LA NEUROPSICHIATRIA, OGGI:
TRA GENETICA, EVOLUZIONE E...FOLLIE BIOLOGICHE
Dr. Francesco Belli
Docente di Immunologia Università “La Sapienza”, Roma
Corso di Laurea in Biotecnologie
Gli studi più recenti e le acquisizioni maggiormente significative, nel campo delle patologie neurologiche e psichiatriche, hanno in moltissimi casi risolto la dicotomia fra forme già separate per la presenza e la dimostrazione, o al contrario l'esclusione e la non conoscenza di un substrato genetico, che la più parte appare invece manifestamente connessa, dall'eziopatogenesi, all'evoluzione, alle manifestazioni cliniche, con alterazioni congenite o acquisite oggi documentabili nel DNA. Un discorso analogo può essere fatto riguardo i rapporti fra neuro-psicopatie e sistema immunologico. Parliamo pertanto di un nuovo fronte di studi, l'immunogenetica delle malattie del sistema nervoso umano, le quali si rivelano in una prospettiva nuova e talvolta rivoluzionata rispetto alle conoscenze convenzionali. Dedichiamo questa breve rassegna all'argomento, nell'ambito dell'annuale Giornata della Cultura dell' Accademia Lancisiana: i progressi delle neuroscienze ben si sposano con un più vasto tessuto culturale, in quanto, come illustreremo, alcune forme cointeressano nell'eziopatogenesi e nello sviluppo clinico aspetti attuali e, forse, futuri dell'evoluzione della nostra specie (Corea di Huntington), ma anche di molte specie animali, confrontando fisiologia e patologia neurologica al di là della biologia umana; altre, invece, (schizofrenia) suggeriscono ulteriori, insospettate caratteristiche alla convenzionale struttura del genoma.
Esempi di neuropatie in cui sono state di recente dimostrate correlazioni con alterazioni geniche. Riportiamo qui di seguito alcune importanti patologie del sistema nervoso in cui sono state dimostrate negli ultimi anni chiare correlazioni con alterazioni immunologiche e genetiche, queste ultime non solo intese come mutazioni di singoli o gruppi di geni, ma consistenti anche in variazioni dei sistemi di regolazione insiti nel DNA non-codificante o in meccanismi epigenetici e dunque dall'interazione fra genoma e ambiente.
Morbo di Alzheimer. In numerosi casi di morbo di Alzheimer nei neuroni si accumula una proteina, detta "peptide-beta-amiloide", che conduce la cellula progressivamente alla morte; la proteina deriva da un'altra più lunga, "amyloid beta precursor protein, APP", scissa da enzimi specifici in due punti. I peptidi corti sono quelli che invadono i neuroni. Sono state descritte diverse mutazioni del gene che codifica per uno dei due enzimi: una determina la trascrizione di una proteina che taglia APP più agevolmente, stacca un maggior numero di frammenti corti che si accumulano nei neuroni; nei portatori della mutazione vi è un incremento di frequenza di m. di Alzheimer; un'altra mutazione comporta l'effetto opposto, la proteina breve non si accumula e la frequenza di Alzheimer ma anche di altre forme di demenza senile è bassissima: dunque un esempio di mutazione correlata con un effetto protettivo. Va detto che entrambe le mutazioni sono complessivamente rarissime, solo quella favorevole è relativamente più frequente fra gli Islandesi (come è emerso nel progetto di sequenziamento a tappeto del loro genoma, oggi interrotto), lo 0.5% della popolazione, in cui la malattia sotto gli 85 anni di età incide cinque volte di meno rispetto ai non mutanti. Ricordiamo comunque le caratteristiche della popolazione islandese: scarsa, chiusa ad apporti genetici dall'esterno, esogamia quasi assente per secoli, le condizioni ideali per la comparsa e il mantenimento di una mutazione rara.
Autismo. Vi sono implicazioni genetiche complesse, di diversa natura, che coinvolgono anche i familiari; poco si conosce su SNPs di singoli geni, mentre sono state analizzate in ampie casistiche le "copy number variant", CNV, mutazioni quantitative con la formazione di duplicati genici da 0 a n copie: utilizziamo nuove tecnologie di sequenziamento e software che scandagliano in poco tempo milioni di sequenze di DNA, rilevando tratti uguali e ripetuti. Un buon numero di CNV è relativamente frequente negli autistici ma anche nei loro familiari e in pazienti con diversi problemi cognitivi, circa l' 8%, mentre nella popolazione "normale" l'incidenza di questi stessi marcatori è < 1%. In ben il 92% di bambini autistici, tuttavia, ignoriamo, pur sospettandole, diverse alterazioni genetiche.
