Paola Binetti
Ogni volta che parliamo di stress ci riferiamo più alla ridotta capacità di interagire con correttamente con il contesto che alle diverse manifestazioni di disagio e di sofferenza che ci colpiscono a livello somatico e a livello psicologico. Ciò che caratterizza il vissuto dello stress è la sensazione globale che il soggetto prova, come se gli mancassero radici e non intravedesse punti di riferimento. La causa scatenante può essere rappresentata da una o più esperienze particolarmente negative: può trattarsi di relazioni particolarmente complesse, oppure di circostanze professionali che si configurano come eccessivamente pressanti o di contesti che appaiono ostili. La sensazione dominante è quella del disorientamento, che toglie smalto e spessore a tante realtà considerate fino a poco tempo prima come meritorie di attenzione e di impegno. Sembra che posto davanti ad un bilancio esistenziale il soggetto si scopra perdente: gli investimenti fatti non giustificano i risultati ottenuti e questo oltre a togliere entusiasmo depaupera ulteriormente le sue energie.
Lo stress sembra crearsi perché un insieme di fattori, interni e esterni, producono una disorganizzazione e una dis-regolazione sia del sistema psicobiologico che del sistema etico-valoriale di una persona. Colpisce di fatto nei soggetti stressati in fase acuta il totale sovvertimento delle diverse scale di riferimento, a livello affettivo e decisionale, ma anche a livello etico. Ciò che costantemente entra in discussione è la dimensione finalistica della sua esistenza. La domanda di senso che il soggetto si pone è sempre di questo tenore: valeva la pena o non valeva la pena aver fatto questo o quello. C’è un interrogativo di fondo che attraversa la sua condizione e che troppo spesso viene ricondotto alla caduta del tono dell’umore, che accompagna lo stress : ma io per che cosa e per chi vivo. Dietro questa domanda il soggetto in questa fase si chiede anche se nel suo dare e avere rispetto agli altri il suo credito sia maggiore del suo debito. Quasi sempre si considera in credito, e quindi deve fare i conti con una inevitabile sensazione di vittimismo, che lo appesantisce, lo deprime ulteriormente e ne riduce la capacità di reazione.
Cause e concause
Nella situazione di stress gli effetti che si producono sono sempre in funzione della intensità e della durata dei fattori stressogeni, ma soprattutto della capacità di farvi fronte da parte dell’individuo. Il grado di vulnerabilità personale è soggettivo ed è in funzione della storia personale di ognuno, della competenza maturata negli anni per fronteggiare le esperienze spiacevoli e della flessibilità con cui ci si sa adattare a sollecitazioni, che a volte appaiono come vere e proprie provocazioni. Ma in ogni caso la dimensione provocatoria è strettamente collegata alle aspettative del soggetto, la sua delusione davanti agli aventi o davanti ad alcuni rapporti interpersonale è in funzione dell’investimento emotivo che caratterizzava le sue ragioni di impegno. La domanda di fondo è perché… perché faccio questa cosa o l’altra, perché la faccio in questo modo o nell’altro, perché investo tante energie in una tensione adattativa ad un ambiente che risulta faticoso e stressante, cosa voglio ricavarne… Dove si colloca la mia ambizione in funzione della mia autorealizzazione e fino a che punto voglio spingermi per conquistare quella o quell’altra posizione.
La dimensione relazionale dello stress sta imponendosi con sempre maggiore forza all’attenzione di studiosi di diverse aree che convengono come sia spesso impossibile predire chi e quando una persona entrerà in fase di stress, ma nello stesso tempo come risulti chiaro e comprensibile il suo percorso, una volta che comincia a mostrare i suoi primi sintomi. La difficoltà di predizione, che è altra cosa rispetto alla possibilità di prevenzione, è strettamente legata a questa zona di chiaroscuri che in ogni soggetto caratterizza il suo livello di ambizioni e di aspettative, spesso inconfessate anche a se stesso.
Ci sono emozioni che scaturiscono da una prolungata esposizione a fattori stressanti per lo più di tipo doloroso, che possono raggiungere una soglia di intolleranza grave per l’individuo. La sensazione di non poter reagire si accompagna alla consapevolezza di sentirsi sopraffatti dagli eventi, per cui lo scenario che ne deriva è quello di uno spiccato disorientamento, con fantasie di fuga, perdita di autocontrollo e un tono dell’umore decisamente depresso.
