.
Le tappe fondamentali che dovevano condurre ad affermare l’esistenza dell’ipertensione arteriosa sono le tre seguenti. La prima è quella fisiologica. Comincia dalla scoperta della circolazione del sangue da parte di William Harvey nel 1628; prosegue con la misurazione della pressione arteriosa nell’animale (Stephen Hales, 1733), e poi con l’approntamento di un prototipo di apparecchio per la misurazione della pressione adatto agli studi fisiologici nell’uomo (Jules Marey, 1860). La seconda tappa, quella fisiopatologica, iniziò a delinearsi nel 1836, quando Richard Bright, per spiegare la compresenza autoptica in certi malati di «reni con aspetto cicatriziale e granulare» e di «ipertrofia cardiaca», postulò che il rene alterato fosse causa di una «alterata circolazione a livello capillare in maniera da rendere necessaria una maggior forza per spingere il sangue attraverso le suddivisioni distali del sistema vascolare» e che ciò inducesse l’ipertrofia cardiaca. Vennero poi le osservazioni di quanti cominciarono a sospettare l’esistenza di una condizione primitiva (cioè non dipendente da lesioni renali) capace di determinare alterazioni dei piccoli vasi arteriosi (Gull e Sutton, 1874), oppure la presenza di «una sostanza nociva» nel circolo sanguigno responsabile di un aumento della pressione arteriosa (Fred Mahomed, 1874), o l’esistenza di una «contrazione arteriolare» secondaria ad una «azione nervosa» come causa di aumento della pressione arteriosa in soggetti anziani (Clifford Albutt, 1895), fino a che Karl von Bash e Carlo Forlanini alla fine del secolo XIX sostennero l’esistenza di un’ipertensione sganciata da alterazioni renali e Henri Huchard introdusse tra il 1899 e il 1905, i termini “ipertensione” e “pre-sclerosi”. In tutti questi studi l’affermazione di un aumento della pressione arteriosa era basato sui caratteri clinici o sfigmografici del polso. La terza tappa, quella clinica, si può far iniziare con la messa a punto da parte di Scipione Riva-Rocci, nel 1896, di un apparecchio maneggevole e trasportabile per la misurazione della pressione.
Il dato “pressione arteriosa” fu inizialmente considerato però come un puro elemento semeiologico, similmente a quello della temperatura corporea, tanto che Pierre Potain, nella sua monografia del 1902 sulla pressione arteriosa distingueva malattie a pressione molto bassa, bassa, media ed elevata. In tal modo il valore della pressione arteriosa veniva utilizzato come un attributo di malattie diverse, un dato che poteva essere utile per differenziarle l’una dall’altra, che era, cioè, un puro elemento semeiologico. Un modo di concepire il comportamento della pressione arteriosa molto lontano da quello odierno e che assomiglia a quello con cui – ad esempio – valutiamo il numero dei leucociti in concomitanza con malattie diverse. Era dunque necessario che, così come per qualsiasi indicatore di una compromissione anatomica o funzionale, anche per i valori della pressione arteriosa si tenessero presenti da un lato gli aspetti che possono essere legati a condizioni concomitanti capaci di spiegarli (una polmonite per spiegare l’aumento dei leucociti o una glomerulonefrite cronica per spiegare l’ipertensione) e dall’altro quelli autonomi (una grave leucopenia come espressione di un’emopatia primitiva, o una IAE come espressione di un aumento persistente della pressione senza causa identificabile).
All’inizio era mancata per la pressione arteriosa la capacità di considerare che gli aumenti potessero essere un fenomeno isolato e solo dopo che Frank, nel 1911, ebbe proposto il termine essentielle Hypertonie il concetto cominciò a diffondersi e la condizione patologica ad essere riconosciuta, fino a diventare una delle diagnosi più frequenti nel panorama della medicina d’oggi.
Si presentava però, a questo punto, un altro problema: era possibile concepire una malattia costituita da un unico segno? O, detto in altro modo, è accettabile che un unico segno costituisca una malattia? La risposta può essere contenuta soltanto in una definizione accettata e condivisa di ciò che debba intendersi per “malattia”. Scriveva Enrico Poli or sono quarantacinque anni: «Inizialmente ogni malattia era concepita come una “combinazione costante di sintomi” e cioè come una “sindrome”»[7]. È qui evidente che la malattia costituisce qualcosa di diverso e di meglio precisato rispetto alla sindrome, ma che comunque consta di una combinazione di sintomi. Poi, proseguendo nella sua analisi Poli identificava nei due parametri fondamentali indicati da Morgagni – la sede e la causa – gli elementi la cui conoscenza consente il passaggio dalla sindrome alla malattia. Sulla stessa lunghezza d’onda si pone Mirko Grmek:
Il contributo di gran lunga più importante del Settecento alla concettualizzazione della malattia proviene dalla patologia anatomica. L’articolo Maladie dell’ Encyclopédie comincia con una definizione che non è né ontologica in senso classico né morale e neppure clinica:
“La malattia è una disposizione viziosa, un impedimento del corpo o di qualche suo organo che causa una lesione più o meno sensibile nell’esercizio di una o più funzioni della vita sana o che fa persino cessare del tutto alcune di esse”.