Ma il dato più interessante è un altro: fra i geni interessati dalle mutazioni quantitative tipo CNV, quattro sono stati ben caratterizzati: si tratta dei geni SHANK2, SYNGAP1, DLGAP2 e DDX53-PTCHD, che svolgono nella vita pre-natale, mediante la codifica e la regolazione di proteine specifiche, importanti funzioni nell'adesività fra neuroni e strati di neuroni, soprattutto nella corteccia e nella formazione delle sinapsi. La genetica oggi è supportata da tecniche che combinano l'imaging e marcatori molecolari specifici per i neuroni corticali. Prima della nascita, nei bambini autistici, avviene una disorganizzazione della disposizione fra singoli e strati di neuroni e dell'architettura cellulare della corteccia prefrontale e temporale; il dato anatomico più evidente è l'interruzione della normale formazione pluristratificata della corteccia, con slivellamento della stessa, particolarmente nelle aree preposte alla comunicazione e al linguaggio. Pertanto, durante la gestazione, nel cervello del nascituro si verifica una mancata differenziazione e una disorganizzazione degli strati corticali di aree funzionali critiche: sono sicuramente coinvolti geni preposti alla formazione di detti strati, quelli suddescritti ma sicuramente altri da individuare, nè sappiamo se oltre al danno genetico le alterazioni morfo-funzionali si sviluppino anche con il contributo di altre cause, ma è lecito supporre di si. Aldilà delle correlazioni fra autismo e mutazioni geniche rilevate, rimane comunque la conoscenza del ruolo di geni specifici nella costituzione della normale architettura di regioni chiave della corteccia cerebrale: forse si può iniziare a far luce sull'origine e lo sviluppo, anche su base molecolare, di aspetti cognitivi della nostra specie.
Sindrome bipolare. Indagini di citologia sperimentale iniziano a far luce anche su questa frequente sindrome neuro-psichica e le alterazioni genetiche correlate; cellule epiteliali mature di persone bipolari e non sono state trasformate in staminali pluripotenti indotte e quindi in neuroni: quelli derivati dai bipolari, rispetto ai sani, presentano un'iperespressione di geni che codificano per molecole proteiche di recettori e complessi situati sulle membrane neuronali, specifici per l'invio e la ricezione di segnali elletrochimici di comunicazione. Le membrane dei neuroni di bipolari presentano pertanto una maggior concentrazione recettoriale, ma anche un numero maggiore e differenze di struttura dei canali ionici implicati nel colloquio intercellulare Ca-dipendente, sia nello sviluppo pre-natale che nelle funzioni a maturazione raggiunta; su questi agiscono le terapie a base di litio impiegate nei pazienti bipolari e le differenze strutturali e funzionali riscontrate potrebbero spiegare anche la diversa risposta ai farmaci. Si presenta pertanto un ampio ventaglio di situazioni connesse ad alterazioni di geni specifici, alcune delle quali contribuiscono anche ad una diversificata risposta terapeutica. Ulteriori osservazioni indicano che nella regolazione di detti geni intervengono anche micro-RNA (miRNA), di cui sono state rilevate profonde modificazioni nei pazienti bipolari.
Neuroblastoma. In questo che è tra i più gravi tumori del sistema nervoso, sono state individuate complesse interazioni molecolari anche di carattere genetico: al centro vi è una proteina, la p53, un noto fattore di trascrizione che regola il ciclo cellulare e agisce come soppressore dei tumori in formazione; il gene, TP53, si trova nell'uomo sul cromosoma 17. L'inattivazione della p53 incide sulla sopravvivenza cellulare ed è stata descritta in molti tumori umani, tra cui il neuroblastoma; tuttavia, sia le cellule staminali embrionali che quelle neoplastiche, fra cui gli elementi del neuroblastoma, conservano il gene nella forma originaria. E' stato individuato un miRNA, 380-5p, che inibisce l'espressione della p53, mediante una sequenza conservata in UTR: l'inibitore è presente nelle cellule staminali embrionali di topo, nel neuroblastoma e correla con lo sviluppo del tumore e con la crescita di una forma tumorale associata all'oncogene MYCN. Ancora, un'esaltata espressione di miRNA-380-5p, in unione all'oncoproteina attivata HRAS, determina la trasformazione cellulare, il blocco dell'invecchiamento cellulare indotto da oncogeni e la degenerazione neoplastica. Al contrario, l'inibizione di miRNA-380-5p favorisce l'induzione della p53 sia nelle cellule staminali embrionali che in quelle di neuroblastoma, nonchè la ripresa dell'apoptosi altrimenti bloccata. Risultati analoghi sono stati ottenuti anche in neuroblastomi indotti di topo. Pertanto, della già conosciuta p53, esiste un complesso sistema di regolazione, attivazione-inibizione, mediante molecole e nuovi fattori individuati nel genoma come miRNA: sono presenti nelle cellule staminali, ma anche in un importante tumore del sistema nervoso, il neuroblastoma, spontaneo o indotto, la cui crescita cellulare è correlata ai nuovi meccanismi scoperti di controllo della p53, fattore di trascrizione al centro della regolazione del ciclo cellulare e della soppressione tumorale.