Dipenderà dall’individuo elaborare questo stato d’animo così complesso per innescare un processo di tipo adattativo, che consenta una ridefinizione della propria identità, una riorganizzazione della rete dei rapporti sociali e una riprogettazione a livello professionale. Cose molto difficili da fare da soli, pressoché impossibili senza una adeguata educazione terapeutica. L’esperienza acquisita, se opportunamente rielaborata, deve riguardare non solo l’analisi dei fattori di stress e delle circostanze che lo hanno provocato, deve affrontare soprattutto l’analisi di sé e delle proprie attese. Allora la persona può emergere dalla condizione di stress con una chiave di considerazioni che gli consentiranno di prevenire ulteriori condizioni stressanti, che saranno gestite meglio se saranno opportunamente identificate da adeguati predittori.
Non bisogna stupirsi però se il passaggio attraverso una fase di stress prolungato, e non abbastanza rielaborato, lascia nel soggetto alcune ferite, una sorta di stigma, che genera conseguenze psicopatologiche croniche sia a livello dei disturbi dell’umore che a livello fisico. A volte ciò accade perché i fattori che hanno contribuito a creare la condizione di stress permangono, soprattutto quando si tratta di microtraumi relazionali, che inducono svalutazione sistematica, separazione, maltrattamenti, trascuratezza affettiva, carenza di sintonizzazione emotiva, ecc Il modo in cui avviene il passaggio da un vissuto affettivo ferito e mortificato ad una oggettiva sofferenza biologica è tuttora oggetto di studi e di interrogativi. Ma che questo passaggio ci sia è indubbio. Sono molti gli studi che hanno cercato di documentare in che modo una serie di emozioni negative aumentino il rischio di patologie cardio-vascolari. Probabilmente le emozioni agiscono sull’ipotalamo e su alcuni centri come il locus coeruleus e i nuclei vagali, e poi influiscono sul sistema neuro-endocrino-immunologico[1]. Altri studi hanno cercato di verificare se la depressione, presente nel 20% dei pazienti dopo infarto acuto del miocardio (IMA) e associata ad aumento del rischio di reIMA, sia da considerare piuttosto tra le cause o tra gli effetti[2], tenendo conto che rappresenta un fattore di rischio anche nei soggetti sani[3]. Tutti comunque concordano sul fatto che le emozioni negative creano nel soggetto una condizione di stress che provoca disturbi sul piano relazionale e nel ritmo sonno-veglia, rendendo i pazienti più irritabili e meno tolleranti davanti alle frustrazioni[4]. La maggioranza degli autori considera le emozioni negative un vero e proprio fattore di rischio biologico[5], sia come condizioni predisponesti all’insorgere di diverse forme di patologia, sia perché rallenterebbero la ripresa delle condizioni di salute e favorirebbero l’insorgere di nuovi episodi[6]. Sembra che l’effetto sia mediato da una risposta infiammatoria (aumento della proteina C-reattiva e delle citochine) e neuroendocrina (aumento della produzione di cortisolo). Viceversa le emozioni positive sarebbero associate a ridotta attività neuroendocrina, infiammatoria e cardiovascolare. Ciò avverrebbe perché il senso positivo della vita (well-being positive) da un lato si associa ad abitudini di vita più sane, dall’altro esprimerebbe una diversa capacità di affrontare le difficoltà e di risolverle, ove possibile, oppure di adattarsi con la dovuta flessibilità a situazioni e condizioni più accessibili[7].
Il contesto stressogeno in cui matura la crisi del soggetto può essere valutato solo tenendo conto di un insieme di variabili che comprende l’ampiezza, l’intensità e la precocità dei fattori coinvolti nel processo, ma anche le caratteristiche temperamentali dell’individuo, la sua personalità e il suo stile di attaccamento, gli aspetti di vulnerabilità e di resilienza, e infine le capacità di contenimento e di elaborazione della rete di relazioni affettive e sociali.
