Mario Giampà e Luca Perrone
Body Art
Uso e abuso del corpo
Arte: attività umana basata sull’abilità individuale, sullo studio, sull’esperienza e su un complesso specifico di regole che per mezzo di forme, colori, parole, suoni, ecc., crea prodotti culturali a cui si riconosce un valore estetico: l’arte della pittura, della poesia, della musica.
Dizionario della lingua italiana De Mauro
…non esiste in realtà una cosa chiamata arte. Esistono solo gli artisti: uomini che un tempo con terra colorata tracciavano alla meglio le forme del bisonte sulla parete di una caverna e oggi comprano i colori e disegnano gli affissi pubblicitari per le stazioni della metropolitana, e nel corso dei secoli fecero parecchie altre cose.
Ernst H. Gombrich, 1999
…il fare artistico può avere una polarità: quella del rappresentare o quella del fare. Nel primo caso l’artista ricostruisce dimensioni di realtà o di sogno, rappresenta il mondo naturale o dà figura all’immaginazione. Nel secondo entra direttamente nell’opera con il suo corpo e lo riproduce con il calco, con l’ombra, con la sagoma, con la traccia. E’ questo secondo aspetto che viene indagato attraverso il lavoro di artisti dagli anni cinquanta a oggi: un percorso che ritrovi la mano, il fare più diretto dell’artista, che rinuncia alla formalizzazione stilistica della rappresentazione.
Adalgisa Lugli, 1995
La libertà per essere e per fare, e l’interminabile compito di decostruire e ricostruire il corpo e il mondo che vediamo nell’arte, mostrano il gioco delle pulsioni erotiche e della morte attraverso i cui interstizi cammina la follia che ripete ciò che è scisso e che a volte riapre alla novità, a ciò che mai è stata una esperienza
M. C. Melgar et Al. 2000
… il corpo è stato vissuto, in conformità alla logica e alla struttura dei vari saperi, come organismo da sanare, come forza – lavoro da impiegare, come carne da redimere, come inconscio da liberare, come supporto di segni da trasmettere.” (11)
Umberto Galimberti, 2005
Il nucleo primario del Sé si struttura a partire da sensazioni di piacere e dispiacere che originano dal corpo; paradisi artificiali indotti da droghe o orgasmi coatti, pratiche sadomaso o piercing e tatuaggi, violente manipolazioni del corpo in cui possiamo includere anche i disturbi dell’alimentazione, sembrano rappresentare per molti, nella società contemporanea, un tentativo di rabbiosa conferma della propria esistenza, un disperato ancoraggio del Sé.
Maria Grazia Vassallo Torrigiani, Silvana Vassallo, 2001
Si definisce Body Art “un movimento e fenomeno artistico degli anni 1960 – 1970 in cui il corpo dell’artista diventa esso stesso strumento espressivo grazie a gesti e azioni dimostrative da questo compiute” (Il Nuovo Zingarelli, 1988). Nella Body-art e in tutte le performance il sesso, la malattia, i desideri, le oppressioni, il dolore, la nevrosi, agiscono sui corpi lasciandovi i suoi segni: marchi, supplizi, costrizioni, discipline, cure, diete, regole, divieti e trasgressioni, strutturandoli in quello che lo stesso Foucault definisce il “carnaio di segni” (Francesca Alfano Miglietti, pag, 15)
La Body-art non nasce dal niente, si può pensare ad una sua discendenza dal Futurismo di Tommaso Marinetti, che pubblicò il 20 febbraio del 1909, sul Le Figaro, il suo manifesto che attaccava tutte i valori stabiliti dalle Accademie di pittura e letteratura. Per la Performance Art la sua data di nascita è l’11 dicembre 1898, quando il poeta Alfred Jarry presentò nel Théatre de l’Oeuvre de Lugné-Poe, Ubu Roi (Goldberg RoseLee, 1979).
Ma le tematiche della Body Art, come pensiero creativo, si possono intravedere, tra l’altro, nell’esperienza di Kandinskij, Klee e Mondrian che si proponevano di lacerare il velo, frapposto dall’apparenza sensibile, per giungere a una più alta verità, come pure tra i pittori surrealisti che aspiravano alla <sacra follia> (Gombrich, 1999)
La stessa psicologia e la psicoanalisi hanno influenzato i surrealisti ed hanno fatto sorgere interessi che hanno indubbiamente portato sia gli artisti che il loro pubblico a esplorare zone della psiche umana considerate in precedenza con ripugnanza o come tabù (Gombrich, 1999).