Le parole chiave di questa definizione (“disposizione viziosa”, “organi”, “lesioni”) rinviano alla concezione anatomica della malattia così com’è elaborata nell’opera monumentale di Giovanni Battista Morgagni, pubblicata a Venezia nel 1761[8].
Anche qui, dunque, l’ispiratore è Morgagni. Manca però qualsiasi esplicito riferimento alle espressioni cliniche.
Ma, in quale misura queste definizioni, o questi criteri identificativi, si attagliano ad una condizione come l’IAE, specialmente nelle sue fasi iniziali in cui è assente qualsiasi compromissione d’organo documentabile? Il fatto che l’espressione clinica, sia limitata al rilievo di un valore di pressione arteriosa superiore a quello considerato come proprio della normalità e l’assenza di elementi riferibili all’esistenza di lesioni anatomiche costituiscono senza dubbio due elementi che pongono l’IAE al di fuori del perimetro delle definizioni sopra riportate. Un discorso differente riguarda, invece, gli aspetti patogenetici che sono in buona misura noti, anche se difficilmente identificabili nel singolo malato e la cui individuazione non è comunque richiesta per porre la diagnosi.
Proprio gli aspetti or ora ricordati hanno portato a considerare l’IAE non una malattia ma un fattore di rischio cardio-vascolare. Si introduce però in tal modo un elemento di confusione, poiché l’espressione “fattore di rischio” rinvia all’epidemiologia e non alla clinica. Inoltre, poiché l’ipertensione va curata si tratterebbe pur sempre di qualcosa che, esigendo una terapia è assimilabile a una malattia. E, in effetti l’IAE può considerarsi una malattia, di cui molti eventi cardio-vascolari costituiscono una complicanza.
Se, tentando un approccio diverso, andiamo alla ricerca di altre condizioni morbose accettate dalla nosografia contemporanea che si esprimano con un unico dato semiologico, viene subito alla mente il diabete mellito in cui una glicemia di mg 126/dL è ritenuta sufficiente, se confermata, a porre la diagnosi. Considerazioni analoghe possono valere per l’ipercolesterolemia o per l’iperbilirubinemia della malattia di Gilbert, e si potrebbe continuare. Si affaccia allora l’idea che sia in realtà la medicina tecnologica della nostra epoca ad aver creato malattie monosintomatiche. Se infatti non disponessimo ancora di apparecchi per misurare la pressione potremmo sospettarne l’aumento in base ai caratteri del polso o all’accentuazione del secondo tono aortico soltanto in fasi avanzate della malattia, nelle quali troveremmo spesso anche la compromissione di uno o più organi, come il cuore, il circolo retinico, i reni ecc. L’aver anticipato il tempo della diagnosi grazie agli strumenti d’indagine di cui disponiamo ci ha condotto all’individuazione di affezioni monosintomatiche. E allora possiamo tentare di dare una definizione di malattia quale la seguente: una condizione caratterizzata da un insieme sufficientemente tipico di sintomi e/o segni, o anche da un unico segno caratteristico, riferibili ad una sede, ad un tipo di lesioni, ad una precisa causa o a uno o più meccanismi patogenetici, dimostrati o probabili, che può determinare, prima o poi, una ridotta efficienza dell’organismo.
Ulteriori difficoltà sorsero quando si cercò di accordarsi su quali fossero i valori normali della pressione arteriosa, passo necessario per poter stabilire dove cominciasse l’ipertensione. A partire dal 1902, con la monografia di Potain, fino al 1949 con le indicazioni della WHO, le cifre del confine superiore della normalità sostenute dai diversi autori risultarono comprese tra 120 e 170 per la sistolica e 90-110 per la diastolica: oscillazioni troppo ampie per poter costituire un’utile guida nella pratica. Con gli anni ‘50 si affermarono i grandi studi di popolazione che portarono a due conseguenze fondamentali e strettamente intrecciate tra loro. Anzitutto si vide che i valori della pressione arteriosa avevano una distribuzione continua nella popolazione che rendeva arbitraria qualsiasi separazione tra normotesi e ipertesi. In secondo luogo si dimostrò che con valori maggiori di pressione arteriosa, anche se compresi nell’ambito di quelli ritenuti normali, cresceva il numero dei soggetti che andavano incontro a malattie cardiovascolari (ictus, infarto del miocardio, nefroangiosclerosi ecc). Nacque così il concetto dell’ipertensione arteriosa come fattore di rischio – cui si è già accennato – e si stabilì che il limite per parlare di ipertensione arteriosa era il valore di 140/90, scelto sulla base dell’ambito entro cui il rischio cardiovascolare era “accettabile”.