Nell’arco degli ultimi cento anni i contributi derivati dalle diverse prospettive teoriche hanno notevolmente arricchito ed approfondito la conoscenza dello stress, la sua influenza nella percezione di disagio del soggetto e l’ampia e profonda ricaduta sul piano somatico. Non c’è organo o apparato che sia immune dalla azione dello stress, come non c’è aspetto della vita emotiva e psicologica che non sia in qualche modo toccato dalla esperienza di uno stress, soprattutto se fortemente traumatico o molto prolungato nel tempo. Non a caso il disturbo post-traumatico da stress è entrato a pieno titolo nella moderna nosografia del DSM IV.
Nella sua accezione primitiva lo stress appariva legato a traumi acuti, come ad esempio un lutto, una separazione, un divorzio, o un evento grave come lo sradicamento dal luogo di origine, un licenziamento. Tuttora questi fatti appaiono in cima alla scala che misura l’impatto stressogeno delle situazioni. Ma negli ultimi decenni si è andata affermando una diversa visione dello stress, più attenta agli eventi traumatici minori e ai fallimenti relazionali precoci, che espongono il soggetto ad una sensazione primordiale di caos emotivo. E’ in questa turbolenza affettivo-relazionale che si struttura un senso di impotenza appreso e consolidato attraverso il ripetuto fallimento delle esperienze di comunicazione.
Khan[8] parla di trauma cumulativo, per descrivere l’insieme delle tensioni non facilmente assimilabili, che agiscono in modo silenzioso ed impercettibile, a cominciare delle prime tappe della relazione madre figlio. L’aspetto più interessante del suo contributo alla teoria dell’attaccamento in rapporto alla genesi dello stress è il rapporto tra l’effetto traumatico e la cumulazione di esperienze negative. In altri termini un unico evento, per doloroso che sia, non è sufficiente a compromettere nel soggetto la sua capacità di assimilazione e di adattamento rispetto al contesto. Sono necessarie molte esperienze negative di frustrazione per renderlo incapace di ripresa e di reazione positiva. E’ quanto si evince attraverso molteplici analisi che evidenziano retrospettivamente i fattori che hanno maggiormente compromesso la capacità adattative del soggetto. Anche se questi fattori appaiono vincolati ad uno o più episodi indelebilmente impressi nella sua memoria, ad ognuno di questi fatti il soggetto è in grado di collegare una retata di fatti minori, gradatamente accumulatisi nella sua immaginazione. L’effetto stressogeno si scatena quando si imbatte in una pietra di inciampo che lo induce a ricordare fatti accaduti in precedenza e a cercare di ricostruire le sue prime esperienze comunicative. Si dà spesso una sovrapposizione di piani, di vissuti, di stati d’animo, che solo apparentemente appaiono confusi o addirittura confusivi. Il presente e il passato comunicano tra di loro in chiave diacronica, per cui appare difficile muoversi lungo una linea del tempo ordinata e ben concatenata. C’è una rete di collegamenti emotivi che lega le esperienze attuali a quelle vissute con la figura primaria di attaccamento e con le frustrazioni subite nella lontana infanzia. Le interpretazioni di oggi si estendono ai fatti di ieri, perché i fatti di ieri si sono convertiti in strutture di apprendimento del reale, che tuttora condizionano la condotta del soggetto. E’ necessaria una certa sistematicità nell’analisi per ricollocare ogni oggetto al suo posto e mettendo ben in evidenza le reciproche interazioni tra emozioni e reazioni.
E’ nella ricostruzione della sua storia, nel risalire indietro nel tempo, che il soggetto comprende come la sua vulnerabilità di oggi affondi le sue radici in una incapacità tutta materna di stabilire un buon rapporto con lui, per cui il suo stile di attaccamento non può che essere insicuro o perfino disorganizzato. L’incapacità di fronteggiare le frustrazioni di oggi, la difficoltà a tollerare il ritardo nella soddisfazione dei suoi bisogni non sono altro che la ri-attualizzazione di una situazione di insoddisfazione latente, che si scatena davanti a fattori stressanti anche di limitata durata e consistenza. Il soggetto stressato di oggi è il bambino stressato di ieri, quello che sembrava piangere senza motivo o che non appariva mai pienamente soddisfatto delle cure ricevute.