Sclerosi multipla (MS). E' una patologia autoimmune ad origine multifattoriale, che si sviluppa in soggetti geneticamente predisposti, in condizioni ambientali favorevoli all'insorgenza della malattia stessa (variabilità geografica), con il concorso di fattori fortemente sospetti - radiazioni, inquinamento, infezioni virali - o totalmente sconosciuti. MS ha un'alta familiarità: i parenti dei pazienti colpiti presentano un rischio di sviluppare la malattia 20-50 volte superiore rispetto ad una famiglia indenne e i gemelli monocoriali la contraggono insieme in un quarto dei casi.
Determinati e differenziati substrati genetici, in maniera diversa a seconda degli individui, condizionano variegate reazioni immuni, diverse modulazioni delle stesse fino a quadri chiaramente alterati; queste situazioni immunogenetiche si accompagnano talora ad una particolare vulnerabilità soggettiva del sistema nervoso centrale e modificata capacità rigenerativa. Sono stati cercati negli ultimi anni i cosidetti "geni di suscettibilità" per MS, con risultati incostanti e non definitivi; sicuramente coinvolti sono i geni del sistema HLA (nell'uomo il legame genetico fra malattia e mutazioni dei loci HLA-DR e DQ è ormai acquisito), tant'è che il rischio di contrarre la malattia varia dal 10 al 60 % in portatori di determinati aplotipi. Come si è visto soprattutto nel modello animale della MS, l'encefalomielite autoimmune sperimentale (EAE), mutazioni (perlopiù SNPs, "single nucleotide polimorphisms") di singoli o più geni nell'ambito di specifici aplotipi condizionano diverse fasi della risposta immune: dalla presentazione degli antigeni alle numerose cellule APC del tessuto nervoso, generiche (macrofagi, c.dendritiche) e specifiche (microglia, astrociti), all'attivazione e sensibilizzazione delle cellule T, alla selezione di cloni Cd4+ o Cd8+, all'innesco di una reazione autoimmune verso molecole delle guaine mieliniche e altre strutture del sistema nervoso. Cellule effettrici diventano cloni citotossici autoreattivi e cellule B specifiche anticorpopoietiche.
Rimangono sostanzialmente sconosciute le cause iniziali della MS: ampio credito ha oggi l'ipotesi che l'esposizione ad antigeni virali, quali quelli di HH6 ed EBV, attraverso un mimetismo molecolare, caratterizzato da epitopi comuni a proteine espresse dalle guaine mieliniche e altre strutture nervose, attivi e sensibilizzi cellule T, con l'interposizione di specifiche e particolari molecole HLA di I classe per i Cd8+ o II per i Cd4+, cellule T che possono autoattivarsi verso molecole self.
In definitiva dai linfociti autoreattivi scaturisce, in determinate condizioni genetiche e ambientali, la reazione autoimmune alla base della sclerosi multipla; cellule Th1 sono implicate nella patogenesi e nella complessa risposta infiammatoria che caratterizza le prime fasi della malattia: gamma-interferon e altre citochine Th1-correlate mostrano alti livelli e, se somministrate all'animale da esperimento, aggravano il quadro sintomatologico.
Un ulteriore filone di indagini che mette in relazione genetica e immunologia riguarda i linfociti regolatori, le cui variazioni di numero o funzionalità sono indicate nella patogenesi di numerose malattie autoimmuni, tra cui MS e EAE nel topo; mutazioni del gene FoxP3, che codifica per un fattore di trascrizione fondamentale in una classe di linfociti regolatori, sono state trovate nelle patologie suddette e in disordini linfoproliferativi. Questo non è che un aspetto di una materia particolarmente complessa, oggi in continua evoluzione: le alterazioni disregolatorie, in particolare dei linfociti T, nella patogenesi delle malattie autoimmuni. Stiamo imparando a conoscerere nuovi e numerosi subsets linfocitari con funzioni regolatorie, le cui alterazioni funzionali sono riscontrabili nelle fasi iniziali di un disordine autoimmune, mentre il ripristino di una funzione interrotta, terapeuticamente indotto, coincide col miglioramento clinico. Per alcune di queste "nuove" cellule abbiamo individuato marcatori specifici di regolazione e le mutazioni correlate: ci riferiamo alle Th17, Cd4+Cd25+high, le già citate Cd4+Cd25+highFoxP3+, Cd4+Cd25+highFOXp3+Cd39+, queste ultime mediante attività ATPasica che antagonizza la funzione pro-infiammatoria dell'ATP.
