PROBLEMI ETICI

DELL’ASSISTENZA AL NEONATO AD ALTO RISCHIO

 

Prof. Mauro Barni

Emerito di Medicina legale nell’Università di Siena

 

 

Il tema delle decisioni mediche da assumere da parte dell’ostetrico e segnatamente del neonatologo nella condizioni cliniche connotate o suggerite soprattutto da estrema immaturità fetale, finisce irrimediabilmente con il riconoscersi nel concetto clinico e medico-legale di vitalità che è stato fin qui compiutamente esaminato da Rodolfo Bracci e da Marcello Orzalesi: un concetto che si arricchisce di sempre nuove e più suggestive e pressanti evidenze e prospettive, coerenti, per l’appunto, con il progresso clinico-scientifico assolutamente incessante che ha rimesso in discussione le certezze anche etiche sul nascere esaltando le chances di sopravvivenza e spostando a ritroso nel tempo le lancette dei limiti cronologici della viability, sino a qualche decennio fa addirittura tradotte in scadenze giuridiche.

Ed appare straordinaria ormai la proliferazione in ambito medico di indirizzi comportamentali e di linee-guida anelanti alla armonizzazione delle opzioni mediche con la maestosità dei presupposti e delle garanzie etiche, deontologiche, giuridiche, cui ansiosamente aspira l’operatore come ad acquietanti illuminazioni di un percorso difficile.

A me preme peraltro fornire una mera postilla ad una così esaustiva messa a punto specialistica dei nuovi modelli di approccio della neonatologia più informata tendente appunto e prioritariamente alla salvaguardia della vita del feto estremamente pretermine (ed in proposito si impone su ogni altro il limite tra 22a e 23a settimana di vita intrauterina) e precisare alcuni indirizzi ed ancoraggi medico-legali fortemente proposti dal diritto codificato e dal diritto “vivente” in ambito non solo penale.

La ragione del dubbio operativo e, a monte, del contendere razionale, discende naturalmente dal principio non discutibile ma nemmeno esasperabile della sacralità della vita personale: valore e principio la cui tutela impone comportamenti inderogabili di salvaguardia. Il diritto (e la cornice nella quale mi permetto una doverosa evocazione è quella disegnata dalle leggi italiane) stabilisce in effetti che la capacità giuridica per cui si diviene partecipi della società e dei suoi ordinamenti si acquisisce con la nascita ma non ne subordina il conseguimento alla piena maturità fetale, e neppure, all’avvenuto distacco della madre dovendosi invece giuridicamente considerarsi, come impone la definizione del reato di infanticidio-feticidio estensibile in termini analoghi al feticidio, alla condizione cioè del nato al feto nascente ch’è tale all’inizio del processo del nascere e cioè del parto. Ancor più anteriormente all’individuo umano che si sviluppa nell’alveo materno, è garantita una assoluta salvaguardia, che assimila la attualità della vita autonoma alla capacità di intraprenderla con l’aiuto della terapia non solo rianimatoria. Ed è appunto per questo tratto della vicenda umana che vale il classico concetto medico-legale di vitalità, uno status che predilige paradossalmente la valutazione diagnostica rispetto alla prognostica … come d’altronde esige il fondamentale riferimento penalistico alla fattispecie: la legge cioè sulla interruzione volontaria di gravidanza la quale impone al medico determinato all’aborto terapeutico per la ricorrenza di una effettiva gravità del pericolo, di farsi carico della sopravvivenza del feto vitale oltre che della madre (in pericolo di vita), ponendo in essere ogni idoneo impegno ed ogni attenzione terapeutica. La vitalità è dunque la espressione giuridicamente costitutiva del diritto alla vita di persona non ancora autonoma cui va pertanto assicurata ogni tutela anche da parte del medico che a questo punto si trova di fronte ad un duplice obiettivo. L’assenza del requisito della vitalità non nega ( sia detto con molta forza) né attenua ma solo condiziona il carattere di individuo umano del feto non ancora pervenutovi e tantomeno all’embrione non impiantato cui è dovuto e non solo ex lege ogni rispetto in forza di principi giuridici generali e di valori etici che vi incidono e ne promanano.

