PROBLEMI ETICI DELL’ASSISTENZA AL NEONATO AD ALTO RISCHIO
Rodolfo Bracci
già professore ordinario di Pediatria nell’Università di Siena
Riassunto
La patologia perinatale e neonatale ha da sempre costituito un rischio di morte o di condizioni invalidanti. I successi ottenuti da ostetrici e pediatri hanno ridotto drasticamente questi rischi, ma non hanno garantito una sicurezza assoluta all’evento nascita. Contemporaneamente alla continua ricerca di misure assistenziali atte a limitare l’insuccesso, si è cercato di stabilire indirizzi di comportamento diretti ad evitare che un inutile accanimento terapeutico possa salvare un neonato al costo di gravi conseguenze sulla di lui qualità della vita. Considerazioni a carattere specialistico assistenziale devono quindi tener conto anche di quelle a carattere bioetico.
Esprimo la mia più viva gratitudine al Presidente dell’Accademia Lancisiana per questo invito che veramente mi onora. Ringrazio anche l’amico Angelo Acconcia che ha suggerito questo incontro dimostrandomi così una fiducia che spero di meritare.
L’argomento oggetto della odierna seduta credo possa interessare non solo dal punto di vista più tradizionale, la conoscenza dei progressi della medicina, ma soprattutto da quel punto di vista oggi molto attuale, che riguarda l’accettazione del progresso scientifico e ed il difficile rapporto tra scienza e cultura letterario-umanistica. Di fronte ai complessi problemi della fisiopatologia feto-neonatale accade spesso che il non addetto ai lavori tenti di appropriarsi superficialmente delle conoscenze scientifiche per sostenere le proprie ideologie ed a sua volta l’ostetrico ed il neonatologo, abbagliati dal fascino della conoscenza, trascurino implicazioni di carattere etico.
Gli sforzi per il recupero di neonati ad alto rischio possono essere identificati talvolta come accanimento terapeutico ed essere quindi condannabili. Ma il neonatologo, come credo anche altre categorie di medici, si trova più spesso di quanto non si creda davanti all’interrogativo se complesse ed aggressive misure terapeutiche siano accanimento o non siano invece un lecito tentativo diretto ad evitare tanto la morte quanto le disabilità future. Questo interrogativo ha una drammatica evoluzione allorché l’andamento della malattia si rivela senza speranza di miglioramento allorquando le prime cure, apparentemente necessarie, si rivelano responsabili di avere salvato una vita al costo di estese menomazioni. Ed allora si pongono scelte tra le quali anche l’eutanasia.
Nella mia relazione iniziale cercherò di chiarire i termini fondamentali alla base dei problemi etici.
Inizierò da alcune considerazioni sull’ evoluzione della mortalità infantile. Un interessante documento dell’Accademia dei Fisiocritici di Siena (1) riporta gli indici di mortalità nei primi 7 anni di vita dei bambini nati in Siena centro ed in Siena periferia nonché di quelli esposti negli ospedali di Santa Maira della Scala di Siena e degli Innocenti di Firenze. Le percentuali di mortalità nel primo anno di vita erano rispettivamente 29, 33, 54 e 48. Già nel secondo anno di vita scendevano a 10, 6, 12 e 14 per poi attestarsi sotto il 5 negli anni successivi. Questi dati dimostrano come fin dalle epoche precedenti lo sviluppo della medicina, l’età più vulnerabile fosse circoscritta alle prime epoche della vita. Seguendo l’evoluzione della curva di mortalità nel nostro paese durante il secolo scorso, si nota che a partire dagli anni ’70, - mortalità infantile discesa da circa il 16 % del 1910 a 1,8 % - la mortalità neonatale supera la mortalità post-neonatale raggiungendo nel 2000 circa tre quarti della motalità infantile totale (2). I dati indicano la difficoltà di dominare efficacemente le affezioni neonatali tra le quali in primo luogo la prematurità. Infatti, i nati di peso inferiore a 1500 grammi sono meno del 2 % dei nati vivi, ma contribuiscono per più del 50 % alla mortalità neonatale. (3). Peraltro, ostetrici e pediatri hanno ottenuto in questi ultimi decenni risultati di grande rilievo. La sopravvivenza dei neonati di peso inferiore a 1000 grammi, negli anni ’60 inferiore al 3-5 %, è attualmente superiore al 60% e quella dei neonati di peso tra 1001 e 1500 grammi è passata da meno del 50% a più del 90-95 %. (4). Le cause del successo sono da attribuire alla istituzione dei centri di terapia intensiva neonatale dove è possibile assistere i neonati ad alto rischio con una sostituzione artificiale di quelle funzioni non ancora mature e con attivazione di quelle in via di maturazione. Un limite a queste tecniche assistenziali è rappresentato dall’età gestazionale che non consente il recupero di più del 20-30% dei nati al di sotto delle 24 settimane (4), Le difficoltà inerenti alla corretta terapia intensiva neonatale si riflettono nelle differenze di risultati tra un centro e l’altro. E’ stato riportato che le variabili che incidono significativamente sulle possibilità di sopravvivenza sono rappresentate, oltre che dall’età gestazionale, dalle condizioni cliniche del neonato alla nascita e dal livello di qualità delle cure offerte dall’ospedale (5-7).