Per Van der Kolk[9] la rarefazione del rapporto madre-figlio crea quella che lui chiama una atmosfera traumatica, caratterizzata da una sorta di trascuratezza sistematica, che impedisce al bambino di strutturare delle reazioni efficaci davanti ai fattori di stress e ne compromette definitivamente il controllo. E’ facile che il bambino in questi casi viva una condizione subliminale di stress cronico, che si scatena davanti a qualsiasi richiesta che comporti anche un lieve aumento di impegno adattativo. Nell’arco di pochi decenni si è passati da una visione del trauma acuto come fattore che crea stress, causando la lacerazione di una barriera protettiva sufficientemente efficace per proteggere dalle aggressioni esterne, ad una considerazione della predisposizione allo stress come disturbo precoce della relazione tra bambino e figura primaria di attaccamento. E’ il contributo specifico che si ricava dalla teoria dell’attaccamento e che risulta particolarmente ricco di implicazioni sul piano interpretativo del disagio psichico del bambino e dell’adulto.
Ciò che rende innovativa questa ipotesi è che lo scudo protettivo, con cui il soggetto argina il rischio dello stress, non si colloca più nel suo rapporto con un mondo di adulto che assume di volta in volta un carattere più o meno ostile, ma va fatto risalire alla fase iniziale del suo sviluppo relazionale con la madre. In quel momento magico in cui si fonda l’integrazione psico-somatica (holding), l’intersoggettività (handling) e la relazione con il mondo esterno (object presentng & realizing). Fonagy[10] ha messo in evidenza come davanti alla sensazione di impotenza che lo stress genera, il mondo appare caratterizzato da uno stato di caos, che sollecita emozioni di tipo negativo. Solo una relazione di attaccamento sicuro o il più vicina possibile ad uno stile di attaccamento di questo tipo garantisce lo stabilizzarsi di un senso di continuità e di coerenza dell’esperienza e permette di sostenere gli stati mentali dolorosi, attribuendo un significato agli eventi stressanti.
La teoria dell’attaccamento permette di inquadrare la sindrome da stress come un quadro clinico complesso caratterizzato dal coinvolgimento delle funzioni integrative della coscienza, dalla difficoltà a discriminare tra stimoli rilevanti e stimoli neutrali e da un deficit della regolazione nella modulazione e nella espressione delle emozioni (alessitimia). La persona coinvolta in una situazione di stress, a seguito di eventi rilevanti, che comportano una perdita della capacità di simbolizzazione, tende a dissociare le proprie emozioni, i propri ricordi, i propri affetti e i relativi comportamenti. Ricostruire questa dimensione simbolica permette al soggetto di controllare meglio i potenziali fattori di stress e di fronteggiarli ricorrendo con più efficacia, anche se inconsapevolmente a strategie difensive che consentono un di stanziamento, senza estraniamento.
Alla luce della teoria dell’attaccamento lo stress come status di disagio psico-fisico globale può essere valutato in due modi:
La teoria dell’attaccamento, senza nulla togliere alla necessità di valutare il più rigorosamente possibile i fattori di stress, concentra la sua attenzione sull’analisi dei processi cognitivi con cui il soggetto attribuisce un significato alla situazione di stress e alle cause che l’hanno prodotta. Il suo vissuto emotivo è strettamente dipendente dall’analisi che ne fa e dai significati che attribuisce alle situazioni. L’intensità dello stress appare condizionata da modo in cui il soggetto mentalizza le emozioni che sono alla base dello stress, che lo accompagnano e che in qualche modo sembrano determinarne le possibilità di uscita[11]. Tutti conosciamo individui che cedono facilmente le armi davanti ad una aggressione stressogena, assumono un ruolo di vittima e ritengono persa ogni battaglia, prima ancora di valutare in che modo potrebbero organizzare una strategia di difesa e magari di rivincita. Viceversa conosciamo persone che non si danno mai per vinte, che affrontano le situazioni di tensione con rinnovata energia e restano nella condizione di stress solo il tempo minimo necessario a pensare che tattica utilizzare per venirne fuori. Ci sono infine persone –i famosi soggetti D, da distressed[12]- che per il loro stile di personalità fortemente proiettato in avanti, in atteggiamento continuo di sfida, sono più esposti a cadere in condizione di stress, ma nello stesso sono anche più capaci di reagire allo stress stesso, volgendo in proprio favore circostanze che apparirebbero ad altri decisamente negative.
