Ponza Romana porto dell’Impero
Vanni Beltrami
Premessa
Obiettivo della presente nota sono alcune osservazioni sulle installazioni idrauliche di età romana nell'isola di Ponza, che appaiono assai rilevanti, fino ad indurre l'ipotesi di una sproporzione fra il rifornimento che esse garantivano e la popolazione presente all'epoca. Se l'esistenza delle grandi ville imperiali rende in effetti logica l'esistenza di imponenti cisterne ad esse topograficamente corrispondenti, essa non giustifica la notevole dell'acquedotto che scende fino al livello dell’antica presunta zona portuale e nemmeno la collocazione di uno sbarramento, conformato come una vera e propria diga, situato nell'immediato entroterra dell’antica zona portuale stessa.
Antiche denominazioni di Ponza e delle Isole Ponziane
Le citazioni dell'isola principale dell'arcipelago non scarseggiano in età antica. Ponza viene denominata Eea ("Aurora") da Omero; Pontia ("Marina") da vari Autori greci; Eeus (forse "Tristezza") dai Fenici, Pontiae od anche Circide da Virgilio ed Apollonio, Enotria da Strabone e Pausania; nel quarto secolo, compare il nome di Palmaria, probabilmente a celebrazione della palma del martirio. Per parte loro, anche le altre isole dell'arcipelago trovano in epoca classica un loro spazio onomastico. L'isolotto di Gavi, all'estremità di Ponza, era noto ai Greci ed a Plinio come Gaulos; Zannone è la Sinoni dei Romani, che ricordano Palmarola come Farmacusa (“ricca di palme”). Per parte sua, Ventotene - già "Isola delle Sirene" in Omero - viene ricordata dapprima come Pandatària o Pandaria, poi Pandoterìa o Pandotìra nei più tardi Autori Latini; la prospiciente Santo Stefano, già nota ai Fenici come Parthen, diventa Partenope in Strabone e Tolomeo, mentre era ignorato lo scoglio La Botte, situato sulla rotta fra Ventotene e Ponza.
Presenze pre-romane in Ponza
La prima presenza umana nell'isola sembra risalire al neolitico, con una "cultura dell’ossidiana", risalente all' VIII-VII millennio b.p.. Importata da Palmarola, l'ossidiana veniva probabilmente lavorata a Punta del fieno; la sua importanza è comprovata dalla modestia della quantità e qualità dei coevi strumenti di selce, che erano evidentemente frutto di importazione. La coesistente ceramica, rinvenuta sia a Punta del fieno sia sul sovrastante Monte Guardia, è rappresentata da frammenti fragilissimi, evidentemente essendo prodotta localmente con impiego delle reperibili argille che si dimostrano tuttora come di cattiva qualità. Si ricorderà che tracce di lavorazioni preistoriche si sono rinvenute sia presso la citata Punta Fieno e il Monte Guardia, sia sulla vicina cresta di Chiaia di Luna nonché in località Bagnovecchio. Pochi reperti provengono invece dalla Piana d'Incenso, situata all'estremità opposta dell'isola.
La Tradizione Omerica e Mediterranea classica vede in genere Ponza quale sede della Maga Circe, Ventotene quale Iisola delle Sirene e ovviamente Parthen o Partenos, oggi Santo Stefano, quale dimora della ninfa Partenope. Una presenza di popolazioni trogloditiche - citate da Strabone - è dimostrata dalle numerose grotte di Palmarola e forse dalle cosiddette grotte Guarini - a picco sulla parete di Chiaia di Luna: queste ultime potrebbero essere però secondo alcuni soltanto "cave di tufo", secondo altri veri e propri ipogei. Nei secoli fra il XIII ed il VII a.C. si collocavano di fatto, sul litorale tirrenico occidentale fra il Tevere e Gaeta, popolazioni definite di volta in volta Enotri, Ausoni od anche Aurunci (Strabone, Diodoro) che facilmente potevano avere contatti con le isole, parzialmente e/o forse provvisoriamente occupandole. Una successiva presenza di Volsci intorno all'VIII-VII secolo sarebbe comprovata dall'attribuzione a questa popolazione (Tito Livio) di alcuni resti di mura ciclopiche sulla scarpata sovrastante le Grotte di Pilato e sottostante la Torre dei Borboni. Non è d'altra parte improbabile che nello stesso periodo le isole fossero luoghi di sosta d'emergenza sulle rotte che, ad esempio, i Calcidesi, provenienti da Neapolis e Ischia, percorrevano per raggiungere le miniere di ferro dell'Elba. Si presume che a quest'epoca risalgano le denominazioni di Pontia e di Pandaterìa-Pandatarìa o Pandarìa che dir si voglia.
