MALATTIA COME METAFORA FINALE
Vanni Beltrami
Professore Emerito di Clinica Chirurgica alla “Sapienza”, Roma
Ogni società ed ogni epoca sembrano avere un bisogno oscuro di dare corpo alle proprie paure ed ansie
collettive identificando il pericolo del “male assoluto” (di fatto, la morte) con qualcosa di facilmente ravvisabile,
temibile e naturalmente detestabile. Ciò viene fatto delineando una figura retorica ben nota fin dall’antichità,
cioè attraverso l’espressione di una “metafora”.
Cosa è di fatto una metafora? Aristotele nella “Poetica” dice che una metafora consiste nel dare ad una cosa
il nome che è proprio di un’altra, alla quale essa può somigliare od anche non somigliare affatto. E le metafore
sono in effetti ampiamente presenti in ogni ramo della cultura occidentale, nella lettura e nella vita quotidiana:
tanto che si può dire abbia finito con il corrispondere all’idea di metafora – in un certo senso – lo stesso diffuso
understatement, termine di britannica origine.
Ma quale è la giustificazione per trattare di un argomento quale “la metafora”, in relazione allo studio dei tumori?
Il fatto non controverso – sottolineato già anni or sono da una brillante scrittrice nord-americana, Susan Sontag – è che
il cancro con l’andare del tempo è diventato ormai una metafora, nell’inconscio collettivo assumendo il valore di non
semplice malattia, ma di lato oscuro della vita, di sua negazione assoluta, d flagello senza rimedio. Questa vera e
propria demonizzazione del cancro ha fatto sì che coloro che ne sono colpiti appaiano come segnati da un marchio,
quasi una colpevolizzazione:questa realtà induce ulteriori afflizioni, delle quali quali il linguaggio volutamente oscuro
dei medici, il pietismo menzognero dei famigliari, la insita “misteriosità” della malattia stessa sono corresponsabili.
Non è certamente le prima volta che una malattia nella storia assume un significato - appunto metaforico - tanto sinistro
e gravoso. Si possono ricordare le epidemie citate nel Grande Erbario dell’Imperatore cinese Chen Luing, che risale
al 3000 a.C. (già noto ai medici della Serenissima) e quelle descritte nel papiro egiziano studiato dall’Ebers che è del
1.500 a.C. : e che è quasi coevo del testo biblico dell’ “Esodo”, che elenca le “piaghe” inflitte al Faraone ( Ramses II) ed
ai suoi sudditi; ed Ancora nella Bibbia (Libro di Samuele) si parla della peste inflitta ai Filistei. Se la lettura dei testi
non consente con certezza l’identificazione delle malattie, costante è l’attribuzione ad esse alla “collera” degli Dei o
del Dio Unico: e alla medesima “collera” Omero attribuisce le pestilenze che colpiscono gli Achei in guerra davanti
a Troia.
Più avvicinabili sul piano di una diagnostica attuale sono le epidemie descritte dalle cronache del mondo greco-romano
a cominciare dalla “Peste di Atene” – causa della morte dello stesso Pericle – che oggi viene identificata dagli storici
della medicina come una severa forma di scarlattina. Ben note sono le diffusioni della malaria e del carbonchio, nonché
la “peste”di Antonino Pio, identificata come vaiolo: e altrettanto note sono le conseguenze che le diverse epidemie spesso
ebbero per le comunità sia ebree che cristiane, considerate responsabili dell’offesa recata alle divinità tradizionali.
La storia della decadenza e caduta dell’impero reca che molta influenza ebbero le pestilenze coeve alla presenza vandalica
in Africa e la conquista sassone delle Isole Britanniche: e più tardi le Crociate e le diverse attività guerriere del basso
ed alto Medio Evo, segnate dalla malaria, dalla lebbra, dal vaiolo e da tutte le epidemie cui venne dato genericamente
il nome di “peste”. Ogni volta, nell’incapacità di spiegare le cause reali di queste “pestilenze”, i contemporanei
rivolsero la loro attenzioni, per quanto illogiche ed improbabili, a motivazioni di ordine morale e religioso.