Assumere un atteggiamento o l’altro dipende in gran parte dalla modalità con cui il soggetto riesce a ridare forma al suo stile di attaccamento primario, formulando una richiesta di aiuto e di protezione. Ma dipende anche dal fatto che creda di poterla ricevere o meno[13]. Da questa credenza strutturalmente legata alla sua storia personale, dipende in gran parte l’atteggiamento di speranza con cui il soggetto affronta le condizioni di stress. In altri termini è nell’ottica della relazione di cura che il soggetto si muove una volta piombato nella fase di stress. Tende a ricostruire una relazione di attaccamento, secondario questa volta, capace di ricostruire e di riparare, se necessario, le condizioni dell’attaccamento originario. La cura che il soggetto cerca non è tanto volta alla soluzione del problema o dei problemi, quanto alla condivisione della cura di sé con una figura capace di esprimere la forza positiva di un attaccamento corrisposto. Il soggetto stressato vive in una situazione psicologica di abbandono e di impotenza, ed è a queste due emozioni viscerali he cerca di dare risposta attraverso molteplici forme di compensazione. Compresa quella che può derivargli dalla sua immaginazione, da una sorta di reverie ad ogni aperti, che annulli le circostanze ostili per sostituirle con altre meno violente ed aggressive per lui[14].
Lo studio della personalità nei soggetti inclini allo stress ha richiesto prima di tutto l’identificazione di una batteria di test adeguata valutare non solo i tratti distintivi del loro modo di essere e di relazionarsi con gli altri, ma soprattutto gli elementi dinamici di gestione delle situazioni sotto pressione. Porre il soggetto in una condizione di stress potenziale permette di ricavare dei dati che appaiono speso silenti se la persona è sottoporta d una serie di test in condizioni ordinarie, anche se a tutti è noto che il solo fatto di doversi sottoporre a test crea nel soggetto una sorta di pre-stress, legato al timore del giudizio e della valutazione. Denollett[15] ha creato uno strumento integrato in cui sono stati inseriti: il 16PF, la Type D Scale-14, World Health Organization Quality of Life Assessment Instrument-100, e la scala della percezione dello Stress, con 10 Item.
I parametri che emergono con maggiore frequenza nei soggetti stressati riguardano la polarità negativa della loro vita emotiva e l’inibizione di tipo sociale[16]. L’irritabilità, il pessimismo, la diffidenza, la suscettibilità, si accompagnano ad una vita sociale limitata alle circostanze strettamente collegate con la propria professionalità o con bisogni di base. Manca la disponibilità ad interagire in situazioni che non siano strettamente collegate ad un obiettivo da raggiungere e prevale un pragmatismo strettamente funzionale. Una apparente sicurezza può far passare sotto silenzio la fragilità emotiva con cui questi soggetti temono situazioni di abbandono o di tradimento, per cui sono inclini a controllare il proprio lavoro con uno spiccato senso di perfezionismo e il lavoro dei collaboratori, con una accentuata iper-responsabilità, che non riesce a delegare in modo significativo ruoli e competenze[17].
Meares[18] ha ipotizzato un altro possibile rischio. Il soggetto in fase di stress potrebbe non essere capace di ricollocare nei suoi schemi abituali le nuove esperienze, che gli appaiono disarticolate, frammentate e prive di senso sia sul piano logico che emotivo. La percezione del non senso potrebbe risultare per lui più stressante ancora degli eventi che sembrano essere causa di stress. E’ come se nel soggetto venisse meno la capacità di rappresentare sul piano simbolico gli elementi di un contesto ostile e pericoloso, per cui se ne sente invaso e pervaso, anche nei momenti in cui non è direttamente esposto all’esperienza traumatica. Lo stress, una volta attivato da una serie di fattori, continuerebbe la sua azione corrosiva, anche in assenza dei fattori che lo hanno scatenato, perché l’immaginazione del soggetto risulta polarizzata solo sulle emozioni negative, in una sorta di fissazione persecutoria[19]. Rozansky parla del paradigma della flessibilità come struttura difensiva per arginare l’impatto dei fattori e dei modelli stressogeni che caratterizzano la nostra cultura. Esiste indubbiamente uno stile sociale che si impone all’attenzione dei singoli con la forza di un organizzatore della condotta scarsamente controllabile: è il bisogno di avere tutto e subito, la tendenza a confrontarsi sistematicamente con chi sembra possedere un maggior numero di beni o di benefici. In un confronto così strutturato è facile risultare perdenti e sentirsi spinti a mettere in gioco un numero sempre crescente di energie per rincorrere una meta che sembra sfuggire in continuazione. La carenza di flessibilità rende pressoché impossibile adattarsi a parametri meno inquietanti e socialmente meno corrosivi. In questo caso lo stress avrebbe una sua causa sociale che non può essere ignorata e che va opportunamente valutata.