L’approdo Romano
Se il secondo trattato siglato con Cartagine nel 348 a.C. consentiva ai Romani soltanto degli approdi per rifornimento, con sosta non superiore ai cinque giorni (Polibio), sappiamo che Ponza, pur senza essere sede di un vero e proprio insediamento militare romano, aveva già nel 313 a.C., in seguito alle guerre sannitiche, lo statuto di colonia (Livio). Il trattato del 306 a.C. con Cartagine escludeva Roma dalla Sardegna e dalla Sicilia, ma non dalla Corsica e dalle isole minori: e Ponza fu certamente base romana durante la prima guerra punica (264 a.C). Rimasti fedeli a Roma durante la seconda guerra punica, a differenza di molti popoli della terraferma, gli abitanti delle Isole ebbero per ricompensa da parte del Senato i cosiddetti “atti di grazia” (Tito Livio).
Nei secoli successivi le isole diventarono patrimonio esclusivo delle famiglie imperiali, con ovvia presenza di strutture edilizie adeguate: e sono ben note le vicende delle condanne all'esilio nell'arcipelago di membri delle famiglie imperiali stesse. Le cospicue tracce di queste strutture consentono peraltro un completo inventario dei materiali localmente disponibili. Tra di essi sono inclusi la vulcanite, la trachite (utilizzata per la realizzazione di blocchetti da costruzioni), la ghiaia proveniente da antichi terrazzamenti quaternari, la sabbia e l’argilla di Le Forna, l’argilla pliocenica di Palmarola, il calcare di Zannone, l'ossidiana di Palmarola, il rame e lo zolfo di Punta Incenso e ancora il rame di Grotta Felice.
Oltre ai resti importanti delle ville costruite prevalentemente in epoca imperiale - site a Santa Maria, Sant'Antonio e Punta Madonna e dotate di oltre trenta cisterne - tuttora bene identificabili sono le Galleria di Chiaia di Luna e quella Giancos-Santa Maria, il Mitreo della Salita Tagliamone, la Necropoli di Bagno Vecchio e le cosiddette Grotte di Pilato. I manufatti di interesse idraulico, che qui interessano specificamente, sono l'acquedotto che parte da Cala dell’Acqua e la diga di Giancos. Purtroppo quasi nulla è identificabile della zona portuale antica di Santa Maria, nascosta dalle costruzioni esistenti nell'area ed in parte forse reperibile nella zona subacquea antistante, mai bene esplorata.
L'acquedotto
a) L'opera di presa
Il sistema di presa che è all'origine dell'acquedotto si trova sul versante occidentale dell'isola, in località significativamente denominata Cala dell'Acqua. La rientranza della costa vede da un lato le attrezzature a picco sul mare della dismessa miniera e, dal lato opposto, un tratto scosceso ove un vasto affioramento di sabbie eoliche cementate poggia su orizzonti di vulcaniti impermeabili. In corrispondenza della porzione basale del complesso sabbioso, delle gallerie disposte su tre livelli drenavano e drenano l'acqua piovana dall’area dell’affioramento, la cui originale estensione è valutabile nell’ordine dei 30-40 ha, ovvero 300000-400000 m2 (Lombardi, 1996). Essendo lo scopo delle gallerie, alte in qualche punto quasi 2.5 m e larghe da 0.6 m a 0.8 m, quello di essere percolate dall’acqua di infiltrazione, la loro superficie interna risulta rivestita nel terzo inferiore dal cocciopesto, abitualmente utilizzato per impermeabilizzare i condotti idrici e costituito da una parte di calce fine, due parti di sabbia o pozzolana, una parte di detrito di mattoni o tegole. Dei tre livelli, il più basso è quasi scomparso, mentre i due superiori sono invece tuttora in parte esplorabili e raggiungono attraverso dei collettori una prima camera di raccordo. Questa camera - che si trova a circa 11.0 m s.l.m. - purtroppo non è esplorabile al momento attuale, in quanto sempre invasa dall'acqua: in passato si è però rilevato (A. Coppa, da Lombardi, 1996) come da tale camera prenda direttamente origine la galleria detta "di adduzione" dell'acquedotto.