Ai successi ottenuti nella riduzione della mortalità neonatale non ha corrisposto un altrettanto brillante successo nella riduzione della morbilità. La frequenza della paralisi cerebrale, una delle più gravi patologie ad origine perinatale o neonatale, non è diminuita nell’ ultimo mezzo secolo (8) ed il fatto è facilmente spiegabile considerando che alcuni neonati particolarmente a rischio, una volta destinati a sicura morte, sopravvivono con esiti di lesioni sofferte prima della nascita o nei giorni immediatamente successivi. Il miglioramento degli indici di sopravvivenza dei piccoli pretermine, non associato a diminuzione di esiti a distanza, ha indotto alcuni a ridimensionare un successo apparentemente pagato al prezzo di un aumento di disabilità. Una tale conclusione non è accettabile non solo perché gravi affezioni come la paralisi cerebrale se pur non diminuite non sono aumentate a fronte del forte aumento di sopravvivenza, ma anche perché calcoli effettuati sul rapporto tra frequenza di disabilità maggiori in nati al di sotto delle 26 settimane di età gestazionale e quella di nati a termine dimostrano una netta prevalenza della morbilità in questi ultimi (9). Questo dato riflette il numero molto limitato dei nati sotto le 26 settimane e le purtroppo non eccezionali sofferenze perinatali in nati perfettamente a termine. Come accennato a proposito degli indici di mortalità, anche per quanto riguarda l’incidenza di gravi disabilità le statistiche redatte da vari centri dimostrano notevoli differenze tra loro (5). Il livello di cure offerte sembra influire sulla morbilità come sulla mortalità. Un’indagine condotta su 8 centri di assistenza neonatale ha infatti dimostrato che nel nato pretermine la frequenza di emorragie intraventricolari, patologia all’origine di disabillità, variava da meno del 2% ad oltre l’11 %. (10) Anche il fabbisogno di interventi particolarmente aggressivi sembra influire sul futuro dei neonati a rischio. Secondo Walsh e coll. (11), il numero dei giorni nei quali il neonato è tenuto in respirazione assistita correla con la frequenza di paralisi cerebrale e di disabilità minori. La frequenza varia da circa il 10 % nei neonati tenuti in respirazione assistita per meno di 24 ore a 95 % in quelli in respirazione assistita per oltre 120 giorni.