Nell’Evo moderno - dopo il 1492, ma in epoca pre-illuministica – gli esempi più evidenti dell’attribuzione di
un significato metaforico a malattie gravemente contagiose sono rappresentati dalla “demonizzazione” della
peste bubbonica: specialmente l’epidemia denominata “Peste di Londra” – pur già preceduta dalla “Peste di Giustiniano”
e dalla “Peste nera” del XIV secolo – fu un fenomeno terrificante, con risvolti non soltanto demografici ed economici,
ma anche politici e letterari oltre che psicologici e morali. L’ossessiva ricerca di presunti colpevoli trova una sua
efficace denuncia nella “Storia della colonna infame” del Manzoni.
Nelle epoche successive, curiosamente esente dal divenire metafora del “male” rimase la sifilide: essendo tardive le
sue conseguenze mortali e non correlate con le attività sessuali – ed inoltre essendo essa diffusa “con il bacio” anche fra
le classi patrizie – alla lue non venne attribuito un contenuto etico. Fra il XVIII ed il XIX secolo analogamente furono
di fatto esenti da risvolti moralistici - pur essendo malattie riconosciute di elevata gravità e mortalità - il tifo addominale
e quello petecchiale, il vaiolo, le malattie esantematiche in genere e l’eresipela. L’indubbia protagonista del male
da contagio, della morte – flagello tipica dell’epoca divenne infatti la tubercolosi: che non poteva sfuggire alle metafore
del male oscuro, che comportava ritegni anche vergognosi ed aveva ésito fatalisticamente prestabilito ed anche
accettato. La letteratura dell’epoca e non solo dell’epoca è ricchissima di esemplarità al riguardo: basti citare un
poco a caso “La signora delle camelie”, “La capanna dello zio Tom”, Tristano”, la Boheme”, “La montagna incantata”
e il più recente “Diceria dell’Untore”.
Peraltro, la tubercolosi – anche se metafora di “caduta”, “corruzione” e “ morte” – mantenne nell’immaginario collettivo
singolari risvolti quasi nobilitanti. Venne considerata malattia della passione, apparentata alla consunzione per amore,
rappresentazione del desiderio frustrato: gli esempi letterari ed i personaggi non mancano (Musset, Chopin, Keats, Shelley)
fino a dover registrare la singolare distinzione dei fratelli Goncourt fra “parti del corpo nobili e parti grossolane” e pertanto
le relative affezioni “eleganti e volgari”. E la tubercolosi non poteva che far parte delle prime! Ma il cancro? Esso è
subentrato alla tubercolosi quale metafora del “male irrimediabile”, ma senza gli aspetti significanti – anche se
sinistramente positivi - attribuiti ad essa. Non a caso, rare eroine letterarie muoiono per tumore: vedasi la leucemia
considerata in “Love story”. Il cancro è diventato nell’immaginario collettivo un evento oscuro, dai risvolti psicologici
psicosomatici inquietanti, del tutto privo di aspetti lirici e nobilitanti. In società giovanilistiche e vitalistiche come quella
americana, si è arrivati a considerarlo quasi motivo di una certa vergogna, anche in base a teorie che vedono costanti
rapporti fra morbo e psiche. Groddeck giunge a dire che “è sempre il malato che crea la sua malattia”!
Nonostante che negli ultimi anni si sia manifestata una nuova malattia che presenta tutte le caratteristiche necessarie ad
una sua demonizzazione – misteriosa, poco curabile, collegabile ad una “colpa morale” – essa, anche per un fattore
di frequenza, non ha superato il cancro nella valutazione di “pericolo per la comunità”. Ritenuto già da tempo quasi unica
causa di morte nei paesi sviluppati, soltanto talora denominato onestamente e correttamente, vissuto come tragedia e spesso
con imbarazzo dai famigliari, il cancro ha assunto in pieno il ruolo di metafora del “male del secolo”. Fortunatamente
tutto ciò ha portato ad un atteggiamento reattivo: quello di affrontarlo sia sul fronte terapeutico che su quello psicologico.
Quasi altrettanto si è andata rivelando l’opportunità di convincere sia i malati che l’opinione pubblica della possibilità
della cura stessa: e il primo risultato di questo atteggiamento è evidenziabile nella eliminazione di questo – che rimane un
problema sanitario comunque molto grave – dalla categoria delle “metafore” inesorabili, delle quali si è parlato.