La “rianimazione” del feto o dell’infante pretermine in condizioni di presunta o certa vitalità costituisce dunque un impegno operativo clinicamente assoluto e non derogabile, subordinato solo alla “vita” della madre; un impegno non defettibile se e sin quando persista una qualche ragionevole prospettiva di vita autonoma; non ha invece senso né finalismo né giustificazione oltre che clinica, giuridica, allorquando siffatta potenzialità non sussista o sia venuta meno, sempre che non si voglia indulgere (ma non si deve!) all’accanimento rianimatorio dettato da meri intenti difensivistici o da esasperazioni ideologiche.

Il problema giuridico di fondo si traduce dunque nella definizione dell’annodato dilemma vita/morte che non è mai facilmente risolubile e lo è tanto meno allorché il concetto di vita sia affidato allo sfuggente e assai meno oggettivo riferimento alla vitalità (o non) cui non possono non afferire criteri probabilistici e parametri discriminatori. Al limite, così come la medicina, anche il diritto resta dolorosamente perplesso nella ricerca di una verità spesso inattingibile.

Se queste sono le coordinate giuridiche della problematica in questione, intorno ad esse si sviluppa un florilegio deontologico di grande respiro, sensibilissimo al progresso clinico-scientifico e produttivo di confortanti indirizzi. E così si tracciano e si armonizzano e si illuminano le vie su cui indirizzare la condotta del neonatologo, siffattamente confortata da una segnaletica credibile che non può sopraffare la potestà professionale animata da scienza e coscienza ma, anzi, la fortifica e la conforta per la rilevanza dei dati e delle esperienze che vi convergono, autorevoli e apprezzabili, anche se prive di esaustività e di applicabilità costante e assoluta.

Se questo è il senso degli indirizzi, ad esempio, delle società scientifiche, restano notevoli problemi deontologici (soprattutto nei casi di massima incertezza gravati da una prognosi infausta quoad vitam et valetudinem e, più latamente, riferiti alla qualità della vita del nato) che connotano il rapporto medico/rappresentanti legali dell’infante e che presuppongono l’apporto decisionale della madre (se ancora non si è interrotta la gravidanza), di entrambi i genitori (o di chi esercita la tutela) se l’infante è già protagonista inconsapevole della vicenda terapeutica. Devesi in ogni caso la più accurata ed amorevole informazione sulla realtà vitale in atto o in fieri o in futuro prevedibile e l’ascolto sereno della volontà di assenso o di dissenso nei confronti degli interventi proposti, che va soddisfatta ma non oltre i limiti del decoro professionale da un lato, del dovere, dall’altro, di tutela della vita ove vi siano fondati motivi di successo rianimatorio o terapeutico, essendo in questi casi prevalente sull’obbligo di rispetto delle scelte dei legali rappresentanti, la posizione di garanzia del medico. Al di sopra di ogni implicazione deontologica va comunque resa comprensibile da parte del neonatologo la rappresentazione del rischio di gravi precarietà vitali e di patologie invalidanti, d’indole soprattutto neuro-psichica, che incombono sul feto estremamente pretermine, specie se rafforzato dalla evidenza di esami complessi e dalla eloquenza di test genetici. Non si tratta di riserve sul diritto alla vita né di legittimazioni preconcette di un diritto a nascere sani o addirittura a non nascere (ormai sostenuto in ambito civilistico) testimoniato dall’aumento dei procedimenti nei confronti di medici che non abbiano esposto le probabilità di wrongful birth o di wrongful life; ma si tratta di un richiamo alla serenità della ragionevolezza e all’etica della responsabilità.

Per attingere una decisione corretta non è in effetti sempre proponibile il ricorso ad un’équipe di councelling, che non è privo di implicazioni relative alla privacy e non è mai sostitutivo della potestà medica, e tanto meno ad un comitato etico o ad un giudice. Il comitato etico può solo pronunciarsi su ipotesi generali mentre il giudice tutelare può solo raccomandare il miglior interesse dell’infante: ma l’onere decisionale resta ineludibilmente confidato al neonatologo, che, in ogni caso, dovrà compiutamente documentare le ragioni della sua condotta.

E così non rimane che lo spazio per una brevissima considerazione bioetica. La scelta medica definitiva non può non ascoltare il messaggio dell’etica medica, che richiama al mistero della vita non soluto dalle ideologie ma confidato al primato professionale che si avvale, da sempre, di scienza e di coscienza, ma che deve saper ricorrere, per ogni opzione, alla assunzione diretta e convinta di una indelegabile responsabilità.