Sono state pertanto dimostrate alterazioni a carico dei sistemi di regolazione della risposta immune, presumibilmente coinvolte nello sviluppo della malattia; le cellule Cd4+ regolatorie sono diminuite o, più spesso, deficitarie nelle funzioni di controllo e regolazione; SNPs e altre mutazioni sono sempre rintracciabili nei geni che codificano per marcatori cellulari specifici.
E' su questi presupposti che viene impostata la terapia della MS con farmaci immunologici convenzionali, beta-interferon o innovativi, biologici, come il Natalizumab, anti-integrina VLA-4, che inibisce la migrazione linfocitaria: in tutti i casi le terapie praticate antagonizzano la fase infiammatoria. In uno studio condotto presso l'Ospedale "S.Camillo" di Roma, congiuntamente dal Laboratorio di Virologia e dal centro per la Sclerosi Multipla, su un gruppo di 19 pazienti seguiti fino a 48 mesi dalla diagnosi, trattati con beta-interferon e, in 6 casi non-responders, Natalizumab, è stato dimostrato che fra i 6-12 mesi dall'inizio della terapia inizia a ridursi la reazione infiammatoria (decremento dei Cd3+ e Cd4+) e l'azione effettrice delle cellule anticorpopoietiche (riduzione dei Cd19+), mentre aumentano le cellule citotossiche sia naturali - Cd16+Cd56+ - che sensibilizzate - Cd8+ - (dati in corso di pubblicazione). Questi risultati si consolidano e irrobustiscono dopo 18 mesi di trattamento.
In definitiva la MS può essere dovuta a difetti numerici e/o funzionali dei sistemi di immunoregolazione, in particolare sono coinvolte le cellule Cd4+ nelle loro specificità regolatorie, che risultano appunto carenti o malfunzionanti. Ruolo centrale hanno le cellule che esprimono il fattore di trascrizione FoxP3, del cui gene sono state individuate diverse varianti e mutazioni, peraltro di difficile correlazione clinica e non semplice marcatura, quindi sicuramente sottostimate. Una cellula Cd4+ agisce in senso regolatorio o effettrice, pro o anti-infiammatorio, acquisendo markers differenti e percorrendo un cammino differenziativo in un senso o nell'altro, a seconda dell'ambiente citochinico in cui si trova e matura. I marcatori possono venire trascritti in diverse forme, conseguenza di mutazioni geniche, che si aggiungono a precedenti variazioni che, come abbiamo visto, riguardano il sistema HLA. La disregolazione determina, all'esordio, in fase acuta e nelle riaccensioni un prevalere dei cloni autoreattivi da cui si sviluppa la malattia autoimmune e un'iperproliferazione di cellule e mediatori pro-infiammatori. beta-interferon stimola la produzione di citochine anti-infiammatorie da parte di cellule APC che, a loro volta, amplificano i cloni regolatori già esistenti o differenziando i Cd4+ in nuovi subsets regolatori.
Un'ultissima segnalazione riguarda una ricerca italiana, che ha individuato una nuova variante genica di suscettibilità: si tratta di una mutazione del gene CBLB, associata ad un maggior rischio di sviluppare la malattia; il gene produce una proteina pleiotropica, soprattutto in campo immunologico, che modula l'attivazione del recettore dei linfociti T. L'assenza indotta del gene caratterizza l' EAE nel topo, mutazioni specifiche sono correlate con un'alta frequenza della MS nell'uomo.
Corea di Huntington. Fra i numerosi gruppi internazionali che stanno svelando i segreti eziopatogenetici di questa malattia e in particolare le implicazioni genetiche, segnaliamo quello italiano coordinato da E.Cattaneo; la corea di Huntington appare un modello di studio pluridisciplinare, coinvolgendo aspetti dell’evoluzione umana e di altri animali, nel cui ambito va oggi inquadrata ed eventi disregolatori della crescita cerebrale.
E’ coinvolto un gene, detto H, che presenta un numero variabile di ripetizioni della tripletta CAG, posta nella sezione iniziale; nell'uomo è situato sul cromosoma 4 ed è stato sequenziato nel 1993.
