Prof. Alessandro Balducci
Primario Nefrologo - Azienda Ospedaliera S.Giovanni – Addolorata - Roma
La storia dell’anemia nelle malattie renali parte da molto lontano, addirittura si potrebbe situare al momento del passaggio dal nomadismo alla sedentarietà.
Difatti il cibarsi di alimenti derivanti dalle monoculture (grano e mais) portò ad una carenza di ferro evidente nelle alterazioni ossee (iperostosi porotica con espansione della diploe e cranio a spazzola) degli scheletri risalenti al 5000-7000 a.c.
Questa vicenda attraversa a sbalzi la storia della umanità per arrivare al XIV – XV secolo con la definizione di clorosi come anemia nelle giovinette con il conseguente colorito giallo-verde della cute.
Suggestivamente si parla anche di febbre bianca o malattia d’amore o ancora di morbus virgineus riferito alle perdite mestruali (ed ai primi palpiti amorosi … ) delle adolescenti ,che poi divenivano più rare con il matrimonio e le continue gravidanze ed allattamenti che a loro volta sopprimevano il ciclo quasi in permanenza.
Con uno strappo successivo occorrerà arrivare a fine ‘700 - inizio ‘800 per avere una definizione moderna di anemia e la sua correlazione alle malattie renali [1].
A seguire Robert Christison nel 1839 [2] farà delle osservazioni quantitative sulle differenti concentrazioni di emoglobina (denominata ematosina) nei soggetti sani ed ammalati ed anche tra uomini e donne, oltre che a correlarle alla durata del processo morboso come nei casi 9 e 14 (fig. 1).
Negli anni ’50 dello scorso secolo riprendendo gli esperimenti di Carnot di inizio ‘900 viene identificato un ormone chiamato eritropoietina (EPO) che regola la concentrazione di emoglobina.
Da allora il cammino si fa vertiginoso con l’identificazione del rene come sorgente di produzione, la purificazione, clonazione e sequenziazione dell’ormone medesimo e le prime somministrazioni in vivo a metà degli anni ’80. Oggi il trattamento con EPO è pura routine e paradossalmente si discute dei possibili effetti negativi quando viene raggiunto un “target” di emoglobina (Hb) troppo elevato; ma questo non deve farci dimenticare la qualità di vita dei nefropatici ed in particolare dei dializzati fino a soli venti anni fa, quando dovevano ricorrere a trasfusioni mensili o anche più frequenti e vivere in permanenza con valori di Hb tra 6 e 8 g/dl, con le logiche conseguenze sulla fisiologia cardiopolmonare.
Non solo i dializzati, ma anche i nefropatici cronici hanno una elevata mortalità cardiovascolare su cui l’anemia agisce come moltiplicatore del rischio: la coesistenza di insufficienza renale cronica ed anemia presenta un rischio relativo di mortalità pari a quello di diabetici non nefropatici ma affetti da scompenso cardiaco. Dobbiamo dunque interrogarci sul ruolo svolto dall’anemia da un lato nei cardiopatici con compromissione della funzione renale e dall’altro nei pazienti con nefropatia sia primitiva che secondaria.
L’anemia causando ipossia tissutale e vasodilatazione periferica determina un’attivazione del sistema nervoso simpatico e dell’asse renina – angiotensina - aldosterone. Il risultato finale sarà lo sviluppo di una ipertrofia ventricolare sinistra con passaggio dall’ipertrofia concentrica a quella eccentrica (a sua volta causata dal sovraccarico di volume) con conseguente dilatazione cardiaca e scompenso congestizio irreversibile. In questi pazienti l’anemia è associata con l’incremento della mortalità e la maggior gravità dello scompenso: tanto più bassi sono i valori di emoglobina, tanto minore è la sopravvivenza [ 3]. Una conferma “ex iuvantibus” l’abbiamo correggendo l’anemia con l’EPO: miglioramento della frazione di eiezione, diminuzione della classe funzionale di scompenso, ripristino della risposta alla terapia diuretica anche per os.
D’altronde, a testimonianza del circolo vizioso esistente tra scompenso ed anemia, sta il fatto che varie condizioni caratteristiche di quest’ultimo (aumentata produzione di citochine ed emodiluizione) sono esse stesse causa di anemia.
In conclusione correggere l’anemia nei pazienti con scompenso cardiaco congestizio, tanto più se affetti da insufficienza renale cronica, è IMPERATIVO, ma non vi sono certezze sul valore di emoglobina da raggiungere. Alcuni studi non hanno mostrato beneficio nel perseguire un valore soglia di Hb superiore ai 13 g/dl [4 ] e le attuali raccomandazioni della FDA suggeriscono un intervallo tra 11 e 12 g/dl nei pazienti con insufficienza renale cronica (IRC).
I diabetici nefropatici hanno una prevalenza di anemia maggiore rispetto alla popolazione generale (più del doppio) e questo condiziona anche la frequenza di microalbuminuria che è più elevata negli anemici. Altresì studi su popolazioni urbane di comunità hanno rilevato l’effetto sinergico di anemia e modesta riduzione della funzione renale in termini di aumentato rischio di eventi coronarici e mortalità [ 5].
I soggetti che affluiscono agli ambulatori di Nefrologia sono per lo più anziani (età media 65-70 anni), ipertesi, spesso diabetici e con IRC allo stadio 3 (30-60 ml/min di filtrato glomerulare) :essi costituiscono dunque una popolazione ad alto rischio di morte o di eventi cardiovascolari. In questi casi un calo della emoglobina si verifica soprattutto negli stadi più avanzati di nefropatia (<30 ml/min di filtrato).
Mentre è data per acquisita la necessità di trattare con EPO in presenza di valori di Hb <11 g/dl, non è risolto il quesito relativo ai valori “target” massimali. Anzi due studi comparsi a fine 2006 (CREATE e CHOIR) hanno gettato l’allarme e posto grande cautela rispetto ad una “ipercorrezione” dell’anemia.
Al di là delle considerazioni metodologiche che si possono fare sugli studi medesimi alcune conclusioni possono comunque essere tratte come nella fig.2. Di certo i vantaggi ottenuti grazie alla scoperta dell’EPO sono indubitabili, sia per la qualità della vita che per la regressione dell’ipertrofia ventricolare sinistra, uno dei principali determinanti della mortalità cardiovascolare.
La cautela che si impone nello spingersi troppo in là deve essere insita nel buon senso clinico e nell’antico adagio PRIMUM NON NOCERE…
BIBLIOGRAFIA
1) Andral G. Essai d’Hématologie Pathologique, Fortin et Mason. Paris 1843.
2) Christison R. On Granular Degeneration of the Kidnies and its Connexions with Dropsy Inflammations and Other Diseases.Black,Edinburgh : 63-74,1839
3) Al-Ahmad A. Reduced kidney function and anemia as risk factors for mortality in patients with left ventricular dysfunction. J Am Coll Cardiol, Oct;38(4):955-62,2001
4) Anand IS. Anemia and change in hemoglobin over time related to mortality and morbidity in patients with chronic heart failure: results from Val-HeFT. Circulation, Aug 23;112(8):1121-7,2005
5) Astor BC. Kidney function and anemia as risk factors for coronary heart disease and mortality: the Atherosclerosis Risk in Communities (ARIC) Study. Am Heart J. Feb,151(2):492-500,2006
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Fig. 1 |
Fig. 2 |