Fig. 1: Schema del percorso dell’acquedotto
Per quanto riguarda l'entità della raccolta idrica, ipotizzando una piovosità media annuale non dissimile dall’attuale (650 mm/anno) e un coefficiente di infiltrazione delle sabbie pari a 0.6 - e tenendo inoltre conto della dispersione che precede la raccolta nella prima camera di raccordo – è possibile stimare la portata dell'acquedotto antico nell’ordine delle centinaia di metri cubi giornalieri (300-400 m3/giorno).
b) La galleria di adduzione: primo tratto
Come la citata camera di raccordo, anche il tratto iniziale dell'acquedotto, che attraversa l'isola da Cala dell'Acqua a Cala d'Inferno, non è oggi percorribile perché invaso dall'acqua. Peraltro, esso era stato esplorato e descritto in passato (A. Coppa, da Lombardi, 1996) ed il suo percorso è comunque ricostruibile sulla base della posizione di tre pozzi di aerazione, situati rispettivamente: il primo a circa 100 m dalla costa occidentale, il secondo a 150 m dal primo, in direzione Sud-Sud Ovest, il terzo a 30 m da quest'ultimo in direzione Sud. Il primo pozzo è l'unico oggi chiaramente visibile nella cantina di una casa privata presso Le Forna, il terzo dista ulteriori 30 m dal punto di affioramento della galleria a Cala d'Inferno, sulla costa orientale, a circa 10.5 m s.l.m.. In corrispondenza di questo terzo pozzo, dal condotto principale si distacca una diramazione rivolta a Sud-Est - forse destinata ad una utenza minore (Mattej, 1857) oggi non identificabile - e affiorante a sua volta alla costa.
c) La galleria di adduzione: secondo tratto
A partire dall'affioramento nella Cala d'Inferno, l'acquedotto seguiva la costa orientale dell'isola, in direzione del porto, snodandosi da Nord a Sud lungo le pareti rocciose, con presenza di ‘finestre’ per lo scarico dei materiali di scavo: l'estensione era di circa 2650 m, fino al livello dell'insenatura di Santa Maria. Esso aveva forma ogivale, con fondo e pareti rivestite in cocciopesto, tuttora visibile in vari punti, fino a una altezza di circa 1.50 m. L'andamento del condotto era ‘serpentiforme’ al fine di ottenere un migliore controllo della direzione di scavo (Castellani e Dragoni, 1991). L’escavazione stessa attraversava principalmente due tipi di materiali, uno più scuro (dicco di alimentazione, materiale più friabile e franoso che costituisce ad esempio il cosiddetto “Core”, cioè la macchia a forma di cuore che dà il nome ad una delle cale della costa); ed uno più chiaro (yaloclastite) maggiormente soggetto a corrosione da parte degli agenti atmosferici, ma più stabile in parete. Il canale di fondo (scolo) della galleria di adduzione presenta una pendenza costante (1.00-1.50 per mille) ottenuta, al termine dello scavo, variando lo spessore del cocciopesto e, talvolta, giustapponendo quest’ultimo a sostrati di conglomerato cementizio. In alcuni punti della costa la galleria incontrava fossi di torrenti (ad esempio il Cavone del "Core"): è legittimo pertanto ritenere che per superare tali punti fossero state realizzate strutture del tipo ponti canale, delle quali si è persa la traccia.