E’ per tutti evidente che l’immagine domina la comunicazione nella nostra epoca, la Body Art nasce, come sottolinea W. J. T. Mitchell (citato da Maria Giuseppina Di Monte) in una cultura che ha visto tutto, dalla presenza della fotografia, dei film, della televisione e dei computers forniti di grafici, giochi, word-processing, banca dati, calcolo, non v’è dubbio che la polarità “pittura versus poesia” appaia sorpassata e che si preferiscano termini più neutrali come “testo versus immagine” (1986, pag. 50).
Per la storica dell’arte Lea Vergine (2000), nella Body Art, ci sono dei caratteri che fanno da comune denominatore a questa maniera di far arte, come: la perdita d’identità, il rifiuto del prevalere del senso della realtà sulla sfera emozionale. L’intento di questi artisti è sbloccare le forze produttive dell’inconscio, ci troviamo di fronte a manifestazione di voyeurismo ed esibizionismo, tra tendenze sadiche e piacere masochistico, tra fantasie distruttive e catartiche.
La Body Art per T. Macrì (1996) si caratterizza quale proprietà analitica del corpo assunto come mezzo di espressione artistica: l’azione sottolinea le funzioni di esso e delle sue parti, servendosi di mezzi di riproduzione meccanica nell’intervento duplice di documentazione e di indagine penetrante (citato da Marco Refe, 2000).
E’ in questo contesto che il corpo comincia ad essere considerato secondo modalità che ne rifiutano la tradizionale funzionalità: Il corpo oltraggiato dalle lamette di G. Pane, quello legato, graffiato e contratto di A. Rainer, per giungere fino alla teatralizzazione del sangue di H. Nitsch (Refe, 2000)..
Per Refe, che definisce questi artisti <Narcisi post-umano>, queste pratiche quali la scarificazione, l’automutilazione, non sono altro che le ultime grida di un soggetto oramai incapace di dare senso alla propria esistenza.
Per Betti Marenko (2002), queste pratiche funzionano come agenti di comunicazione tra mondi, passaggio tra categorie e ridefinizione dell’individuo. Incontro tra sé collettivo e sé individuale.
Nella Body Art troviamo tracce del pensiero degli Espressionisti (Munch, 1905), dei Cubisti, artisti che scomponevano l’oggetto. Ma anche influssi della Pittura astratta, della Pittura metafisica, dei Dadaisti e del Surrealismo, che voleva “creare qualcosa che fosse più reale della stessa realtà” (Gombrich, 1999).
Il corpo, nella Body Art, deve diventare antiestetico, repellente e penoso e deve spaventare ed anche irritare; deve portare alle estreme conseguenze quella che era anche l’idea dei surrealisti che sostenevano che l’arte non è il prodotto della ragione pienamente desta. Per i Surrealisti ciò che è irrazionale è arte, per loro bisogna fare emergere la parte selvaggia, arcaica della personalità.
Per Angela Vettese, la Body Art è il genere di opere nate nel dopoguerra, spesso smaterializzate, estese nello spazio fino ad occupare ambienti interi, a volte programmaticamente destinate a deperire nel tempo (pag. 10) Inoltre il progressivo distaccarsi delle opere dal loro aspetto meramente visivo per concentrarsi sugli elementi mentali, ha fatto sì che i testi scritti si rendessero sempre più necessari come veicolo di introduzione e spiegazione.
In conclusione la Body Art e la Performance Art sono prodotti del periodo storico definito <postmoderno>, nato negli anni 1960, quando comparvero e si svilupparono una serie di nuove pratiche culturali in ambiti disciplinari specifici (architettura, arti figurative, letteratura, teatro, filosofia ecc.) e vi furono mutati assetti della società postindustriale. Il postmoderno marca l’esistenza di atteggiamenti o di modi d’essere (sociali, esistenziali e intellettuali) diversi o alternativi rispetto a quelli tipici della modernità. Il postmoderno rappresenta per Ihab Hassan il tempo dell’indeterminazione, della frammentazione, della decanonizzazione, della vacanza del Sé tradizionale, dell’impresentificabile, della performance che nell’arte trasgredisce i generi, si apre allo sconosciuto (G. Fornero, 2006). In quegli anni dalla Performance Art nasceva la Body Art. Per Performance Art si intende qualsiasi situazione che coinvolge quattro elementi base: tempo, spazio, il corpo dell'artista e la relazione tra artista e pubblico; in contrapposizione a pittura e scultura.