La dimensione simbolica che permette a tutti noi di rappresentare in chiave virtuale non solo le situazioni di pericolo ma anche le soluzioni possibili, immaginando vie di fuga e soluzioni alternative, risulterebbe incapace di esprimere soluzioni positive. E’ come se il soggetto, che in genere prima di misurarsi con la realtà cerca di pre-figurarsi soluzioni alternative, in questo caso fosse incapace di immaginare accanto ai rischi le risorse, accanto alle difficoltà le possibilità, per valutarle correttamente. In fase di stress resta intrappolato da una visione negativa, che non gli consente di decidere come comportarsi. Per Meares lo stress in fase acuta o dopo una cronicizzazione impedirebbe al soggetto di immaginare come venirne fuori; prevarrebbe la sensazione di sentirsi sprofondati in un abisso in cui ci si percepisce del tutto impotenti. Il soggetto non potendo neppure immaginare cosa fare, non riesce a mettere in atto nessuna strategia concreta di soluzione. L’ipotesi che lo stress crei un blocco anche a livello immaginativo impedendo al soggetto di mobilitare energie positive è molto suggestiva e riflette quanto spesso riferiscono le persone nella fase di maggiore disagio. Tra le affermazioni tipiche che i soggetti stressati ripetono più frequentemente c’è la sensazione che tutti ce l’abbiano con loro, che nessuno li capisca, che tutto sembra complottare contro di loro e che nessuno dia loro una mano. Il massimo della negatività emotiva sembra scaturire da una immaginazione malata, perché ferita da eventi concreti, che permangono come schegge di memoria impazzita; il loro compito principale è quello di mantenere alta la soglia di stress rievocando costaterete le situazioni di frustrazione, l’affaticamento legato ad un surmenage, le delusioni subite, ecc. Ascoltando queste persone quando riferiscono del loro disagio e descrivono le loro condizioni di malessere, si ha la sensazione di una insopprimibile coazione a ripetere. Il soggetto ripete spesso con le stesse frasi e la stessa risonanza emotiva cosa lo ha condotto alla situazione di stress in cui si trova. Sembra che non si limiti a descrivere fatti e vissuti, ma li rievochi con la maggiore vivezza possibile, nonostante gli occasionino una ulteriore sofferenza. Il suo stesso narrare diventa elemento aggiuntivo di stress, rendendo molto difficile al suo interlocutore penetrare in queste fantasie negative per rendersi disponibile ad aiutarlo.
A meno che non si realizzi una vera e propria alleanza terapeutica che rievochi una antica relazione di attaccamento, prestandogli a livello affettivo e cognitivo quella sicurezza di cui si sente privo per affrontare un ulteriore rischio. In effetti mettersi alla ricerca di una soluzione per risolvere la situazione di stress può apparirgli ancor più rischioso che restare nello stato di crisi determinato dallo stress. Solo se riesce ad immaginare di non essere solo e di non sentirsi solo, può mobilitare le sue energie residue, e nonostante la percezione di impotenza può provare a gestire lo stress,. A livello profondo la sua richiesta è quella di un aiuto che sul piano emotivo attenui la paura della solitudine e dell’abbandono e sul piano cognitivo lo metta in condizione di strutturare una chiave di lettura che dia senso alla situazione in cui si trova. Solo con una rinnovata capacità di appoggio sul piano emotivo e sul piano cognitivo potrà individuare la via di uscita dalla situazione in cui si sente sopraffatto, ottenendone un rafforzamento della immagine di sé e un potenziamento della propria identità.
