INFLUENZA DELLA FIBRILLAZIONE ATRIALE SUL DECLINO COGNITIVO
La demenza rappresenta il più importante disturbo neurologico di maggiore riscontro nella popolazione anziana. La sua enorme diffusione giustifica il termine “Epidemia del Terzo Millennio” ed è l’allarme che i sistemi sanitari internazionali stanno lanciando, in questi ultimi anni, in quanto la demenza è causa diretta di disabilità in età avanzata, nonché una delle problematiche mediche più urgenti da affrontare1.
L’incremento esponenziale della sua incidenza è conseguenza diretta dell’invecchiamento della popolazione. Pertanto, nel contesto attuale di allungamento della vita media, prevenire la demenza significa prevenire l’impatto negativo sulla qualità di vita che essa comporta a livello sociale e personale. L’identificazione dei fattori di rischio per lo sviluppo di disordini cognitivi disabilitanti rappresenta, ad oggi, la sfida di maggiore interesse per gli anni a venire, al fine di definire il migliore approccio preventivo1.
Negli scorsi anni è stata riscontrata un’associazione tra alcuni fattori di rischio quali l’ipertensione arteriosa, la malattia aterosclerotica, il diabete mellito tipo II (DM II), la sindrome metabolica (MS), l’obesità, l’ipercolesterolemia ed il rischio di sviluppare demenza sia su base vascolare ( Vascular Disease, VaD), sia su base degenerativa. Nella letteratura scientifica dell’ultimo decennio, infatti, i fattori di rischio cardiovascolari sono stati associati anche alla demenza di Alzheimer (Alzheimer Disease, AD)2-3.
Tale patologia, storicamente considerata ad esclusiva patogenesi neurodegenerativa, è attualmente descritta da autorevoli ricercatori come un “disordine primariamente vascolare”4.
Alcuni tra gli elementi a supporto di tale ipotesi sono: l’ampia sovrapposizione dei fattori di rischio tra AD e VaD, l’uso di farmaci che migliorano la perfusione cerebrale dimostratisi efficaci anche sullo stato cognitivo dei pazienti affetti da AD, l’uso di particolari indagini diagnostiche precliniche per la determinazione dello stato di perfusione di specifiche aree cerebrali per predire lo sviluppo della malattia dementigena. E, sebbene i dati non siano sempre lineari, si conferma con sicurezza che vi sia un aumento del rischio di deficit cognitivo quando l’individuo è portatore di alcune condizioni che compromettono la funzione cardio e cerebrovascolare4.
Di recente, è stato preso in considerazione un importante fattore di rischio per lo sviluppo di deficit cognitivo che sembrerebbe essere la fibrillazione atriale (Atrial Fibrillation, AF), la quale ha un’alta incidenza proprio nella popolazione anziana. Il rischio di morbilità e mortalità è nettamente aumentato in corso di AF, poiché aumenta di 4-5 volte il rischio di ictus cerebri tromboembolico.
Tuttavia, oltre alla formazione di veri e propri trombi in atrio e in auricola sinistra, la AF sarebbe responsabile anche di una serie di microembolie cerebrali silenti e della riduzione della gittata cardiaca che, provocando ipoperfusione cerebrale, aumenterebbe il rischio di un progressivo declino cognitivo. Nel paziente anziano, la cui perfusione cerebrale è già ridotta a causa delle modificazioni correlate con l’età, un’ulteriore riduzione di flusso porterebbe ad una “crisi energetica neuronale” con ridotta sintesi di ATP e stress ossidativo cellulare. Tale meccanismo sarebbe responsabile della produzione e della sintesi di proteine aberranti, della disfunzione dei neurotrasmettitori, della produzione abnorme di precursori amiloidi ed iperfosforilazione della proteina tau, causa delle ben conosciute lesioni neurodegenerative dell’AD3.
Numerosi sono ormai gli studi in letteratura che hanno dimostrato una significativa associazione tra AF e demenza. In particolare, già uno studio del 2006, pubblicato su J Stroke Cerebrovasc Dis, ha esaminato l’associazione tra AF e performance cognitiva, in soggetti con altri fattori di rischio cardiovascolari. Dopo aggiustamento per età, educazione, fattori multipli di rischio cardiovascolare e malattia cardiovascolare, i pazienti con AF hanno presentato livelli medi di performance cognitiva significativamente più bassi rispetto a pazienti in ritmo sinusale5.
Successivamente, un recentissimo studio clinico, pubblicato su European Heart Journal, Agosto 2008, del Dipartimento di Neurologia dell’Università di Munster, in Germania, ha evidenziato tramite nuove metodiche di imaging, come la 3-T RMN, la presenza di atrofia ippocampale e di altre alterazioni cerebrali patognomoniche per la demenza su base degenerativa, in pazienti con AF e deficit cognitivi, in assenza di eventi cerebro-vascolari pregressi (ictus cerebri e TIA). E’ ancora in corso di studio, però, il meccanismo attraverso il quale la AF, attivando la cascata della coagulazione, può causare tali alterazioni cerebrali tipiche della demenza degenerativa. Tuttavia, ormai, sono sempre più numerosi gli studi scientifici che ne avvalorano l’associazione e sempre crescenti evidenze statistiche tendono ad associare la AF con lo sviluppo e la progressione proprio della AD6.
Pertanto, la prevenzione dell’insorgenza di tale aritmia, nonché un suo più corretto trattamento migliorerebbero la prognosi anche dei pazienti con AD6.
Queste ultime acquisizioni scientifiche, se dimostrate valide, ci permetterebbero di intervenire con una terapia mirata, non solo per la correzione dei fattori di rischio modificabili già noti, qualora presenti, ma anche per la prevenzione di tali patologie come nuova strategia preventiva delle forme di demenza nella popolazione anziana.