Le differenze tra i dati riportati dalle varie statistiche si spiegano con l’estrema difficoltà di assicurare un’assistenza ottimale in grado di proteggere da eventi lesivi l’encefalo in piena evoluzione nel neonato a termine e soprattutto pretermine. Solo un breve accenno alla vulnerabilità encefalica può essere sufficiente a chiarire questo punto Il cervello di un neonato di bassa età gestazionale, oltre ad essere particolarmente sensibile all’ipossia, è predisposto all’ischemia a causa della ridotta finestra di autoregolazione della circolazione cerebrale; è altresì predisposto al danno da specie tossiche dell’ossigeno sia per effetto di insufficiente maturazione dei sistemi di protezione sia per più elevata loro produzione, in particolare durante l’ipossia.(12,13). L’importanza del danno da radicali liberi è dimostrata dai reperti di alte concentrazioni ematiche di ferro non legato alle proteine – marker di stress ossidativo - in neonati affetti da gravi lesioni cerebrali (14). Inoltre, la funzione gliale, essenziale durante l’intensa formazione di sostanza bianca propria del periodo di sviluppo cerebrale, può essere alterata dalla cosiddetta “astrocyte deregulation” indotta da tossine batteriche o comunque da “remote infection” (15). Sensibilità allo stress ossidativi e problemi di immaturità del sistema immunitario sono anche responsabili di disfunzione endoteliale con conseguenti alterazioni della coagulazione (15).
La vulnerabilità encefalica feto-neonatale implica che anche nel caso di non gravi disabilità, il neonato possa andare incontro a difetti minori quali deficit di apprendimento, riduzione di quoziente intellettivo, problemi di inserimento nell’ambiente (16). Questi difetti sono tanto più frequenti quanto più bassa è l’età gestazionale alla nascita. Alcune statistiche condotte su bambinni nati di peso estremamente basso dimostrano dati interessanti. Ad esempio Saigal e coll. (17) riportano che in nati di peso estremamente basso i valori entro i limiti della norma erano 44-62 % per I.Q., 46-81 per la lettura, 31- 76 per l’aritmetica, 39-65 per la grammatica. Peraltro, in un’indagne sull’autovalutazione di adolescenti nati di peso estremamente basso, la maggioranza rispondeva di essere soddisfatta della propria condizione e di non accorgersi di differenze con i compagni (18).
Sebbene la maggioranza delle statistiche riporti una situazione stabile raggiunta dopo i primi anni ’90 nei confronti delle disabilità maggiori e minori (19,20), indagini effettuate da centri particolarmente efficienti dimostrano che ad un costante miglioramento degli indici di sopravvivenza corrisponde anche un miglioramento degli indici concernenti la qualità della vita (21). Inoltre sembra accertato che un corretto impegno assistenziale, anche particolarmente invasivo, possa consentire successi sia in sopravvivenza che in prevenzione di lesioni invalidanti. Il confronto tra i risultati ottenuti nel Nord della Svezia ove prevale la preferenza verso lo sforzo assistenziale rivolto indistintamente verso tutti i neonati ed il Sud dello stesso paese, dove prevale la preferenza per l’assistenza selezionata sulla base della gravità del caso, conferma la difficoltà di ottenere un reale vantaggio dalla selezione dei neonati da sottoporre a terapia intensiva.. I risultati dimostrano infatti che nel Nord della Svezia ad una minore mortalità corrispondeva anche una migliore qualità della vita. (22)
In conclusione, le attuali possibilità di recupero di neonati ad altissimo rischio non garantiscono la certezza che il bambino salvato dalla morte abbia un’esistenza normale. Al fine di evitare o comunque di ridurre condizioni di insufficiente qualità della vita, alcuni propongono che, almeno nei casi di età gestazione particolarmente bassa o di disperate condizioni alla nascita, si eviti un’insistenza nelle cure che si configurerebbe come inutile accanimento terapeutico. Altri peraltro, pur non negando l’interruzione dei procedimenti più invasivi nei casi disperati, suggeriscono di fare molta attenzione prima di classificare come accanimento terapeutico misure che possono salvare il bambino e garantire una accettabile qualità di vita. Altri infine ammettono che allorquando le misure terapeutiche ottimali si rivelino inutili ad assicurare una sufficiente qualità della vita ed un’interruzione dell’eventuale accanimento terapeutico non sia più in grado di essere seguito da morte, l’esistenza del piccolo sia interrotta con accorgimenti diretti ad arrestare il battito cardiaco. Queste decisioni difficili che implicano considerazioni a carattere bioetico saranno discusse dai relatori Orzatesi e Barni.
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