In definitiva si può dire che il disagio legato allo stress nasce non tanto da un eccesso di pressione esterna al soggetto, quanto da una debolezza interna del soggetto, da una assiologia debole caratterizzata da un pensiero debole e da una ontologia debole. Dis-agio è una malattia del presente permeata da uno spiccato senso di ansia, che per il passato assume le caratteristiche dei sensi di colpa e per il futuro può assumere la forma dell’angoscia. Un terapia sintomatica dello stress può centrarsi sugli aspetti strettamente biologici, a seconda dell’organo o dell’apparato colpito, e necessita contemporaneamente di un trattamento psicofarmacologico, che riduca lo stato d’ansia e tenti di migliorare le condizioni dell’umore. Ma tutto ciò non permetterà al soggetto di modificare il suo approccio con la realtà perché non tocca il punto cruciale del problema: la predisposizione allo stress legata al suo stile di attaccamento, alla solidità e alla flessibilità nei rapporti con gli altri. Il soggetto deve sviluppare sia una discreta capacità di porsi mete realistiche sul piano esistenziale prima ancora che professionale che una buona capacità di gestire delusioni e frustrazioni, evitando di chiudersi in se stesso[20].
La difficoltà maggiore sta nel prendere coscienza del fatto che se un singolo episodio di stress è in funzione di una serie di fattori esterni, oggettivabili, lo stato di stress va collegato soprattutto ad un modo abituale di rielaborare i vissuti legati alle emozioni negative. Ciò che rende particolarmente difficile convivere con le proprie emozioni negative è la sensazione che siano prive di senso e di significato. Occorre individuare nuovi modi per ri-vitalizzare la propria volontà di significato, integrandola la naturale volontà di piacere con un realismo positivo che aiuti ad uscire stabilmente dalla condizione di stress. Gli esigenziali costitutivi dell’essere sono :
Il soggetto davanti ad una condizione di stress che si protrae o si ripete nel tempo ha il diritto di chiedere sostegno se non dispone delle risorse sufficienti per risolvere i propri livelli di tensione o per imparare a convivere con loro.Occorre imparare a prendersi cura della propria sofferenza, senza dirottarla su fronti solo apparentemente meno conflittivi o competitivi, come accade per le manifestazioni fisiche dello stress. Una parte importante della educazione terapeutica che dovrebbe accompagnare la persona in queste circostanze è la capacità di riconoscimento dei fattori di stress più significativi per lei, delle dinamiche affettive che sottendono e delle strategie cognitive con cui si cerca di rimuoverle, dirottandole verso la propria corporeità. Nella tormentata relazione che ognuno di noi mantiene con sé stesso e con le proprie aspettative, nel tentativo di commisurarle con la realtà, modificando quest’ultima per adattarla alle prime, in uno sforzo tanto intenso, quanto spesso vano, si rispecchiano le interferenze, la confusione e la disillusione di tutta la propria storia. Accanto al rischio di amnesie più o meno volontariamente coltivate, per rimuovere le spine irritative di una insoddisfazione di lunga data, affiora l’impatto psicologico di esperienze opprimenti.
Ma spesso ci si chiede se la dimensione oppressiva dell’esperienza narrata stia nel fatto evocato o non sia piuttosto un artefatto, che deriva dalla interpretazione che il soggetto fa dell’evento spiacevole, usandolo come una sorta di trigger. Una chiave di innesco necessario per animare una serie di emozioni negative, che abitano la sua immaginazione, come stigma di relazioni ancestrali che non gli hanno consentito di strutturare una sufficiente sicurezza. Si torna in questo modo alla ipotesi di partenza che vede nella relazione di attaccamento il paradigma della capacità di sopportazione dello stress. Il dubbio è sempre quello: l’eziologia dello stress dipende dal trauma, macro o micro che sia, o dalla interpretazione che del trauma fa il soggetto? L’eziologia dello stress è di natura biologica o di natura psicologica? Non c’è provocazione, per forte che appaia, che non sia stata gestita correttamente da molte persone, in condizioni effettivamente difficili. E non c’è provocazione, per piccola che sembri, che non abbia rapidamente condotto un persona in una fase di intolleranza assoluta alla frustrazione.