La malattia è molto diffusa in Venezuela, sulle rive del lago Maracaibo, ove colpisce 7/1000 individui e intere famiglie, portata da un viaggiatore europeo, a fronte di un’incidenza di 1/10.000 in Europa e nord-America.
Il gene nelle persone normali ha la tripletta CAG ripetuta da 9 a 35 volte; la malattia insorge quando le ripetizioni > 36. L'ereditarietà è di tipo dominante.
Il gene produce una proteina, la huntingtina, che nei malati è più lunga e tossica: si verifica degenerazione e morte dei neuroni, soprattutto nella corteccia e nel corpo striato, aree che presiedono a funzioni cognitive superiori e alla coordinazione dei movimenti. CAG è collegato alla glutammina; la proteina è formata da 3144 aminoacidi, la prima glutammina si inserisce in posizione 18 e da lì partono tutte le n-ripetizioni.
Evolutivamente, il gene è vecchio 800 milioni di anni e comparve in un'ameba, Dictyostelium discoideum, anteriore alla separazione degli animali in protostomi e deuterostomi (che includono i mammiferi): questi ultimi ereditarono il gene che nell'ameba non ha la tripletta CAG, la quale nell'evoluzione comparve successivamente e in seguito iniziò ad accumulare un numero elevato di ripetizioni; è stato ipotizzato che l'aumento numerico delle triplette abbia portato vantaggi selettivi: la caratteristica si è fissata e conservata nelle specie, è correlata ad un miglior adattamento all’ambiente e allo sviluppo di un SNC maggiormente organizzato, ma entro un determinato limite tollerabile, oltre il quale si possono sviluppare processi patologici, come la corea.
Nell'ameba il gene H contribuisce a regolare e coordinare la catena di eventi che le permette di aggregarsi in colonie pluricellulari; amebe prive del gene si muovono con difficoltà, si aggregano scarsamente, si riproducono in modo difettoso e non procedono verso le fonti di cibo, infine le spore sono poco differenziate e vitali e l'organismo non sopravvive nell'ambiente.
Negli insetti (protostomi) il gene H ha un comportamento diversificato: nella drosophila è lungo ma senza la tripletta CAG; privato del gene, il moscerino raggiunge la vita adulta ma invecchia precocemente, ha problemi motori e muore, inoltre le cellule nervose presentano un fuso mitotico alterato, cosa che non è stata osservata nell'uomo nemmeno in presenza di mutazioni. L'ape ha un gene con una singola tripletta CAG.
Un filtratore che vive nel fondo degli oceani, Ciona intestinalis, isolato da millenni nella sua nicchia ecologica, non ha la sequenza. Due triplette CAG sono possedute dal riccio di mare e dall'anfiosso, che presentano tuttavia differenze neurologiche sostanziali: il secondo ha un'organizzazione del SNC elementare ma che anticipa in alcuni particolari quella dei cordati e, nel gene H, a monte delle triplette è situata una sequenza di 17 aminoacidi simile agli animali superiori, che manca invece nel riccio, ove il gene non è presente nelle cellule nervose e l'organizzazione delle strutture neuronali è primitiva, ad anello radiale. Pesci, anfibi, rettili e uccelli hanno 4 CAG. Nei pesci, in particolare, il gene è responsabile del corretto sviluppo del tubo neurale e induce la produzione di una neurotrofina, BDNF, che protegge i neuroni in condizioni di stress. Anche nei mammiferi, il gene, con più triplette, induce la sintesi di neurotrofine.
Nei mammiferi il numero di triplette CAG nel gene H aumenta: sono 7 nel topo, 10 nella pecora, 12 nell'elefante, 7-16 nello scimpanzè, 9-35 nell'uomo: soprattutto compaiono nella stessa specie i polimorfismi, nei primati e nell'uomo, le triplette variano entro certi limiti. E' in corso uno studio evolutivo per analizzare la sequenza e i polimorfismi in primati attuali ed estinti.
In molte specie animali, le triplette, CAG e altre e dinucleotidi variano e influenzano l'espressione di un gene; inoltre le sequenze di glutammina, a seconda del numero, alterano la struttura e la funzione delle proteine e la capacità di interagire con altre molecole, modificando intere vie biochimiche.
Il gene H partecipa alla maturazione e allo sviluppo del sistema nervoso e pertanto, evolutivamente parlando, avrebbe grande importanza il numero di ripetizioni, come tratto acquisito: in quest'ottica “la malattia di Huntington e altre forme neurodegenerative non sarebbero altro che la conseguenza dell'imperfezione di un processo di mutazione che contribuisce allo sviluppo delle normali funzioni cerebrali” (Cattaneo). E' una conferma che l'evoluzione non agisce secondo un progetto preordinato: le forme mutate sarebbero una conseguenza indesiderata dal punto di vista dell'evoluzione.