La Body Art e la Performance Art possono essere considerate semplici o complicate attività umane o possono essere considerate arte?
Se l’arte è sempre stata anche una forma di autocritica non verbale, se un’immagine si può commentare non solo attraverso un concetto, ma anche attraverso un’esperienza concreta (Massimo Carboni, 2006), allora gli artisti della Body Art e della Performance Art sono, metaforicamente al capolinea del <visibile (in)dicibile> nella Cultura dell’epoca attuale, dove le immagini godono di una situazione favorevole e sono diventate <un paradigma culturale>, i cui segnali sono stati recepiti da un pubblico sempre più vasto ed eterogeneo (Gottfried Boehm, 2006).
Osserviamo, e vi proponiamo, soltanto nell’ambito della conferenza per motivi di copyright, le fotografie della Body Art dal vertice dell’antropologia culturale, la disciplina che nell’ambito delle scienze sociali, studia “l’essere umano in società, la variabilità delle forme di vita umana dal punto di vista sociale e culturale per analizzare i comportamenti, i modi di pensare, le forme di organizzazione sociale.” (V. Siniscalchi, 2001).
Va detto che in ogni individuo esiste una dimensione non rappresentabile della sua psiche che lo spinge da una parte alla figurabilità e dall’altra verso l’ignoto; ogni artista si trova prima o dopo a dover fare una scelta di campo.
L’esperienza originaria è sempre presente nell’atto di comunicare, pertanto ci troviamo a combinare, tra tutti gli infiniti possibili, alcuni elementi invece che altri, in una forma anziché in un’altra.
Ciò che accade nella mente dell’artista e ciò che viene recepito dagli osservatori viene descritto in questo modo dallo psicoanalista W. R. Bion (1965) nel suo saggio <Trasformazioni>
Supponiamo che un pittore veda un sentiero in un campo di papaveri e lo dipinga: ad una estremità della catena di eventi è il campo di papaveri, all’altra una tela con del colore distribuito sulla sua superficie. Qualora riconoscessimo che quest’ultima rappresenta il primo, dovremmo supporre che, malgrado la trasformazione che l’artista ha effettuato in ciò che ha visto, per fargli assumere la forma di un quadro, qualcosa è rimasto inalterato e che il riconoscimento, dipende da questo qualcosa. Chiamerò <invarianti> gli elementi che costituiscono ciò che nella trasformazione resta inalterato. L’artista non è il solo osservatore del quadro che ha dipinto; e tutti gli altri osservatori non potrebbero riconoscere quello che il quadro rappresenta, se si affidassero esclusivamente al proprio fiuto; ma, quanto più grande sarà la loro esperienza in campo artistico, tanto maggiori probabilità avranno d’interpretare correttamente il quadro.
Nel saggio <L’Io e L’Es> (1922), Freud scriveva che “Il pensare per immagini è dunque un modo assai incompleto di divenire cosciente. Un tale pensare è inoltre in certo modo più vicino ai processi inconsci di quanto lo sia il pensiero in parole, ed è indubbiamente più antico di questo sia ontogeneticamente che filogeneticamente”.
Quindi il pensiero per immagini, legato all’esperienza sensoriale, è più arcaico di qualunque altro linguaggio (Fiorella Del Pidio, 2006).
E’ necessario a questo punto fare una breve premessa su cosa sia la creatività.
Il sociologo Marshall McLuhan ritiene che l’artista è un uomo che, in ogni campo, scientifico o umanistico, coglie le implicazioni delle sue azioni e il nuovo sapere della sua epoca. E’ l’uomo della consapevolezza totale (citato da Riccardo Trani, 2000).
Claudio Castelo Filho (2004), psicoanalista e pittore, è convinto che la grandezza e la perennità di una opera saranno in relazione alla quantità di verità che lo scrittore o l’artista saranno capaci di cogliere e di trasmettere, di far condividere l’esperienza emozionale a chi guarda! Pertanto l’artista è l’autentico produttore degli oggetti che le civiltà lasciano come quinta essenza e testimonianza duratura dello spirito che li animò.