Un trauma, soprattutto se si tratta di microtraumi ripetuti, avvenuti nell’infanzia può compromettere lo sviluppo successivo del soggetto creando una soglia di tolleranza allo stress così bassa, da rendere problematica la sua qualità di vita, perché lo rende facilmente vulnerabile. Ricostruire attraverso la sua storia personale, la storia di questa soglia, che fa da discriminante semantico tra eventi significativi e eventi indifferenti, tra emozionabilità controllata ed emozionabilità flottante, è una delle sfide più interessanti della educazione terapeutica di questi soggetti. E in questa linea si sta attualmente muovendo anche la moderna Educazione medica, che dopo aver cercato di occuparsi tanto di medici e di personale sanitario, ha cominciato da un po’ di tempo, troppo poco a dire il vero, ad occuparsi anche della educazione dei pazienti, per aiutarli gestire la propria salute all’interno di tutta la loro biografia.
[1] Blomhoff s, Holven KB. Brosstad F et al. Psychological factors and cardiovascular disease . J Thromb Haemost 2004; 2: 201-3
[2] Barefoot JC, Helms MJ, Marck DB. Depression and long-term mortality risk in patients with coronary heart disease. Am J Card 1996; 78: 613-7
[3] Wassertheil- smaller S, Appelgate WB, Bergek et al. change in depression as a precursor of cardiovascular events. SHEP cooperative research group. Arch Int Med 1996; 156: 553-61
[4] Smith DF. Negative emotions and coronary heart disease: Causally related or merely coexistent? A review Scandinavian Journal of Psychology. Volume 42 Issue 1 Page 57 - February 2001,
[5] Sirois BC, Burg MM. Negative emotions and coronary heart disease: a review. Behav Modif, Jan 1, 2003: 27 (1): 83-102
[7] Zellweger MJ, Osterwalder RH, Langewitz W et al. Coronary heart disease and depression. European Heart J 2004; 25: 3-9
[8] Khan M, Lo spazio privato del sè, Bollati Boringhieri, Torino, 1979
[9] Van del Kolk BA, Psychological trauma, American Psychiatric Press, Washington DC, 1987
[10] Fonagy P, Target M, Attaccamento e funzione riflessiva, Raffaello Cortina editore, Milano, 2001
[11] Everson SA, Kaplan GA, Goldberg D, Salonen R, Salonen J, Hopelessness and 4-Year Progression of Carotid Atherosclerosis .The Kuopio Ischemic Heart Disease Risk Factor Study Arteriosclerosis, Thrombosis, and Vascular Biology. 1997;17:1490-1495
[12] Grande G, Jordan J, Kummel M et al. Evaluation of the German type D scale (DS14) and prevalence of the type D personality pattern in cardiological and psychosomatic patients and healthy subjects. Psychother Psychosom Med Psychol 2004 Nov; 54
[13] Kubzansky LD, Kawachi I Going to the heart of the matter: do negative emotions cause coronary heart disease? J Psychosom Res. 2000 Apr-May;48(4-5):323-37.
[14] Steptoe A, Wardle J, Marmot M. Positive affect and health-related neuro-endocrine, cardiovascular, and inflammatory processes. PNAS 2005, May 3, 102 (18): 6508-6512
[15] Denollet J. DS14: standard assessment of negative affectivity, social inhibition, and Type D personality. Psychosom Med. 2005 Jan-Feb;67(1):89-97
[16] Schiffer AA, Pedersen SS, Denollet J. The distressed (type D) personality is independently associated with impaired health status and increased depressive symptoms in chronic heart failure. Eur J Cardiovasc Prev Rehabil. 2005 Aug;12(4):341-6
[17] Denollet J, Brutsaert DL., Reducing emotional distress improves prognosis in coronary heart disease: 9-year mortality in a clinical trial of rehabilitation, Circulation. 2001 Oct 23;104(17):2018-23
[18] Meares R, Intimità e alienazione, Raffaello Cortina, Milano, 2005
[19] Rozanski A, Kubzansky LD. Psychologic functioning and physical health: paradigm of flexibility. Psychosomatic Medicine 67; S47-S53
[20] Van der Kolk BA, McFarlane AC, Weisaeth L, Stress traumatico. Gli effetti sulla mente, sul corpo e sulla società delle esperienze intollerabili, MaGi edizioni, Roma, 2005