Nella specie umana diversi individui presentano il cosidetto "allele intermedio", con un numero di ripetizioni compreso fra 27 e 35 e, nelle generazioni, la tendenza è all'allungamento del gene, ma non possiamo sapere se e quanto sia mutata la frequenza della corea. Sono iniziate ricognizioni del gene H nei genomi antichi in modo da confrontarne la struttura e la lunghezza con quelli attuali e formulare previsioni su base statistica per il futuro. Nella nostra specie, da tempo, il gene con il tratto lungo è stato trasmesso più facilmente, segno di un vantaggio selettivo.
Le funzioni del gene, nell'uomo, sono: precocemente, regola la gastrulazione, cioè la sistemazione dei 3 foglietti embrionali; nel feto e nell'embrione, la formazione di nuovi neuroni, l'adesione fra loro, il differenziamento e la migrazione nelle apposite aree corticali. Nell'adulto ha funzione neuro protettiva. Sperimentalmente, topi privati del gene e che pertanto non esprimono la proteina non formano affatto o lo fanno in modo scorretto sinapsi nella corteccia e nel corpo striato e mostrano una sindrome neuromuscolare simile alla corea di Huntington; le cellule infine in coltura crescono male. Il gene stimola la produzione di BDNF, una proteina critica per la formazione dei circuiti e la trasmissione dei segnali nervosi, soprattutto in condizioni di stress; l'huntingtina inoltre inibisce il silenziatore genico NRSE, che tende a bloccare la produzione di BDNF.
Nell'embrione, senza il gene le cellule non formano le rosette neurali (neuroni disposti attorno ad un lume per formare un tubo) in quanto non aderiscono tra loro: un enzima taglia le molecole di adesione; tutto viene ripristinato se è aggiunto il gene. Esperimenti condotti in cellule embrionali staminali in coltura dimostrano la formazione di rosette la cui conformazione morfologica è in relazione alla presenza di geni H a sequenza lunga: ma i risultati migliori si ottengono con le sequenze umane.
I biologi evoluzionisti avanzano l'ipotesi che il vantaggio evolutivo correlato all'acquisizione di un gene con numerose triplette CAG sia la formazione di un SNC maggiormente organizzato e complesso; in effetti più sono le ripetizioni, più l'animale è evoluto neurologicamente. Confrontando i dati genetici e la RMN, è stato dimostrato che i soggetti con più triplette CAG ripetute ma entro le 35 unità, presentano più sostanza grigia nel globo pallido, che controlla la pianificazione e la coordinazione dei movimenti e diversi processi cognitivi: quindi, più neuroni, più sinapsi, più possibilità. Non sappiamo ancora come il tratto troppo, > 35 ripetizioni, lungo generi una proteina tossica; "la malattia è probabilmente l'epifenomo di una storia evolutiva ancora in corso, di un esperimento di natura, di un miglioramento della specie di cui non possiamo per ora vedere e prevedere i confini" (Cattaneo).
Schizofrenia. Un ulteriore tipo di alterazione genetica è stata dimostrata in questa grave neuropatia: tessuti cerebrali di pazienti deceduti, ma anche di animali con patologie sperimentali simil-schizofreniche e cellule staminali indotte da malati di schizofrenia, presentano alti livelli di un retrotrasposone, LINE1, rispetto a persone senza questo disturbo o con altre malattie del sistema nervoso centrale. Ricordiamo brevemente che i (retro)trasposoni sono sequenze di materiale genetico, frammenti di DNA che si spostano nel genoma e si duplicano in n copie, attaccandole a distanza ad altre sequenze di DNA: possono causare, se entrano in contatto con geni, diverse alterazioni a carico di questi, particolarmente nella regolazione e nel grado di espressione.
Il nome deriva dalle modalità di duplicazione, che avviene mediante un RNA intermedio successivamente retrotrascritto a DNA ad opera di una trascrittasi inversa, così come conosciamo per i retrovirus. Il nuovo frammento può collocarsi in una posizione diversa del genoma, ma soprattutto provocare mutazioni in geni cui si associano, modificandone struttura o espressività.