Proprio la constatazione della distribuzione continua dei valori di pressione arteriosa nella popolazione portò George Pickering a sostenere che fosse necessario «allargare il concetto di malattia fino ad includere una categoria in cui la deviazione dalla norma è quantitativa e non qualitativa» e che «l’ipertensione essenziale appartiene a questa seconda e finora non riconosciuta suddivisione»[9]. Tuttavia, che le malattie – tutte le malattie – siano da concepire come semplice deviazione quantitativa dalla norma è stato ampiamente sostenuto prima di Pickering, sulla base del cosiddetto «principio di Broussais» (1816), secondo cui vi sarebbe identità del principio vitale nei processi fisiologici e in quelli patologici. «Adottando il “principio di Broussais” (anche se non lo chiama così) Bernard riteneva che i processi fisiologici e i fenomeni patologici non si distinguono fra loro qualitativamente ma solo quantitativamente»[10]. Un’ impostazione, questa di Claude Bernard, condivisa – sulla diversa base della patologia cellulare, anziché della fisiologia – da Rudolph Virchow, secondo cui «non vi è differenza di natura fra salute e malattia tra fisiologa e patologia»[11].
Dunque, non è per nulla qualcosa di nuovo e neppure di esclusivo che l’IAE debba essere concepita come malattia quantitativa. E va anche considerato che questa impostazione quantitativa, affermatasi già nella seconda metà dell’Ottocento, non è senza conseguenze sul modo di considerare le malattie e di studiarle e neppure lo è – in particolare – nei riguardi dell’ipertensione arteriosa essenziale.
Malattia quantitativa significa, infatti, necessità di introdurre le elaborazioni statistiche in medicina[12], continuità tra normale e patologico e, come ulteriore conseguenza, necessità di passare da una medicina di certezze assertive a una medicina fatta di probabilità. Dalla luce accecante di certezze ormai rifiutate, siamo passati, per dirla con Paolo Vineis, al «crepuscolo delle probabilità» che reclama l’adozione della logica fuzzy, in grado di mutare un confine rigido tra “normale” e “patologico” in un confine indistinto (fuzzy). Un confine che non assegna più ad un singolo individuo una malattia, ma soltanto “un po’ di malattia”[13]. E così, nel caso dell’ipertensione arteriosa abbiamo la “pressione ottimale”, la pressione “normale”, la pressione “normale-alta e poi i diversi gradi (o stadi) di ipertensione.
Ma un altro problema insidia il concetto di IAE: la sua “essenzialità”. Si tratta di un problema che, nella storia della medicina, è stato già affrontato nei riguardi della febbre, una condizione che presenta – sotto certi profili – indubbie analogie con la pressione arteriosa, ma anche un’importante differenza. Per la febbre – al contrario che per l’ipertensione arteriosa – la separazione tra normale e patologico è facile in quanto si passa da valori strettamente vicini a 37C° (sia poco al di sopra che poco al di sotto) a valori nettamente più elevati a partire da 38 fino a 40 C° ed anche più, in modo tale che vengono a delinearsi due gruppi chiaramente distinti, quelli degli apiretici e quello dei febbrili. A togliere alle febbri il loro carattere di «essenzialità» doveva essere tra, il 1816 e il 1824, Broussais, il quale – secondo la splendida ricostruzione di Foucault – aveva compreso che:
Occorre dunque togliere alla febbre il suo statuto di stato generale e, a vantaggio dei processi fisiopatologici che ne specificano le manifestazioni, «disessenzializzarla».
Questa dissoluzione dell’ontologia febbrile, con tutti gli errori che aveva comportato (in un’epoca in cui la differenza tra meningite e tifo cominciava ad essere percepita chiaramente), è l’elemento più conosciuto dell’analisi. […] occorre «attingere nella fisiologia i tratti caratteristici delle malattie e dipanare con un’analisi sapiente i gridi spesso confusi degli organi sofferenti»[14].
Ma per quanto noi si abbia teso l’orecchio e aguzzato l’ingegno, questi gridi degli organi sofferenti non siamo riusciti a coglierli nell’IAE, se non quando sia stata essa a provocare i danni d’organo: insomma, nessuna compromissione d’organo evidenziabile come possibile causa, ma più d’una possibile come conseguenza.
