Chirurgo malato d’Africa fra africani malati davvero

 

Vanni Beltrami

 

    Perché ci si ammala d’Africa? E’ una domanda che viene spesso rivolta a tanti come me i quali, spesso per caso, hanno cominciato a confrontarsi con il più affascinante dei continenti e non sono più riusciti a distaccarsene, almeno spiritualmente. Le motivazioni sono certamente plurime e complesse, tenterò di darne qui una esemplificazione che sarà parziale ed anche necessariamente superficiale: e parlerò poco dei problemi sanitari, che pure fanno parte del quadro, per ridurre al minimo quelle note di rammarico e tristezza che le condizioni della sanità africana non possono non indurre. Elencherò invece in sommario i mille volti dell’Africa, ognuno dei quali ha una sua perfezione idonea ad affascinare gli incauti.

      Il primo volto è quello della natura, che assume aspetti diversissimi da luogo a luogo. Le montagne africane sono molte e splendide: si trovano quasi sulla costa del Mediterraneo - come la catena dell’Atlante - ed in pieno Sahara, come l’Hoggar, il Tassili, l’Air, il Tibesti, le cime dei quali raggiungono e talora superano i 3000 metri; e poi ancora fra l’oceano Indiano e l’Africa Centrale, dove si alzano invece verso il cielo l’Acròcoro Etiopico, il Monte Kenya, il Kilimangiaro, il Ruwenzori e tutte le altre mitiche “montagne della luna”, che spesso sfiorano i 5000 metri. Il rilievo si compone anche di grandi altipiani, mentre fanno da contorno interminabili ondulate savane steppose e maestosi deserti, che sono quanto di meno uniforme si possa immaginare. Il Sahara, ad esempio, è fatto di sabbia soltanto per il venti per cento, mentre per il resto è rappresentato da distese piatte infinite di ciottoli, da rocce di mille forme corrose dal vento, da fondi di mari disseccati, da crateri di vulcani estinti.

 

Nella fascia equatoriale la natura regala tre suoi profili straordinariamente espressivi: le grandi foreste, i corsi d’acqua e i laghi, di tutte le dimensioni.

 La foresta fluviale è impenetrabile, un aereo che vi precipiti viene dichiarato perduto, per l’assoluta impossibilità di identificarlo; sulle rive dei grandi fiumi una muraglia verde costringe la corrente come in un corridoio senza vie di fuga. Molti di questi fiumi hanno percorsi e dimensioni impressionanti: il Nilo ad esempio, con le sue due componenti - Nilo Bianco ed Azzurro - scorre per quasi 6.000 chilometri prima di raggiungere l’Egitto, mentre le due sponde del fiume Congo nei pressi della foce in Atlantico sono tanto lontane da non essere distinguibili. Fra i laghi, il Victoria è un mare interno immenso, mentre il Tchad ha conosciuto nei millenni estensioni e riduzioni di superficie che l’hanno di volta in volta reso simile al Mar Nero o ad una pozza fangosa. Ai mille e mille specchi d’acqua naturali, l’uomo ha aggiunto, costruendo grandi sbarramenti, dei bacini artificiali che non sono da meno per imponenza: il lago Nasser creato dalla diga di Asswan nell’alto Egitto gareggia con il Volta formatosi a monte della diga di Akosombo in Ghana e con il Bussa-Kainji, sul Niger, nella Nigeria nord-occidentale. 

 

Appare quasi banale, fra gli aspetti di una natura così ricca di contrasti, il ricordare la bellezza della vegetazione – le grandi foreste, i maestosi baobab, gli antichissimi cipressi del Tassili – e degli animali africani, i cuccioli che, come ogni cucciolo, presentano aspetti di grande simpatia.

 

 Un volto del tutto diverso dell’Africa più autentica è quello che ci deriva dal suo passato più remoto. Sulle pareti di roccia, specialmente nell’Africa sahariana ed in quella australe, uomini come noi - vestiti probabilmente all’inizio di pelli di animali ed armati di strumenti di pietra - a partire da oltre diecimila anni fa hanno inciso o dipinto le scene della propria vita e la fauna con la quale erano in quotidiano contatto. Una vera pinacoteca ha reso possibili studi non solo di valutazione artistica ma anche di etnografia, che hanno fatto della preistoria, soprattutto sahariana e sudafricana, l’argomento di congressi, di dibattiti e di migliaia di pubblicazioni. Sono stati riconosciuti ed analizzati stili successivi, connotati per lo più attraverso i soggetti di più frequente rappresentazione - la grande fauna, i bovidi, i cavalli, i cammelli - e sono state studiate le correlazioni esistenti con gli strumenti di pietra e con i successivi oggetti forgiati nel rame e poi nel ferro; arredi e corredi significativi sono stati rinvenuti in tombe e vere e proprie necropoli identificate in molte aree del deserto delle savane, dove gli antichi abitanti giacevano - in pace - da secoli e millenni.