La tipologia di queste molecole è articolata e complessa e LINE1, che interessa nella situazione che stiamo trattando, è una delle numerose classificate: è definita come "non long terminal repeat (nLTR)", senza lunghe sequenze ripetute che chiudono la molecola, come in altri casi; si dividono inoltre in "short o long interspersed nuclear elements, SINE o LINE", a seconda delle dimensioni. Le LINE hanno più di 5000 bp, codificano trascrittasi inverse utilizzate sia da LINE che da SINE, sono oltre 9.000.000 e rappresentano ben il 21% del nostro genoma: pertanto la loro replicazione e trasposizione può aumentare le dimensioni del genoma stesso. Ne sono stati individuati tre tipi, L1, L2 e L3, il primo molto diffuso tra i mammiferi.
Molti aspetti della biologia delle nLTR si stanno chiarendo, soprattutto le relazioni fra l’evento trasposizionale e l’insorgenza di patologie come la neurofibromatosi, alcune neoplasie e malattie mentali quali la schizofrenia.
Recentissimi aggiornamenti riguardo la biologia dei retrotrasposoni tipo SINE e LINE indicano che verosimilmente la loro origine è da ricercare in un passato molto remoto, allorchè furono trasmessi e inseriti nei genomi di animali e ominidi (oltre 2.000.000 di anni fa, forse in H.erectus) da virus a RNA, come i retrovirus, di cui hanno conservato numerose proprietà, ad esempio più di un passaggio molecolare durante la replicazione; questi frammenti “alieni” si sono fissati nel DNA dell’ospite e trasmessi nelle specie ominine successive e nelle generazioni. Un secondo dato, verificato nell’uomo e nel topo, ci informa che numerosi retrotrasposoni sono espressi nelle cellule embrionali e nelle cellule staminali pluripotenti indotte: nelle seconde giocano un ruolo determinante nell’espressione della pluripotenza e nella replicazione.
Numerose copie di LINE1 nei pazienti schizofrenici e nelle altre situazioni sperimentali indotte, si localizzano in prossimità di geni preposti al controllo delle connessioni e della comunicazione fra neuroni, modificandole sensibilmente. E' questa la prima segnalazione, nella schizofrenia, di ripercussioni funzionali provocate da alterazioni genetiche e per di più di un tipo particolarissimo.
A questo punto della ricerca si sono inseriti quei biologi evoluzionisti, che hanno ravvisato in queste scoperte aspetti e conferme di un nuovo filone di indagini e una rivoluzionaria, non sappiamo ancora quanto aderente alla realtà, visione della biologia umana (e non solo) e della struttura del DNA: ci riferiamo alla
meccanica quantistica nel DNA e alla cosidetta “Biologia quantistica”, nell'ambito della quale la schizofrenia potrebbe essere la prima patologia dimostrata anche secondo principi della fisica dei quanti.
La biologia quantistica è una nuova disciplina che si pone come obiettivo di coniugare principi e teorie della meccanica quantistica ad alcune situazioni e fenomeni biologici, partendo dalla constatazione che questi ultimi non hanno trovato finora una spiegazione esaustiva dell’ ordinamento strutturale o delle caratteristiche funzionali, se ci limitiamo a guardarli e interpretarli solo con l’ottica del naturalista, sia esso biologo o zoologo. Fenomeni biologici in cui è stata postulata una spiegazione quantistica sono la fotosintesi, il volo degli uccelli, in particolare nell’utilizzo di campi magnetici per orientarsi e soprattutto la struttura del DNA.
I fautori di un modello quantistico da estendere agli acidi nucleici sostengono che la doppia elica di DNA è destinata a rompersi in quanto non possiede energia sufficiente alla sua stabilizzazione e unitarietà, seguendo solo il modello classico così come proposto originariamente da Watson e Crick e successivi approfondimenti: uno dei fenomeni più importanti della meccanica quantistica, l’ “entanglement” (vedi oltre) può essere applicato alla struttura del DNA, anzi è essenziale in quanto contribuisce a stabilizzare la molecola. Ogni nucleotide può essere assimilato ad un nucleo atomico con carica positiva e circondato da una nube di elettroni; il movimento relativo di un nucleotide (nucleo e nube elettronica), insieme a quello di tutti i nucleotidi e alla vibrazione complessiva della catena molecolare (oltre 40.000 ocillazioni/sec), produce un fonone, ossia una quasiparticella che descrive un quanto di vibrazione in un reticolo cristallino. Secondo le leggi della meccanica quantistica, si può avere un entanglement tra fononi anche distanti simulando il comportamento complessivo di questa struttura vicino allo zero assoluto, in corrispondenza del quale si svolgono i fenomeni quantistici, ma gli Autori della nuova teoria sostengono che l’evento relativo al DNA si può svolgere anche a temperature “biologiche”, dimostrando la qual cosa (ritenuta possibile) verrebbe anche sottolineato il ruolo dell’entanglement quantistico come soluzione al problema della stabilità degli acidi nucleici.