Dunque, l’IAE resta come la casella nosografia di una malattia della quale sappiamo molto ma non ancora abbastanza perché questo suo appellativo – «essenziale» – possa essere sostituito da qualcosa di più concreto. Eppure molti tentativi in questo senso sono stati compiuti. Cominciò Volhard (1923) con i termini di “ipertensione rossa” (l’ipertensione essenziale) da distinguersi rispetto alla “ipertensione pallida” (propria delle nefropatie); proseguì Laragh (1972) con gli ipertesi a renina alta, normale e bassa; per finire con Korner (2007) che distingue un’ipertensione da stress psico-sociale ed eccesso di sodio, rispetto alla obesità ipertensiva[15]. Tutti questi tentativi, insieme a vari altri che sono stati proposti sono più una testimonianza della nostra insoddisfazione che non una reale soluzione del problema, ma indicano la strada della patogenesi come quella che ci può meglio condurre ad una tipizzazione soddisfacente dei pazienti che oggi etichettiamo come ipertesi essenziali. Per giungere a questo traguardo sarebbe però necessario disporre di esami di laboratorio capaci di distinguere in modo affidabile e non troppo complesso i diversi meccanismi (in buona parte noti) che sono in gioco in quel singolo paziente.
Se, sulla strada della patogenesi, si giungerà a distinguere diversi quadri morbosi nell’ambito dell’IAE, risalterà con ancora maggiore chiarezza il fatto che un’ entità nosografia si costruisce intorno a diversi elementi (anatomici, fisiologici, anatomo-patologici, isto-patologici, microbiologici, biochimici immunologici, genetici ecc.) e che questa costruzione muta di volta in volta l’aspetto e i confini della malattia, strutturandola secondo gli elementi e i paradigmi propri di un dato tempo.
Chi verrà dopo di noi darà a questa malattia, l’IAE, un nome e un’ interpretazione differenti e come sempre sorriderà – speriamo benevolmente – di molte delle nostre affermazioni.
bibliografia
[*] Prolusione all’Anno Accademico 2010-2011 dell’Accademia Lancisiana, tenuta il 9 novembre 2010 "
[†] Libero Docente Sapienza, Università di Roma
Per la corrispondenza, v.cagli@alice.it
[‡] Per alcuni aspetti qui non considerato o soltanto sfiorati si rimanda a Cagli V Le cime e le valli: percorsi della medicina, Armando Editore, Roma 2010, capp. I.1 e I.2.
[1]Grmek MD, Il concetto di malattia. In idem (a cura di) Storia del pensiero medico occidentale. 1. Antichità e medioevo. Editori Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 323-47, in particolare 326-9.
[2] Cfr. Fantini B La microbiologia medica. In Grmek (a cura di) Storia del pensiero medico occidentale. 3 Dall’età romantica alla medicina moderna. Editori Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 171-219, in particolare p.174.
[3] Reale G, Antiseri D La grande controversia sugli universali. In idem Storia della filosofia. Vol. 3 Bompiani, Milano 2008, pp. 364—73.
[4] Grmek MD Il concetto di malattia. In idem (a cura di) Storia del pensiero medico Occidentale. 2. Dal Rinascimento all’inizio dell’Ottocento. Editori Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 261-89, in particolare p.279.
[5] Fleck L Genesi e sviluppo di un fatto scientifico: per una teoria dello stile e del collettivo di pensiero. Tr. it. il Mulino, Bologna 1983, p. 78.
[6] Cagli V Alla scoperta dell’ipertensione arteriosa: una storia lunga alcuni secoli. CIC Edizioni internazionali, Roma 2010.
[7] Poli E Metodologia medica: principi di logica e pratica clinica. Rizzoli, Milamo 1965, p. 101 e seg.
[8] Grmek MD, 1996, cit., p.286.
[9] Pickering G The nature of essential hypertension. (1961). Commemorative reprint Churchill Livingstone Edinburgh 1981, p.127.
[10] Holmes FL Fisiologia e medicina sperimentale. In Grmek MD (a cura di) Storia del pensiero medico occidentale. 3 1998, cit., pp. 79-142, in particolare p. 111.
[11] Gremk MD Il concetto di malattia. In idem, Storia del pensiero medico occidentale. 3. 1998, cit., pp. 221-253, in particolare p. 232.
[12] Federspil G Il sapere medico e l’agire clinico. In Bompiani A (a cura di) Formare un buon medico. Franco Angeli, Milano 2006, pp. 122-154, in particolare p.141.
[13] Vineis P. Nel crepuscolo delle probabilità: la medicina tra scienza ed etica. Einaudi, Torino 1999, in particolare pp. 59-60.
[14] Foucault M Nascita della clinica: il ruolo della medicina nella costituzione delle scienze umane. Tr it. Einaudi, Torino 1969, pp. 198.225, in particolare p. 217.
[15] Korner P Essential hypertension and its causes: neural and non neural mechanisms. Oxford University Press, New York 2007, cap. 17.