Vi è da registrare che nel tratto fra Cala d’Inferno e Cala del "Core" attualmente la costa, a causa dell’erosione, è arretrata di circa 10 m. Inoltre, in corrispondenza delle zone di ‘dicco di alimentazione’ si sono aggiunti dei crolli. Un esempio se ne può vedere subito al di là della zona sud della parete del "Core", ove si trova la bassa entrata a livello del mare di una grotta detta "del Core" o anche "dello Smeraldo". Subito sopra l’entrata della grotta, posta al livello del mare, vi è un foro rotondo, di forma del tutto diversa dalla sezione dell’acquedotto stesso, che è interpretabile come “finestra” per areazione e pulizia dei materiali di scavo della galleria di adduzione. Illuminando dall'interno della grotta la volta e le pareti, si nota come tale foro rotondo corrisponda a un residuo di traccia del condotto che coincide a sua volta per livello e posizione con due aperture - una sulla parete nord e l'altra sulla parete sud della grotta - che rappresentano l'introito a monte e a valle dell'acquedotto interrotto per un tratto. Chiaramente, al tempo dell’escavazione dell’acquedotto, la grotta non esisteva, ovvero trovatasi più in basso rispetto al livello del mare. L’azione corrosiva esercitata dall’acqua sembra aver prodotto il crollo del pavimento dell’acquedotto già in tempi antichi. Immediatamente prossimi ai due introiti descritti infatti, risultano ben visibili due fori appartenenti ad una ‘variante’ della stessa galleria di adduzione, collegati tra loro da una traccia prossima alla voxta. Euesta trabcia rappresenta la parete più interna del rinncvato tratto di galleria, nuovamente eroso dal mare in tempo successivo. Da notare che Apolloni-Ghetti (1968) asserisce che tra il Sec. X e XIII, l’acquedotto era ancora in funzione, cosa che avrebbe potuto determinare l’insediamento dei monaci a S. Maria, proprio sopra la cisterna, probabile punto terminale dell’acquedotto stesso, come si dirà.
La galleria che continua oltre la grotta, procedendo dall'introito descritto, prosegue per circa 390 m prima di raggiungere la zona del cosiddetto Forte del Frontone, dove risulta ostruita. Oltre l’ostruzione, in direzione della zona portualm, la galleria di adduzione ’acquedotto prosegue irregolarmente lungo la costa, qua e là affiorando e riducendosi ad una semplice traccia orizzontale nella roccia, fino a giungere presso la zona degli scogli del Frontone. I questo tratto, in corrispondenza dell’uscita di un ulteriore tratto intra-parietale della galleria, è legittimo ipotizzare la presenza di una fontana, il bordo della quale è andato perduto. Una camera d’acqua, collocata sotto la galleria di adduzione e a essa collegata per il tramite di uno scolo, persiste infatti dietro di essa. Il complesso sembrerebbe sia stato destinato ad alimentare di acqua dolce una peschiera collocata presso gli scogli del Frontone, le cui tracce sono tuttora visibili.
Poco oltre, procedendo in direzione Sud verso la zona dell’antico poato, l'acquedotto incontrava un “fosso” il cui orientamento è perpendicolare a quello della galleria di adduzione. Il fosso, probabilmente sorpassato per il tramite di un ponte-canale, presenta tracce di una regolarizzazione artificiale del letto la cui funzione doveva essere quella di accogliere le portate di piena e di salvaguardare quindi la stabilità dello ponte-canale stesso. Di tale ipotizzata struttura non vi è traccia. Se ne può dedurre l'esistenza da esempi di altra sede, si può anche ritenere che bon analoga opera d'arte fossero attrezzati altri due passaggi di fossi a livello della spiaggia detta "del Frontone". In questo tratto, la costa cambia radicalmente aspetto, risultando la parete assai arretrata rispetto alla linea di costa. In tale tratto, probabilmente, l'acquedotto proseguiva ‘allo scoperto’ su strutture realizzate a ridosso della parete rocciosa posta alle spalle della spiaggia per ritornare in galleria una volta superata la spiaggia. A ridosso della parete, infatti, è ancora possibile rinvenire tracce di opere in conglomerato cementizio. Del successivo tratto della galleria di adduzione è poi possibile osservare varie tracce, tra le quali una finestra aperta sulla parete.