Una <quinta essenza e testimonianza duratura dello spirito> dell’oggi, e a nostro parere immagini fisse della Body Art e nate dopo di essa, sono le sculture iperrealiste dell’australiano Ron Mueck, appartenente alla new generation inglese, con il suo adolescente fuori misura, dimensione cinque metri, accovacciato sulle sue gambe, un poco autistico, chiuso in sé stesso e alieno a ogni contatto umano, ipervisibile alle Corderie della Biennale di Venezia del 2001.
Arianna Di Genova (2006) li descrive come manichini inquietanti in silicone e fibre sintetiche che simulano la pelle in tutte le sue asperità, comprese rughe, unghie e peli: sono il contraltare delle patinate immagini proposte dalla pubblicità. (…). Il ciclo che prende forma è quello di sempre: l’eterna esperienza della vita e della morte, il pianeta dell’organico che s’incontra con l’artificio degli uomini e le donne sintetiche
Fissare e centralizzare il particolare lo possiamo vedere in André Serrano, nelle sue fotografie, contigue alla Body art in quanto centrate su corpi morti, come in The Morgue (1992): la frammentazione delle immagini talvolta rende impossibile distinguere il sesso, indovinare l’età o il colore della pelle. L’artista non permette di conoscere l’identità del deceduto.
Diamo ad alcune immagini, presentate nel corso della conferenza, la parola degli autori di questi <fatti artistici>, come Gianni Pisani (Lea Vergine, pag. 209) che scrive:
Tutte le mattine prima di uscire …, 1973
Al mattino, dopo la doccia, mi riavvolgo il cordone ombelicale sull’addome (non è di plastica, è ricavato dall’intestino di una mucca, è quella specie di velo tubolare adoperato dai macellai per confezionare le salsicce; l’ho legato da una parte e l’ho poi gonfiato con un pompatore per biciclette). Mi sistemo questa matassa sotto la camicia; man mano che l’abbottono, occulto completamente l’inconveniente che posseggo. Agli altri lo nascondo con i miei vestiti borghesi che mi rendono non diverso da loro; lo comprimo sotto le mie apparenze quotidiane e vado tra la gente.
L’idea del cordone ombelicale è legata ai miei precedenti lavori, dalla rappresentazione del mio suicidio alle pistole, dagli stessi vecchi dipinti o più recenti disegni al dondolo o alla distruzione della mia bara.
Poi non so se si può parlare di idea. L’idea è un pensiero e queste cose non si pensano, si sentono. Forse la storia del cordone ombelicale è un ritorno verso la vita, è come un bisogno di attaccarsi a qualcosa, è la ricerca di un legame padre - madre-figlio … gli altri ci girano attorno ma questi sono i legami fondamentali …
Oppure Enrico Job che spiega la sua creazione e/o costruzione del Il Mappacorpo, 1974
Il Mappacorpo è composto da circa mille fotografie. La pelle è stata disegnata suddividendola in quadrati di 4,50 cm per il corpo e di 2,50 per la testa.
I quadrati sono stati fotografati e ingranditi del doppio e applicati su pannelli, ricomponendo il corpo come in un gigantesco gioco di pazienza.
Una pelle di uomo scuoiato: un animale ridotto a tappeto.
L’intenzione del Mappacorpo, come quella di qualsiasi mappa, è di costringere a un’unica dimensione ciò che è vivo, e quindi agisce contro la doppia dimensione spazio – tempo.
Ci troviamo di fronte a un disturbo di personalità o di fronte al <realismo psicotico> come definisce Perniola i comportamenti dell’artista e performer Orlan?
In Orlan “l’arte carnale è un lavoro di autoritratto in senso classico, realizzato tuttavia con i mezzi tecnologici propri del suo tempo. Oscilla tra defigurazione e rifigurazione. Si incide nella carne perché la nostra epoca comincia a darcene la possibilità” (Miscetti S. et Al., 1996). Orlan con gli interventi chirurgici sul suo corpo, con il far apporre protesi, modificare il suo viso, registrare in video i suddetti interventi chirurgici, con le foto, i suoi scritti raggiunge lo scopo di colmare la distanza tra <immagine interna e quella esterna>, tra essere e apparire, esaltare la possibilità di potenziare e modificare il proprio corpo e il proprio volto (Vassallo Torrigiani et Vassallo, 2001).