Il fenomeno dell’ Entanglement è stato dibattuto dai fisici soprattutto dopo il 1935, allorchè Einstein, Podolsky e Rosen delinearono in una breve pubblicazione che, in un esperimento ideale, secondo la meccanica quantistica, una misura eseguita da una parte di un sistema quantistico poteva propagarsi istantaneamente ad un’altra parte dello stesso sistema: appunto l’essenza del fenomeno chiamato entanglement. Oggi definiamo meglio il concetto affermando che ogni stato quantico di uno o più sistemi fisici, di solito particelle, dipende dallo stato di ciascun sistema, anche se lo spazio che li separa è immenso. E’ pertanto possibile delineare un insieme formato da due o più particelle tale che, qualunque sia il valore di una proprietà di una, questa influenzi all’istante il valore di un’altra (o delle altre), che risulta uguale in modulo al primo ma opposto per carica.
In realtà i tre Autori lanciavano una sfida, sul cui esito favorevole per i fisici quantistici erano assai scettici, con lo scopo di evidenziare incompletezza e incongruenze dei principi della meccanica quantistica, in particolare l’infondatezza e la non dimostrabilità del principio di non-località, che è la base dell’entanglement. Negli anni successivi i fisici quantistici si sono seriamente applicati alla dimostrazione del principio, riuscendovi, secondo le proprie concezioni, dapprima da un punto di vista teorico e recentissimamente anche con alcuni esperimenti dall'esito positivo che sarebbero alla base del teletrasporto quantistico (teletrasporto di particelle subatomiche in spazi per ora limitati).
Considerando criticamente la questione senza pregiudizi verso la fisica classica o verso la fisica quantistica, l’intera materia rimane comunque ostica da comprendere e accettare soprattutto perché stride con il cosidetto senso comune: siamo abituati, oseremmo dire ancestralmente e geneticamente, più semplicemente per educazione culturale, a pensare ai fenomeni naturali come entità collegate secondo principi consecutivi e interconnessi di causa ed effetto, in una catena di eventi che è temporale e spaziale. In questa costruzione mentale è insito il principio di località, che è violato e superato dall’entanglemet quantistico: il cambiamento di stato di una particella influisce in modo diretto e immediato sullo stato fisico di un’altra particella, anche lontanissima nello spazio, teoricamente misurabile in anni-luce come descritto per le galassie, mentre tutti gli oggetti e tutte le particelle nel mezzo non subiscono alcun cambiamento. Finisce il rapporto di causa-effetto e il principio di località: per la fisica classica possono venir meno le basi della relatività speciale e dunque le costruzioni della fisica convenzionale. E’ chiaro che la visione che nasce da questi principi è completamente nuova e sovverte l’idea di spazio e universo che abbiamo avuto finora, la stessa non-località deve comunque trovare una collocazione più ampia e non rimanere un principio isolato, perché come tale non potrebbe né sussistere né resistere alla critica. E’ altrettanto chiaro che la dimostrazione definitiva di questi principi quantistici e la loro applicabilità in biologia, potrebbe mutare anche numerose nostre concezioni convenzionali sulla natura degli esseri viventi, come i codici genetici.
Come si inseriscono in tutto questo ragionamento la schizofrenia e le altre patologie umane da retrotrasposoni? Negli spostamenti e replicazioni in n copie di questi ultimi a distanza, nella molecola di DNA, sono state intraviste caratteristiche e conseguenze che richiamano il fenomeno dell'entanglement, anche se può sembrare azzardato assimilare particelle, atomi e molecole complesse; ma una volta ammesso e dimostrato che il nostro genoma, per strutturarsi e rimanere stabile, ricorre a principi fisici quali possiamo trovare nella meccanica quantistica, così come propongono i biologi evoluzionisti che propugnano queste teorie, il passo da un'anatomia strutturale, ad una fisiologia e quindi una patologia nell'ambito della biologia quantistica può non essere poi così improbabile. Ecco dunque che gli spostamenti e le replicazioni a distanza, conservando le proprie caratteristiche, di molecole quali i retrotrasposoni potrebbero essere inquadrati alla luce di questo nuovo, non rivoluzionario, ma complementare modo di osservare un genoma e gli effetti intercorsi e derivati dall'interazione fra DNA e repliche di molecole quali LINE1 nella schizofrenia e altre patologie costituirebbero le prime malattie accertate di una nuova biologia, oggi quasi "folle", come recita il nostro titolo, agli occhi dei più, domani, forse, una realtà scientifica. Senz'altro, per il momento, un diverso, affascinante programma di ricerca.
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