Penetrando nella galleria, nel contesto roccioso del promontorio che separa la spiaggia del Frontone dalla località di Santa Maria, il Lombardi (1996) ha recentemente esplorato l'ultimo tratto dell'acquedotto. Questo, di lunghezza pari a 150 m, si sviluppa in direzione Nord-Sud. Dalla quota di circa 8.5 m s.l.m., esso raggiunge, dopo un centinaio di metri un ambiente di dimensioni non chiaramente definibili, essendo pieno di fango. “Sembra – scrive il Lombardi – vi sia un salto di quota tra la galleria e l’ambiente in questione”. L’acquedotto devia poi verso destra, quindi verso sinistra cioè in direzione Nord-Sud e termina dopo una trentina di metri contro “un riempimento artificiale, realizzato con grossi blocchi che è da escludersi derivi da sfornellamento della galleria”. Questo punto può definirsi corrispondente all'insenatura di Santa Maria, a poca distanza dai cosiddetti “Grottoni", che dalla località prendono il nome, e che sono di fatto una grossa cisterna a cinque gallerie, rivestite di cocciopesto. La capacità della cisterna è di circa 3000-4000 m3, pari a circa dieci giorni di deflusso dell’acquedotto.
Considerando la quota di partenza della galleria di adduzione (11 m s.l.m.), quella allo sbocco a Cala Inferno (10.5 m s.l.m.) e quella alle spalle di Santa Maria (8.5 m s.l.m.), nonché la distanza coperta e la pendenza media del canale di scolo della galleria stessa, si può concludere che l’acquedotto raggiungesse Santa Maria ad una quota di circa 8.0 m s.l.m., ovvero che il dislivello totale coperto dalla galleria di adduzione fosse di circa 3.0 m. Quanto precede porta a escludere un ulteriore decorso dell'acquedotto al di sopra della struttura di Giancos, come si riteneva in passato (Amici, 1986), dato che la struttura stessa, che sarà descritta più avanti come diga, si eleva a circa 14.0 m s.l.m.
L’acquedotto, pertanto e verosimilmente terminava, alle spalle del presunto porto antico di Santa Maria. I cosiddetti “Grottoni di Santa Maria” ne sembrerebbero oggi il terminale più logico, data la loro grande capacità: anche se è stato soltanto ipotizzato e non comprovato un preciso raccordo tra la parte terminale della galleria ed i Grottoni stessi.. Scrive infatti il Lombardi descrivendo i Grottoni che “in una galleria, è segnata, al fondo, una struttura muraria che potrebbe corrispondere al sistema di arrivo dell’acquedotto, provvisto di vasca di dissipazione dell’energia”.
La diga di Giancos
Una struttura di costruzione romana - ben visibile dalla rada di S.Antonio - si trova situata trasversalmente dietro le case di Giancos e alla parte terminale del fosso dello stesso nome, che è di fatto una valletta che dalla Linguana e soprattutto dai Conti scende verso la spiaggia. La funzione di tale costruzione è stata nel tempo oggetto di una certa attenzione ed ha dato luogo alla formulazione di ipotesi diverse. La si è infatti voluta identificare (Tricoli, 1855) come un ponte che scavalcasse la valletta, costituendo l'unica possibile via di collegamento tra la zona più prossima al porto attuale - località S.Antonio - e la galleria romana per S.Maria. Secondo altri, si tratterebbe invece di una porzione di un tempio dedicato a Poseidone, mentre più recentemente è stata ritenuta struttura di supporto per un tratto ulteriore dell’acquedotto (Amici, 1986) che da Cala dell’Acqua si sarebbe spinto fino alla zona del porto attuale. Molto recentemente tuttavia (Lombardi e Livi, 1994; Lombardi, 1996) è stata con buone ragioni ipotizzata la funzione di diga "ad arco"; tipologia quanto mai raro ma non unica in epoca romana. Il manufatto è ben visibile dalla strada per chi, provenendo dalla zona del porto attuale, una volta oltrepassata la galleria di Sant'Antonio ne percorra il tratto compreso tra le case di Giancos e il mare, avviandosi alla seconda galleria detta di Santa Maria. Come si è detto, il manufatto stesso si pone trasversalmente al fosso detto a sua volta "di Giancos", ancorandosi bilateralmente ai rilievi rocciosi terminali del fosso stesso. Se ne può valutare l'altezza sul fondo del vallone a 12.0-13.0 m s.l.m., per una lunghezza in corrispondenza del coronamento di 32.0 m e uno spessore di 5.0 m. Le fondazioni della struttura, dal poco che oggi se ne può vedere, insistevano direttamente sul terreno vulcanico di fondo, impermeabile. L’invaso sotteso dalla diga è oggi colmo di terra, in parte coltivata.