Di fronte a queste performance il rischio che corriamo è di rimanere chiusi nella nostra cultura, intesa come quel complesso di conoscenze intellettuali e di nozioni che contribuiscono alla formazione della nostra personalità, reiterando quelle pratiche e conoscenze collettive della società o del gruppo sociale al quale apparteniamo. Pertanto siamo portati a considerare folli questi artisti. E’ probabile che alcuni lo siano ma in generale, se abbiamo una “concezione evoluzionistica della mente” come ci propone Gombrich (Michele e Maria Giuseppina Di Monte, 2004) o accettiamo l’ipotesi degli psicoanalisti, che sostengono con Bion, che la nostra mente è in uno stato di continua trasformazione, che acquisisce sempre nuovi pensieri, dobbiamo accettare l’idea di continuità e di evoluzione dei fenomeni artistici. Come porci di fronte a queste immagini?
Dipende dalla nostra cultura individuale secondo Anna Detheridge bisogna essere pienamente “moderno” per comprendere appieno la parabola evolutiva e le molte luci ed ombre della modernità e del modernismo.
Questi artisti moderni si propongono e ci propongono quello che la filosofa Vittoria Franco (1996) ritiene un problema dell’oggi:
come garantire e rispettare la pluralità delle forme di vita, come ottemperare alla necessità di trovare punti di equilibrio con l’impossibilita’ di una loro fondazione ultima, di una giustificazione razionale e definitiva delle scelte del nostro agire e delle regole della condotta morale.
Bibliografia
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Betti Marenko, Segni indelebili – Materia e desiderio del corpo tatuato, Feltrinelli, Milano, 2002.
Boehm Gottfried, La questione delle immagini, in Immagine e scrittura, Meltemi editore, Roma 2006
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Castelo Filho Claudio, Processo Criativo: Transformação e Ruptura, Casa do Psicólogo, São Paulo, Brasil, 2004.
Del Pidio Fiorella, A partire dall’immagine, conferenza tenuta il 12/05/2006 presso la sede dell’ARPAD in Roma.
Detheridge Anna, Classicità del modernismo, <Il Sole-24 Ore>, 23/04/ 2006
Di Monte Maria Giuseppina a cura di, Immagine e scrittura, Meltemi editore, Roma 2006.
Di Monte Michele e Giuseppina, in L’arte e i linguaggi della percezione – L’eredità di Sir Ernst H. Gombrich, Electa, Milano, 2004
Fornero Giovanni, Postmoderno e filosofia, in Nicola Abbagnano Storia della Filosofia, vol. 9, Gruppo Editoriale l’Espresso, Roma 2006
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Galimberti Umberto, Il Corpo, Feltrinelli, Milano 2005
Goldberg RoseLee, Performance: Live Art 1909 to the Present, Thames and Hudson Ltd, Londres 1979.
Gombrich H. Ernst, La storia dell’arte, Leonardo Arte, Milano 1999.
Lugli Adalgisa, in Identità e alterità – figure del corpo 1895/1995, Marsilio, 1995
Melgar Marìa Cristina – Eugenio Lòpez de Somara – Roberto Doria Medina Eguìa, Arte e Locura, Editorial Lumen, Buenos Aires, 2000
S. Miscetti et Al., citato da Vassallo Torrigiani Maria Grazia in L’autoritratto nella carne, Rivista di Psicoanalisi, 2001, XLVII°, 4.
Moraes Eliane Robert, O corpo impossìvel, Editora Iluminuras Ktda, San Paolo, 2002
Perniola Mario, Magic Corporation, Agalma, n. 9, marzo 2005
Refe Marco, Slittamenti del corpo, in Homo Sapiens, anno III° numero 4 – febbraio 2000
Siniscalchi Valeria, Antropologia culturale. Carocci Editore, Roma 2001.
Vassallo Maria Grazia Torrigiani e Vassallo Silvana, L’autoritratto nella carne: il <realismo psicotico> di Orlan, Rivista di Psicoanalisi, 2001, XLVII°, 4.
Vergine Lea, Body art e storie simili – il corpo come linguaggio, Skira, Ginevra – Milano, 2000.
Vettese Angela, Capire l’arte contemporanea, Umberto Allemandi & C., Torino 1998.