                                                                                                                   

Un terzo aspetto del fascino dell’Africa ci è offerto dall’arte tribale degli ultimi secoli, della quale si sono trovati esemplari anche molto antichi, in pietra ed in terracotta, più recenti in legno. Le sculture Sao, Nok, Kissi, Djennè, Bankoni, Asante, Koma, Ife e Benin sono entrate nella storia della cultura ed hanno fra l’altro influenzato, dalla fine del XIX secolo,  la creatività degli artisti occidentali. Molto importanti ed influenti per l’arte contemporanea sono risultate le maschere, proprie di grandi e piccole comunità africane, nonchè talune modernissime e surreali creazioni plastiche, come quelle dei Makonde del Mozambico.

 

Un cenno a parte merita poi l’architettura: perchè gli africani hanno da sempre saputo “costruire” con i materiali disponibili molto di più delle tradizionali capanne: ed ecco le ardite grandi moschee del delta interno del fiume Niger - incredibilmente plasmate soltanto con fango mescolato a paglia su armature di legno - e, nonostante che la pietra sia difficile da reperire e lavorare, anche le cittadelle cinte di mura di Zimbabwe, i castelli di Gondar e le chiese scavate nella roccia a Lalibela in Etiopia.

                     

E’ infine essenziale, per parlare di Africa, osservare ed accettare la gente: gli uomini, le donne ed i bambini, belli e brutti, grandi e piccoli, buoni e cattivi, amichevoli ed ostili, intelligenti e sciocchi, proprio come ogni altro essere umano. Da notare sono in particolare il gusto femminile negli accostamenti di colori, nella scelta degli ornamenti, dei gioielli, delle pettinature: e se meritano una specifica citazione i gioielli in argento dei Tuareg, fusi con la metodologia della “cera persa”, occorre anche non dimenticare - degli africani - la frequente condizione di poveri, affamati e malati, aspetti questi difficili da accettare e sopportare.

 

 E’ ben noto come la condizione umana si diversifichi da continente a continente in base alle appartenenze socio-culturali, alla fede religiosa, al colore della pelle e soprattutto ai cosiddetti indicatori socio-economici: che sono poi i veri responsabili delle incredibili differenze esistenti fra il mondo “industrializzato” e ricco - che tale è senza alcun dubbio - e quello cosiddetto “in via di sviluppo”, che tale è soltanto per modo di dire. Sono indicatori socio-economici, fra gli altri, il reddito pro-capite, il prodotto nazionale lordo, il tasso di alfabetizzazione e l’entità della fornitura di acqua potabile: ad essi si affiancano gli indicatori di salute, con numeri drammatici relativi alla spesa sanitaria, al numero dei medici e dei paramedici in rapporto a decine di migliaia di abitanti, nonché alla mortalità infantile, all’apporto medio di calorie al giorno per individuo ed all’aspettativa di vita. I dati in merito, disponibili presso l’Organizzazione Mondiale della Sanità, sono tragici e soprattutto consentono di riaffermare quanto sostanziale sia il ruolo della povertà nel determinismo delle malattie nei paesi del terzo mondo: soprattutto evidenziano come i tentativi di porvi rimedio contrastino di fatto con i grandi interessi economici internazionali e pertanto possano tuttora essere collocati nel campo delle buone intenzioni. E cosa può accadere al medico, che è stato turista per caso, quando prende coscienza di questi grandi problemi?