Stimolati dal crescente interesse verso l’associazione tra AF e demenza, considerando che rappresentano patologie di grande rilevanza epidemiologica, soprattutto nella popolazione geriatrica, abbiamo voluto investigare il rischio di sviluppare deficit cognitivi in pazienti con tale anomalia del ritmo e valutare l’eventuale beneficio del trattamento precoce con lo studio delle maggiori funzioni cerebrali primariamente compromesse.
Con tali premesse il nostro interesse è stato rivolto a dimostrare che la AF è associata a disfunzioni cognitive e che la prevenzione dell’insorgenza di tale aritmia nonché un suo più corretto e tempestivo trattamento migliorerebbero la prognosi dei pazienti con declino cognitivo.
Lo studio è stato condotto presso il Dipartimento di Scienze Cardiovascolari, Respiratorie, Nefrologiche, Anestesiologiche e Geriatriche, dell’Azienda Policlinico Umberto I, “Sapienza” Università di Roma. Sono stati selezionati pazienti afferenti alle strutture geriatriche di età compresa tra i 56 ed i 94 anni, di entrambi i sessi. Sono stati inclusi nello studio 26 pazienti a cui è stata riscontrata AF senza esiti di patologie cerebrovascolari accertate (non pregresso ictus cerebri né TIA), e 31 pazienti non fibrillanti, arruolati come gruppo di controllo. Inoltre, i pazienti sono stati poi selezionati in base alla presenza o meno di altri fattori di rischio cardiovascolari quali: ipertensione arteriosa, dislipidemia, diabete mellito, fumo, ect, in modo da avere un campione rappresentativo in quanto a comorbilità della popolazione anziana ed il più possibile omogeneo. Sono stati esclusi pazienti con anamnesi positiva per pregresso infarto acuto del miocardio, scompenso cardiaco, ateromasia carotidea caratterizzata da placca di tipo instabile. Ed inoltre, sono stati esclusi pazienti con diagnosi di demenza sia su base vascolare che degenerativa già accertata. Tutti i pazienti sono stati poi sottoposti ad una Valutazione Multidimensionale Geriatrica Globale (VMD) per studiare, tramite l’ausilio della testitica specialistica di I livello, MMSE (Mini Mental State Examination) e GDS (Geriatric Depression Scale) l’ambito cognitivo e psico-affettivo, al fine di escludere pazienti con forme latenti o iniziali di declino cognitivo e di depressione. Mentre i pazienti selezionati per essere sottoposti a cardioversione elettrica (CVE) sono stati anche studiati tramite i test neuropsicologici, per la valutazione cognitiva di II livello. In particolare, sono state utilizzate le seguenti scale di valutazione neuropsicologica (VNP): il test delle matrici attenzionali numeriche per la valutazione dell’attenzione selettiva visiva; il Trail Making test A e B per esplorare la capacità di shifting attenzionale (di selezione consecutiva); test di memoria di prosa o raccontino di Babcock per la determinazione della rievocazione immediata (RI) e della rievocazione differita (RD) di un testo; test di memoria verbale o 15 parole di Rey scelto come compito di memoria verbale per la valutazione della RI e RD di una lista di 15 parole; test di fluenza verbale per categorie fonetiche-semantiche e per associazione libera di parole per la determinazione dell’ampiezza del magazzino lessicale, delle capacità di accesso al lessico e dell’organizzazione lessicale. Il Follow-up ha previsto controlli della testitica prima della CVE e a distanza di 3 mesi dalla stessa procedura.
Dopo aggiustamenti per età, educazione, fattori multipli di rischio cardiovascolare e malattia cardiovascolare, i pazienti affetti da AF hanno presentato al MMSE livelli medi di performance cognitiva, significativamente più bassi, rispetto ai pazienti con ritmo sinusale. Infatti, la media dei risultati ottenuti ai test di I livello ha evidenziato un disturbo cognitivo latente in alcuni soggetti, anche in assenza di anamnesi positiva per problematiche cognitive e/o di memoria. In particolare, il risultato medio, corretto per età e scolarità, ottenuto alla scala valutativa globale del MMSE è stato di 26,85±1,65 per il gruppo dei fibrillanti contro 27,56±1,47 per il gruppo dei non fibrillanti (p<0,05). I pazienti con AF, selezionati per essere sottoposti a CVE, sono stati studiati anche con la VNP, prima e dopo CVE. Tali pazienti hanno mostrato una più ridotta performance cognitiva riguardo a specifiche capacità: quali l’attenzione selettiva, la memoria e l’organizzazione visiva, la ricerca e l’esecuzione, la memoria verbale e la funzione di analisi.
Il nostro studio dimostra l’ampia necessità di un trattamento più incisivo, come la CVE, per quelle patologie, quali la AF, che compromettono lo stato di salute mentale proprio nei soggetti anziani. I risultati, infatti, non solo hanno mostrato un’associazione statisticamente significativa tra AF e declino cognitivo in fase iniziale, ma ci hanno confermato che l’intervento precoce ristabilizza livelli di normalità e rallenta l’eventuale progressione verso forme più avanzate di declino cognitivo. Considerati i risultati da noi ottenuti possiamo concludere dichiarando che non solo la AF è fortemente associata al rischio di sviluppare deficit cognitivi, come già dimostrato dai maggiori studi internazionali, ma addirittura assume il ruolo di fattore di rischio pro-demenza in assenza di ictus cerebri clinicamente evidenti.
BIBLIOGRAFIA:
Dott.ssa Alessia Bellomo
Dipartimento di Scienze Cardiovascolari, Respiratorie, Nefrologiche, Anestesiologiche e Geriatriche. Università di Roma “Sapienza”