Fig. 2: Ricostruzione ipotetica della visione della diga di Giancos da terra
Percorrendo la sommità del manufatto è possibile riconoscerne la struttura ad arco con convessità a monte. La particolare conformazione della struttura risulta evidente quando si possa penetrare all’interno di essa mediante una galleria, alta 3.3 m e larga 0.9 m, che l’attraversa da un'estremità all'altra. Se nei tratti estremi, più vicini alle spalle, la galleria ha andamento rettilineo, nel tratto intermedio - lungo circa 9.0 m - descrive un arco ad ampio raggio con convessità rivolta a monte. Il pavimento è rivestito, così come le pareti, di coccio pesto ed è in pendenza verso la zona centrale della galleria stessa. Ai due lati della galleria vi sono due ‘pozzetti’ verticali di forma circolare, che probabilmente raggiungevano il coronamento e si aprivano verso monte in un punto più in basso del coronamento stesso, fungendo da veri e propri scolmatori dove defluivano le acque del “troppo pieno”. Nella parte centrale della galleria, nel punto nel quale la pendenza raggiunge la quota più bassa, esiste un pozzetto rettangolare, oggi pieno di terra; di esso, non si conosce oggi la profondità effettiva, ma il Lombardi, sulla base delle misure ipotizzate e parzialmente controllate, ritiene che esso raggiungesse i 5.0-6.0 m e che attraverso una opportuna canalizzazione, raggiungesse il mare. La diga si trova oggi a circa 70 m dal mare e sottende a monte un bacino imbrifero valutabile in 14 ha. Accettando nuovamente come valida per l'epoca di Augusto la piovosità media annuale attuale di Ponza, con un coefficiente di scorrimento del 50%, l’invaso poteva egregiamente raccogliere una media di 45000 m3 all'anno. Per quanto concerne infine l’utenza di tale raccolta d’acqua e le prese stesse per questa utenza, nulla si può affermare, dato che non ci è giunto alcun reperto né alcuna indicazione in merito..
Conclusione
La illustrata rilevanza degli impianti idraulici realizzati in epoca romana nell’isola di Ponza non può che portare all’accettazione dell’ipotesi - da alcuni formulata (Lombardi, 1996) - di una sproporzione fra il rifornimento che esse garantivano e la popolazione presente all'epoca. Se infatti l'esistenza delle grandi ville imperiali giustifica l'esistenza delle imponenti cisterne, topograficamente corrispondenti alle ville stesse, essa non rende logica la presumibile quantità media d’acqua portata dall'acquedotto che, percorrendo gran parte dell'isola, scende fino al livello della zona portuale a suo tempo esistente. Analogamente non ne viene resa plausibile la collocazione di uno sbarramento, conformato come una vera e propria diga, identificata come tale soltanto negli ultimi anni e situata nell'immediato entroterra della zona portuale archeologica stessa. Le ipotizzabili quote di utilizzo dell’acqua proveniente dall’acquedotto e invasata dalla diga portano a ritenere che essa fosse destinata al porto romano e solleva quindi la questione della sua destinazione probabilmente militare e delle dimensioni delle sue infrastrutture.
Bibliografia sommaria
Apolloni-Ghetti, F.M. (1968): ‘L’Arcipelago Pontino nella storia del medio Tirreno: Cronache delle Isole di Roma fino al secolo decimottavo’. Fratelli Palombi Editori, Roma.
Castellani, V.; Dragoni, W. (1991): ‘Opere arcaiche per il controllo del territorio, gli emissari sotterranei artificiali dei laghi Albani’. In AA.VV. ‘Gli etruschi maestri di Idraulica’, Perugia.
Lombardi, L. (1996): ‘Ponza: Impianti idraulici romani’. Fratelli Palombi Editori, Roma.
Mattej, P. (1857): ‘L’arcipelago Ponziano: memorie storiche artistiche’. Tiberio Pansini tipografo, Napoli (ristampa a cura di G.Mazzella e S.Mazzella, Ponza 1991).
Le figure sono opera di L. Lombardi