 Il rendersi conto di queste realtà può invitare un medico, un chirurgo,  ad un reale possibile coinvolgimento: e se accoglierà questo richiamo, dovrà scegliere fra tre possibilità diverse di partecipazione. Potrà optare per una collaborazione soltanto esterna e da lontano, attraverso l’aiuto finanziario ed anche pratico ad organizzazioni che diano garanzie; per una partecipazione personale diretta, eventualmente per periodi limitati; infine, per una scelta di vita.  La seconda ipotesi finisce con l’essere una delle più frequentate e si rivela più adatta alle capacità di un chirurgo, date le circostanze che ora si specificheranno. Una frequentazione per un periodo limitato - ma non troppo - e ripetuta negli anni  porterà il nostro volonteroso a conoscere da vicino le realtà abbastanza difficili dei piccoli ospedali periferici, i più bisognosi di persone come lui: i “bush hospital”, gli “hopital de brousse”, insomma gli “ospedali rurali”. E di cosa si tratta?  Un ospedale rurale è in sostanza un piccolo presidio sanitario isolato, lontano dai centri maggiori, cui le forniture essenziali d’acqua e di energia elettrica sono appena garantite. Le attrezzature chirurgiche, la sala parto, il laboratorio sono dei più semplici ed essenziali ed il personale coadiutore è rappresentato da pochi elementi per lo più locali e con sommaria acculturazione infermieristica. La popolazione che afferisce a questa struttura, alla ricerca di trattamenti sanitari di ogni tipo, è numerosissima, dato che la struttura stessa costituisce spesso l’unica possibilità di soccorso su un’area assai vasta e priva di collegamenti, spesso corrispondente per superficie ad una regione media italiana. Il responsabile di una cosiffatta unità sanitaria lavora quasi sempre quale unico soggetto provvisto di laurea in medicina: ed è auspicabile che sia un chirurgo, data la primaria importanza delle attività operatorie che dovrà affrontare: anche se sulle sue spalle ricadranno comunque anche l’assistenza internistica e pediatrica, nonché l’azione preventiva e la responsabilità amministrativa e logistica.

 

   Gli interventi operatori dei quali si tratta non saranno soltanto di chirurgia generale, ma anche di ostetricia, ortopedico-traumatologia e con carattere specialistico. E il nostro volontario dovrà presto constatare del resto che le stesse affezioni di tipo chirurgico potranno avere aspetti tipicamente locali, quindi essere sconosciute o quasi per un operatore con preparazione europea. Basterà ricordare gli ascessi amebici, la splenomegalia tropicale, le lesioni da lebbra, il lymphedema, i micetomi, l’aihnum. Dal lato ostetrico-ginecologico, seppure l’esecuzione dei tagli cesarei consente di essere affrontata con qualche disinvoltura, altre circostanze – ad esempio l’ “obstructed labour”  e le rotture d’utero - potranno presentarsi in modo drammatico. Altre difficoltà sono poi costituite dagli stati di denutrizione e immunodepressione dei pazienti, dalle fasi avanzate della malattia, dalla non conoscenza dei precedenti semiologici, dalla scarsità dello strumentario diagnostico: che si uniscono ai fattori climatici, alle differenze linguistiche e culturali, ai pregiudizi locali ed alla necessità di integrare le proprie nozioni con quelle, spesso preziose, della medicina tradizionale. A tutto questo, poi, si associano i fattori “isolamento” e “solitudine” che rendono il compito ancor meno agevole.                                                                                                        

Perché un medico può sentire un impulso irresistibile ad andare a lavorare in queste condizioni, magari a ripetere altre volte l’esperienza, per difficile e coinvolgente che sia? La risposta sta, a mio parere, nella sensazione di “obbligo morale” che un’esperienza di questo genere suscita fin dalla prima volta che viene vissuta: nonostante che la nostra attuale sia una stagione di scaduti e scadenti valori etici. Ove questo non bastasse, una forte risposta si può leggere sul volto di uomini, donne e bambini, quando si comprenda davvero la durezza del vivere quotidiano. E poiché non è un caso che una delle poche figure occidentali che possa godere di prestigio presso le popolazioni africane sia quella del “medico” in senso lato, questi deve rivestire il suo ruolo con serietà, dignità e generosità, perché gli venga accordata e mantenuta piena fiducia. Spesso, le circostanze rendono maggiore la percezione della propria insufficienza, che ognuno - cosciente dei propri limiti - non può che provare nel porgere il suo aiuto in circostanze spesso drammatiche. Ed a tale percezione si associa molto spesso una sensazione di disagio quando forzate circostanze distaccano quel medico, quel chirurgo, da coloro che hanno creduto in lui. Questa sensazione di fondo diventa per molti – nel tempo, quando si sia “tornati a casa” – una sottile malinconia. Quella che si definisce comunemente “mal d’Africa”.